Joseph Roth, Hotel Savoy

Valentina Savietto

Joseph Roth, Hotel SavoyHotel Savoy, a cura di Marco Rispoli, con testo a fronte, Venezia, Letteratura universale Marsilio, 2013, 328 p.

Joseph Roth (1894-1939), giunto subito dopo il termine del primo conflitto mondiale nelle capitali Vienna e Berlino, dove svolse un’intensa attività giornalistica, esordì con il suo primo romanzo Spinnennetz (tr. La tela di ragno) nel 1923; già l’anno successivo egli portò a compimento il suo secondo grande lavoro in prosa, Hotel Savoy, che venne quindi pubblicato dapprima sulla Frankfurter Zeitung e più tardi, durante l’estate di quell’anno, in volume, come sottolinea il curatore e traduttore Marco Rispoli nell’Introduzione (p. 11).

Hotel Savoy si configura come un oggetto letterario composito, classificabile sia come Hotelroman, sia come Heimkehrerroman, precorrendo, attraverso il personaggio di Gabriel Dan, quel paradigmatico reduce che fu, poco più di vent’anni più tardi, il soldato Beckmann in Draußen vor der Tür (1947, tr. Fuori davanti alla porta) di Wolfgang Borchert (1921-1947).

Il percorso narrativo si snoda in trenta capitoli, di piglio piuttosto incisivo, quasi a riprodurre la frammentarietà dei pensieri e delle intenzioni del protagonista, giunto all’hotel dopo tre anni di prigionia di guerra ed incapace d’intraprendere un vero viaggio di ritorno in patria. Benché infatti la voce narrante – omodiegetica – presenti il «più europeo» degli alberghi dell’Est, «con i suoi sette piani, lo stemma dorato e il portiere in livrea» (p. 67), tramite passaggi paratattici e in stile pressoché “fotografico”, già tipico del Roth giornalista, il velleitarismo del protagonista è presto svelato: se Gabriel Dan, convinto di «arrivare con una sola camicia» e di potersene andare «con venti valigie» (p. 71), nutre piena fiducia nel numero seducente della stanza assegnatali, la 703, il lettore scorge tuttavia precocemente la legge perversa che vige nella struttura. A mano a mano che si scende di piano infatti, gli orologi segnano un’ora sempre diversa, «tanto i ricchi hanno tempo» (p. 75), e c’è una cura maggiore degli ambienti: «Era come il mondo, l’Hotel Savoy: al di fuori rifulgeva di uno splendore imponente con lo sfarzo dei suoi sette piani, ma all’interno la miseria albergava accanto a Dio» (p. 117).

Il passato del protagonista si evince principalmente dalle esperienze che compie insieme agli altri ospiti, e la sua coscienza oscilla fra la consapevolezza del meccanismo distorto che regna nell’albergo e la forza schiacciante che ve lo lega, una tensione sotterranea che si traduce come sublimazione della “nostalgia di casa”, in mancanza di una meta concreta. Scopo del soggiorno pare essere la visita allo zio Phöbus Böhlaug, ricco usurpatore, sicuro di sé ed egoista, prima che l’ex-prigioniero possa giungere di nuovo al suo luogo d’origine, la Leopoldstadt, ossia il quartiere ebraico di Vienna. Questo proposito viene costantemente rimandato e il finale aperto della narrazione non ne garantisce affatto la realizzazione. Gabriel, che «un tempo volev[a] fare lo scrittore» (p. 99), si trova ora privo di qualsivoglia stabilità e ciò si riversa proprio nei suoi mutevoli ed effimeri progetti: non riesce ad esprimere il suo interesse per Stasia, ballerina del Varietà e prigioniera, come tutti gli ospiti del settimo piano, del lift Ignatz; si arrovella per lungo tempo con il mistero di Kaleguropulos, l’albergatore; infine, rifiuta la proposta del cugino Alexanderl, che gli permetterebbe di ottenere il denaro necessario per proseguire il viaggio.

Un primo punto di svolta giunge in concomitanza con l’arrivo in città, grigia «di pioggia e di sconforto» (p. 235), del vecchio compagno d’armi Zwonimir Pansin, un «rivoluzionario per nascita» (p. 179). La ventata di freschezza che quest’ultimo porta all’albergo e fra gli operai in sciopero culmina nella sua missione sociale, che coinvolge lo stesso Gabriel: attraverso il lavoro il protagonista ritrova la solidarietà e il senso di una comune appartenenza. Prima che la narrazione trovi il suo percorso conclusivo, rappresentato dal soffio della rivoluzione proletaria, i due compagni esperiscono il messianico sopraggiungere di Henry Bloomfield, l’ebreo milionario arricchitosi oltreoceano. Il clima di esaltazione e cieca fiducia che si diffonde dona benefici anche al reduce, che diviene il secondo segretario del ricco imprenditore e si guadagna così attenzione e prestigio, quasi fosse ora davvero possibile arrivare al Savoy con una sola camicia e ripartire con venti bauli. Ma per quanto viene dilazionata ancora la partenza? «Il bacillo della rivoluzione» (p. 289) si sparge in questa «città maledetta da Dio» (p. 209), punita, come una nuova Gomorra, con il castigo dell’industria, insieme al tifo e agli sciami di reduci. L’hotel non viene risparmiato: l’incendio salvifico che divampa fra le stanze permette finalmente a Gabriel Dan la liberazione esistenziale da questo carcere e la possibilità «di scrollar[s]i di dosso una vecchia vita, ancora una volta, come tanto spesso è accaduto in questi anni.» (p. 69). L’“ebreo errante” prosegue quindi nella sua fuga, ma anche nella ricerca dissolvente di una nuova comunità.

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