“Vivere tutto”: considerazioni attorno Le imperdonabili di Laura Boella

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Paola Quadrelli

In un’edizione aggiornata e ampliata riappare il volume di Laura Boella Le imperdonabili. Milena Jesenská, Etty Hillesum, Marina Cvetaeva, Ingeborg Bachmann, Cristina Campo (Mimesis 2013, pp. 183). Alle „imperdonabili“ della prima edizione, pubblicata nel 2000 presso l’editore ferrarese Tre Lune, si aggiunge ora Milena Jesenská, la giornalista e traduttrice ceca, destinataria delle famose Lettere a Milena di Kafka. Il titolo del volume è desunto dal saggio del 1964 di Cristina Campo in cui tra gli “imperdonabili“ vengono annoverati quei poeti, come i prediletti Gottfried Benn o Marianne Moore, che in un’“epoca di progresso puramente orizzontale“, in una società massificata che tiene in dispregio la bellezza, coltivarono la disciplina solitaria dello stile, affinarono le forze spirituali e anelarono a quella perfezione della forma che è, al contempo, passione di verità. La ricerca della perfezione non è, infatti, per la Campo mero esercizio estetizzante, bensì percorso di ascesi personale, di disponibilità all’altro, di conoscenza della realtà, condotto in costante, sebbene talora implicita dialettica con la storia e il tempo presente. 

Come osserva Boella, „la perfezione degli imperdonabili nasce in una posizione eccentrica rispetto al proprio tempo“; significa  „dissidenza dal gioco delle forze“ (Campo), consapevole inattualità, rifiuto dello spirito del tempo ma non fuga dalla società e dalla storia. Ciò che accomuna infatti le cinque scrittrici qui presentate è  l’immersione appassionata e dolorosa nel proprio tempo, l’incontro incandescente con le tragedie del Novecento che per talune di esse si rivelò fatale: la Jesenská e la Hillesum morirono in campo di concentramento, la vita della Cvetaeva, che si suicidò nel 1941, fu spezzata dalla rivoluzione, mentre l’ingresso delle truppe naziste a Klagenfurt segnò per la Bachmann una cesura biografica e divenne il fulcro attorno a cui ruotò la sua riflessione intellettuale e poetica. La stessa Bachmann affermò l’impossibilità per un artista moderno di sottrarsi al contesto storico in cui egli vive. „Oggi nessuno è più disposto a credere che la poesia nasca al di fuori di una situazione storica precisa“, afferma la poetessa nella prima delle lezioni di poetica tenute a Francoforte.

Nel secolo delle ideologie, il confronto con la propria epoca non avviene tuttavia per queste figure femminili attraverso il linguaggio schierato e dogmatico della politica, ma si manifesta come esperienza personale di dolore dinanzi al disprezzo dei valori umani, alla negazione della perfezione, al rifiuto della tradizione e della spiritualità. “Esperienza” è vocabolo centrale nell’esposizione di Boella, che con esso intende il “processo spirituale” di chi vede, sente, pensa e si espone alla vita e alla storia “senza ombrello” (Hannah Arendt), di chi non riesce a tracciare una linea di distacco tra sé e i dolori del prossimo. L’Io individuale, oggetto di intensa introspezione e interlocutore attento nella scrittura di pensatrici e poetesse che eccelsero nell’arte della scrittura epistolare (in particolare Campo e Cvetaeva) e della prosa diaristica (Hillesum), diviene dunque per usare un’espressione della Hillesum, „campo di battaglia“ dei problemi che attraversano il tempo presente.

„L’Io non è più nella storia, ma è la storia, oggi, a essere nell‘Io“ è la celebre e di per sé criptica frase di Ingeborg Bachmann a cui l’autrice ricorre più volte nel corso del suo studio per sottolineare la disponibilità delle “imperdonabili” ad accogliere e a farsi “grembo e custodia” (Boella) delle tragedie del proprio tempo, dei dolori e delle angosce degli altri. Va tuttavia osservato che Boella, che diffida espressamente del “rigore germanistico” con cui è stata trattata l’opera della Bachmann, travisa quella frase nel momento in cui la estrapola dal suo contesto. La sentenza bachmanniana appare nella terza lezione francofortese, intitolata “L’Io che scrive”, a conclusione di un confronto tra l’Io che scrive nel romanzo moderno (la Bachmann si riferisce in particolare alla Coscienza di Zeno) e l’Io che scrive nel romanzo ottocentesco (il Werther di Goethe). La consapevolezza espressa da Zeno Cosini che ogni confessione scritta è menzognera conferma l’ipotesi della relatrice secondo cui l’Io sfaccettato e inaffidabile del romanzo moderno non costituisce più una garanzia per la storia che egli racconta. Senza inoltrarci nell’interpretazione di questo passo complesso, è tuttavia evidente che si tratta di un brano di esclusiva valenza poetologica in cui il termine “storia” è l’equivalente di “racconto”, allude cioè all’insieme delle vicende narrate nel romanzo e non ai problemi del tempo e alle tragedie del Novecento cui sembra rinviare Boella nella sua interpretazione.

Al di là di questa annotazione critica, va riconosciuto però all’autrice il merito di avere rimarcato con vigore l’estraneità ai dogmi della politica e ai dettati delle ortodossie religiose che connota tutte le cinque “imperdonabili”.[1]

Imperdonabile è la posa intransigente e altera della Cvetaeva, che avversò la rivoluzione bolscevica ma si rese pure invisa ai letterati dell’emigrazione e imperdonabile, nell’era dell’engagement, è la sua concezione antistoricistica della poesia, che è dialogo inesausto con il passato, presagio del futuro e specchio dell’eterno: essere contemporaneo significa, dunque, per un artista – afferma la Cvetaeva – creare il proprio tempo, non rifletterlo, e antitetica alla contemporaneità dell’arte, che è „influsso dei migliori sui migliori“, è l’attualità.[2]

Imperdonabile, nel decennio di maggiore adesione della cultura italiana al marxismo, è il percorso solitario di Cristina Campo tra fiaba e liturgia, sviluppato attraverso una scrittura saggistica intessuta di prosa e poesia, sospesa tra meditazione e racconto e che, come tale, è stata idealmente affiancata dalla critica proprio alla prosa di Marina Cvetaeva, anch’essa caratterizzata da quella concentrazione del pensiero, da quel rifiuto del superfluo e da quella densità della parola che connotano i saggi della Campo[3].

Imperdonabile, addirittura scandalosa è la reazione di Etty Hillesum dinanzi alla persecuzione ebraica e alla catastrofe imminente. Nel suo Diario 1941-43, finalmente disponibile anche in italiano nella versione integrale (Adelphi 2012), la Hillesum mostra di non cedere all’odio e alla disperazione, ma assume un atteggiamento di resistenza morale che riposa nella fede in Dio e in un acquisito sentimento di libertà e pace interiore. La giovane, impiegata presso il Consiglio ebraico di Amsterdam, chiede nel luglio 1942 di essere trasferita nel campo di transito di Westerbork e un anno dopo, posta dinanzi all’alternativa tra ritornare ad Amsterdam o assumere lo status di „residente“ nel campo, decide di restare a Westerbork, da dove partirà il 7 settembre 1943 con un convoglio diretto ad Auschwitz. La scelta di condividere il destino del proprio popolo non implica tuttavia da parte della Hillesum passiva rassegnazione o indifferenza, ma si configura come il culmine di un percorso di raccoglimento e di affinamento della sensibilità di cui i diari danno eloquente testimonianza. La dialettica, intrinseca alla pratica diaristica della Hillesum, tra auscultazione del proprio Io e interlocuzione con la realtà esterna („Vivere totalmente sia fuori che dentro di sé, non sacrificare nulla della realtà esteriore alla vita interiore, ma nemmeno il contrario“) si configura per Boella come riferimento esemplare per il tipo di scrittura proprio delle imperdonabili; scrittura variegata, che si esprime in una pluralità di forme (lettere, diari, quaderni, saggi, traduzioni), che attinge dall’esperienza e dalla vita vissuta, che si nutre di relazioni di amore e di amicizia, di condivisione compassionevole delle sofferenze altrui e che diviene „accoglienza, ospitalità, incontro, relazione“ (Boella, pag. 32).

La quinta figura femminile che appare in questa nuova edizione è – si diceva all’inizio – la giornalista praghese Milena Jesenská, fuoriuscita dal Partito comunista nel 1936 in dissenso dalla politica staliniana, autrice per il settimanale liberal-democratico Přítomnost di editoriali e commenti su questioni di politica attuale (la situazione dei Sudeti, il Patto di Monaco, l’Anschluss, l’ingresso delle truppe hitleriane a Praga il 15 marzo 1939), collaboratrice alla rivista clandestina V Boy e membro attivo di un gruppo che favorì l’espatrio di ebrei e comunisti perseguitati. Arrestata per la sua attività politica nel novembre 1939 dalla Gestapo, Milena muore nel campo di concentramento di Ravensbrück nel 1944. Per ricostruire la personalità inquieta e anticonformista e il coraggioso operato della Jesenská, Boella ricorre principalmente ad alcune antologie di suoi articoli e al libro di memorie a lei dedicato da Margarete Buber-Neumann che conobbe la Jesenská a Ravensbrück e ne divenne amica.

Centrale, inoltre, per la riflessione sul destino tragico di Milena qui elaborata dall’autrice è il testo di una conferenza del 1993 di Karel Kosík, apparsa anche in italiano con il titolo „Il secolo di Grete Samsa“. In questo testo, complesso e per certi aspetti sorprendente, il filosofo ceco eleva la figura di Grete Samsa, la sorella del protagonista de La metamorfosi di Kafka, al ruolo di „anti-Antigone“. Grete Samsa, insofferente del fratello, incurante della sua morte e impaziente di spazzarne via i resti per proseguire tranquilla la propria vita, simboleggia nella riflessione di Kosík, la „banalità del male“. Alla convinzione espressa da Kafka nella sua opera, secondo cui il nostro tempo è un periodo fondamentalmente sfavorevole e nemico del tragico, Kosík contrappone proprio il destino e l’atteggiamento morale di Milena, la quale, come l’ Antigone sofoclea, esce dalla „folla silenziosa e spaventata“ (Kosík) per parlare ed agire contro un ordine delle cose governato dal Male. Milena, prosegue Kosík, si oppose nel periodo tra l’autunno del 1938 e l’autunno del 1939 alle tre forme del male allora presenti: il male del nazismo, il male del bolscevismo russo e il male rappresentato dal Patto di Monaco con cui Francia e Inghilterra accettarono la cessione di territori della Cecoslovacchia alla Germania hitleriana, tradendo in tal modo gli ideali di libertà e democrazia.

L’autrice ripercorre la produzione giornalistica della Jesenská a partire dagli articoli e reportage del periodo viennese dedicati ad argomenti di varia natura (il matrimonio, la pubblicità, la moda, lo sport), nei quali traspaiono un’attenzione sottile ed empatica per le persone e le loro miserie, un’acuta capacità di analisi dei problemi sociali e dai quali emergono l’esaltazione dell’eros e della vitalità fisica, la celebrazione delle piccole gioie concrete della vita (camminare, nuotare, andare in bicicletta) e, al contempo, un costante rimando alla responsabilità individuale. Di fatto, argomenta Boella, non esiste una cesura nel giornalismo della Jesenská; gli articoli di argomento politico degli ultimi anni Trenta non si contrappongono alla produzione precedente di tematica più frivola, poiché “la visione della vita formulata negli anni precedenti diventa [negli articoli del biennio 1938-39, NdR] una chiave di lettura politica degli avvenimenti” (Boella, pag. 57).

Si riconferma anche per la Jesenská quell’impegno affrancato da ogni ideologia che costituisce il tratto comune delle imperdonabili: la “presa diretta” con la vita, testimoniata negli articoli degli anni Venti, ricchi di ritratti attenti e sensibili di luoghi e persone, permette ora a Milena di cogliere la tragedia umana causata dalla “falsa pace” imposta dal Patto di Monaco, ovvero la negazione delle condizioni elementari di esistenza a centinaia di migliaia di profughi che abbandonarono il territorio dei Sudeti. Esemplare dell’atteggiamento di risoluta e paziente contrapposizione del singolo al disordine del mondo, propugnato dalla Jesenská, è la postura di colui che sta fermo, saldo sulle proprie gambe, proteso ad affermare con calma e fermezza la propria presenza sulla scena degli avvenimenti. Il coraggio di “stare fermi”, celebrato da Milena in un articolo il cui titolo in tedesco è, appunto, Die Kunst stehen zu bleiben”, è la virtù che informa di sé ogni gesto di interposizione del singolo all’ingranaggio del mondo. Boella ricorda, a tal proposito, il sacrificio individuale di Jan Palach (che non avvenne, tuttavia, nell’agosto 1968, come sostiene l’autrice, bensì nove mesi dopo, in segno di protesta dinanzi alla “normalizzazione” imposta dai sovietici al governo ceco) e la resistenza solitaria e silenziosa dello studente cinese parato di fronte ai carri armati in piazza Tienanmen (l’episodio non risale però al 2001, come si sostiene curiosamente nel libro, ma al giugno 1989).

Nel percorso tracciato nel volume si percepiscono in filigrana due personalità capitali della cultura europea del Novecento: Rainer Maria Rilke e Simone Weil. Rilke, che costituisce uno dei “fari” a cui si orienta Etty Hillesum, presiede il lavoro di raccoglimento, di ascolto interiore, di faticosa rielaborazione dei sentimenti e delle emozioni veicolate dall’esperienza e di paziente accoglienza dell’altro che connota l’operato di tutte le cinque pensatrici prese in esame nel volume. Rilke è anche colui che insegna come la ricerca di perfezione individuale sia il presupposto imprescindibile per il miglioramento della realtà esteriore: “Non credo più che si possa migliorare qualcosa nel mondo esterno senza aver prima fatto la nostra parte dentro di noi. È l’unica lezione di questa guerra; dobbiamo cercare in noi stessi, non altrove”[4] annota la Hillesum riguardo alla constatazione della presenza universale del male negli uomini.

L’adesione a un progetto di vita che accoglie una realtà intrisa di dolore e di contraddizioni e la trasforma in esperienza spirituale è ciò a cui allude Rilke con quell’invito a “vivere tutto”, avanzato nella Lettera al giovane poeta, e a cui si richiamano, non a caso, sia Etty Hillesum che Cristina Campo.[5]

Più evidenti, anche nella esposizione dell’autrice, sono i rimandi a Simone Weil, una pensatrice ineludibile nel percorso intellettuale di Cristina Campo e di cui fu pure una precoce e attenta lettrice Ingeborg Bachmann, che alla Weil dedicò un saggio radiofonico nel 1955. Come osserva l’autrice del presente volume, la Campo mutuò da Simone Weil il suo vocabolorio interiore, accogliendo parole tipicamente weiliane, quali attenzione, gioco delle forze, grazia, nudità, bellezza, e intese la scrittura, weilianamente, come la via verso il sacro e il soprannaturale. Con la Weil, tutte le scrittrici considerate nel volume condividono, del resto, l’atteggiamento di chi si schiera appassionatamente dalla parte degli oppressi e la persuasione che ascesi personale e riscatto dell’umanità, aspirazione al sacro e adesione all’esperienza sensoriale e concreta non siano poli in reciproca contraddizione ma elementi inscindibili dell’essere uomini.

Intento dichiarato di Boella è anche quello di sottrarre queste cinque scrittrici alla mitizzazione cui, a suo giudizio, esse sono state sottoposte da interpreti superficiali che avrebbero accentuato eccessivamente i lati eccentrici e la straordinarietà di queste “sacerdotesse dell’assoluto”. Invero, l’ambizione di Boella si basa su presupposti molto fragili; innanzitutto molte, se non tutte queste scrittrici sono state oggetto di biografie recenti, rigorose, documentate e aliene da ogni astrazione leggendaria. Cristina De Stefano ha ricostruito con precisione e sensibilità la biografia della Campo (Belinda e il mostro, Adelphi 2002), sottolinenadone i legami con l’ambiente dell’ermetismo fiorentino oltre che le collaborazioni ai quotidiani e intaccando dunque il mito della scrittrice solitaria ed appartata, mentre per la Cvetaeva esiste, oltre alla biografia “storica” di Simon Karlinsky (Guanda 1989), anche quella più recente di Viktoria Schweitzer (Mondadori 2006). Molto vasta è la bibliografia, anche in italiano, su Etty Hillesum e quanto alla Bachmann va ricordato se non altro il volume di Hans Höller che, ad onta del titolo apposto all’edizione italiana (La follia dell’assoluto), non indulge alla stilizzazione della Bachmann come una sognatrice ingenua e indifesa ma la ritrae piuttosto come una professionista che seguiva con intelligenza e senso pratico i propri affari letterari in un ambiente prevalentemente maschile.

In secondo luogo, la scrittura suggestiva, vibrante di risonanze poetiche, talora manierata e sentimentale (e non sempre perspicua) di Laura Boella, il ricorso a citazioni spesso estrapolate dal contesto e un’esposizione che indulge alle divagazioni più che a una argomentazione rigorosa e serrata non paiono essere di per sé gli strumenti migliori per una lettura “critica”. Da considerare, infine, che lo stesso epiteto di “imperdonabili” scelto dall’autrice contribuisce ad avvolgere le scrittrici in un alone leggendario e le proietta in un’algida lontananza, sicché il titolo del libro sembra in contraddizione con il dichiarato intento demitizzante.

Un’altra questione di metodo non sufficientemente chiarita nel volume riguarda la specificità di genere delle “imperdonabili”. L’autrice sceglie deliberatamente cinque figure femminili senza tuttavia chiarire in che cosa consista la specificità femminile della loro scrittura, ovvero se l’imperdonabilità da lei delineata si configuri esclusivamente come una qualità femminile o non anche maschile. Il rassemblement tutto femminile proposto da Boella contrasta oltretutto con la volontà dell’autrice di non ingabbiare la produzione letteraria delle “imperdonabili” al loro essere donne, una volontà che pare trasparire dal ricorso dell’autrice al termine “poeta” e “poete” al posto di “poetessa” e “poetesse”.

Nonostante queste riserve, va tuttavia riconosciuto all’autrice, anzitutto, il merito di aver fornito con questo volume un inedito ritratto di Milena Jesenská, sempre relegata altrimenti al ruolo, onorevole ma riduttivo, di amica di Franz Kafka; pregio specifico del libro di Boella è, inoltre, l’aver sottolineato nei suoi profili l’afflato spirituale e il rigore morale di cinque scrittrici che hanno vissuto con intelligenza e compassionevole sensibilità le tragedie del proprio tempo.

Paola Quadrelli


[1]    Si può osservare, inoltre, che le cinque “imperdonabili”, sono accomunate dalla collocazione editoriale (Adelphi) delle traduzioni italiane delle loro opere. Se ciò non vale per Milena Jesenská, va tuttavia ricordato che Adelphi pubblicò la traduzione italiana dell’importante testo dedicato a Milena dall’amica Margarete Buber Neumann (Milena, l’amica di Kafka). La collocazione adelphiana si riscontra, infine, per Simone Weil, ideale interlocutrice di Cristina Campo e di Ingeborg Bachmann. “Adelphiane” sono l’intensa spiritualità di queste figure e la loro tensione religiosa non riconducibile ad alcuna ortodossia.

[2]    M. Cvetaeva, Il poeta e il tempo, a cura di S. Vitale, Adelphi 1984, p. 66.

[3]    Per le affinità con la Cvetaeva, vedi Monica Farnetti: Cristina Campo, Luciana Tufani, Ferrara 1996, p. 24 e 32.    La lettera di Cristina Campo a Leone Traverso del 15 gennaio 1964, in cui la scrittrice accosta il suo racconto La noce d’oro a La madre e la musica di M.Cvetaeva, mostra come la Campo conoscesse l’opera di Marina Cvetaeva in un’epoca il cui il nome della poetessa russa era pressoché sconosciuto al pubblico italiano. (cfr. C. Campo, Caro Bul. Lettere a Leone Traverso, Adelphi 2007, p. 128).

[4]    E. Hillesum, Diario 1941-1943, edizione integrale, Adelphi 2012, pag. 366.

[5]    Cfr. Hillesum, Diario, cit., p. 369. Per Cristina Campo, cfr. la lettera dell’11 giugno 1957 a Margherita Pieracci Harwell, laddova invita l’amica a tenere un diario per sé sola su cui annotare tutto ciò che ella vive: «„E si tratta precisamente di vivere tutto“, disse Rilke, che qualche volta era grande anche lui». Cfr. C. Campo, Lettere a Mita, Adelphi 1999, p. 63. Nonostante il nome di Rilke sia assente dall’opera della Campo, è possibile riscontrare diverse affinità tra i due autori, sicché Massimo Morasso, in un saggio che indaga i punti di convergenza tra i due e i probabili motivi che indussero la Campo a nutrire delle riserve nei confronti del poeta praghese, parla di „un’amicizia mancata“ (M. Morasso, Un’imperfetta amicizia. Cristina Campo e Rainer Maria Rilke, in M. Farnetti, F. Secchieri, R.Taioli (a cura di), Appassionate distanze. Letture di Cristina Campo con una scelta di testi inediti, Tre Lune, Ferrara 2006, pp. 243-251.

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