Riccardo Castellana, La teoria letteraria di Erich Auerbach

[Su Le parole e le cose si può leggere il capitolo iniziale del libro di Riccardo Castellana, La teoria letteraria di Erich Auerbach. Una introduzione a «Mimesis» (Artemide 2013)].

Riccardo Castellana

1. Mimesis prima e dopo il 1953

Nel 1949, a tre anni dalla pubblicazione di Mimesis, uno dei primi recensori presentò il libro come «il suggello al lavoro di un’intera generazione di filologi». Era vero. Non solo perché si trattava del risultato più maturo di un metodo che aveva profondamente rinnovato gli studi di filologia romanza in Germania e in Austria (il metodo stilistico, fondato un ventennio prima da Leo Spitzer), ma anche per il valore di testimonianza generazionale di quelle pagine, espressione delle inquietudini, delle speranze e dei valori della diaspora intellettuale ebraico-tedesca negli anni tragici del nazismo.

È del resto quasi impossibile separare i due aspetti, quello strettamente metodologico e quello più personale o generazionale, nella lettura di un libro come Mimesis. L’elemento autobiografico che affiora, in modo discreto ma netto, in molte pagine è rimasto un topos della sua ricezione fino ad oggi. E non si comprenderebbe fino in fondo il significato culturale del libro, il suo valore di posizione nel campo della critica del secondo dopoguerra, se si trascurasse di ricordare al lettore di oggi che chi lo ha scritto era un professore tedesco di origine ebraica, obbligato dalla promulgazione delle leggi razziali a lasciare da un giorno all’altro la cattedra di Filologia romanza all’università di Marburg e fortunosamente approdato nella lontana e allora quasi ignota Turchia dove trovò asilo. Proprio a Istanbul, dov’era arrivato nel 1936 come successore di Spitzer al seminario di filologia romanza, che nell’arco di quattro anni, tra il 1942 e il 1945, Auerbach scrisse Mimesis. E Istanbul significava allora, per chi come lui si era assunto l’impegno etico di “salvare” (facendola rivivere nella propria riflessione critica) una tradizione umanistica seriamente minacciata dalla barbarie nazista e dalla guerra, una forma di esilio ancora più lacerante, dato che quel compito appariva persino più arduo nella quasi totale assenza di biblioteche attrezzate per gli studi filologici, nell’impossibilità di consultare i periodici scientifici più recenti e di lavorare su edizioni critiche affidabili. È alla Conclusione che è affidato il compito di ricordare al lettore che cosa significasse scrivere un libro come Mimesis nella Turchia degli anni Quaranta, ma non tanto per prevenire possibili critiche negative (che pure vi furono, ad esempio da parte di Ernst Robert Curtius), quanto piuttosto per riconoscere il debito profondo verso lo stato d’eccezione rappresentato dall’esilio:

Del resto, è possibilissimo che il libro debba la sua esistenza proprio alla mancanza d’una grande biblioteca specializzata; se avessi potuto far ricerche, informarmi su tutto quello che è stato scritto intorno a tanti argomenti, forse non mi sarei più indotto a scriverlo. (II, 343)

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