Intervista a Cesare Cases

Faust - Der Tragödie zweiter Teil in fünf Akten  --  Reclams Universalbibliothek Nr. 2 , 2a

[Riprendiamo dal sito Caffé Europa il testo di una videointervista realizzata da Vittorio Hösle per l’Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche alla fine degli anni ’90. M.S.]

Professor Cases, per quali motivi ha dedicato la Sua vita allo studio della cultura tedesca?

Nella cultura tedesca mi ha sempre affascinato la simbiosi di letteratura e di filosofia. Da giovane avevo interessi letterari e anche interessi filosofici, ma non così forti da dedicarmi esclusivamente alla filosofia. La cultura tedesca offriva un ampio spazio per chi volesse fondere l’interesse filosofico e quello letterario. Questa è la ragione principale della scelta di dedicare il mio tempo allo studio dell’universo culturale tedesco.

Naturalmente a questo si sono aggiunti altri motivi: soprattutto gli avvenimenti della Seconda guerra mondiale e il trauma che abbiamo avuto tutti, a cominciare da Benedetto Croce, a causa del fatto che la cultura tedesca ci aveva, per così dire, delusi. Io, in particolare, come ebreo, ero molto indignato, oltreché deluso, ma, anziché volgere le spalle alla Germania, ho cercato di superare il trauma dedicandomi con impegno proprio allo studio di quella cultura che non aveva rispettato le nostre speranze. Questa scelta mi è stata spesso rimproverata dai miei amici ebrei, i quali avrebbero voluto che io non mi occupassi di un popolo così sciagurato. Ma ritengo che negli errori e negli orrori della Germania sia individuabile la manifestazione particolarmente profonda di una crisi che riguardava tutti e non soltanto i tedeschi. Vi sono, naturalmente, anche fattori casuali che spiegano l’orientamento della mia vita di studioso: durante la guerra, non potendo studiare in Italia perché ebreo, studiai chimica a Losanna e a Zurigo dove vissi per quasi cinque anni. Lì imparai bene il tedesco, un tedesco un po’ libresco che mi è sempre rimasto come caratteristica, perché, al contrario, il tedesco autentico ha sempre una connotazione dialettale. 

Per ogni visitatore della Germania è sconvolgente apprendere che a soli cinque chilometri dalla casa di Goethe a Weimar, uno dei massimi centri della cultura europea, vi sia il campo di concentramento di Buchenwald, in cui i prigionieri russi furono massacrati in maniera atroce. E neppure la distanza temporale è molto grande: Goethe muore nel 1832 e nel 1933 Hitler diventa cancelliere della Germania. E’ certamente difficile spiegare come un popolo che ha dato tanto alla cultura mondiale sia poi caduto in questa immane barbarie. Lei pensa che vi sia una spiegazione di cosa è avvenuto tra il 1832 al 1933, in modo tale da rendere meno incredibili gli eventi del nostro secolo?

Bisogna considerare anzitutto il cambiamento dei tempi e della situazione topografica della cultura tedesca. La cultura tedesca nel 1832, alla morte di Goethe, era un prodotto di alcune piccole città culturali come Weimar e di alcune città che, sebbene più grandi, come Francoforte e Berlino, mantenevano, però, dei contatti con il retroterra provinciale.

Nel corso dell’Ottocento, si sono formate, invece, grandi metropoli come Berlino stessa che sono state all’avanguardia dello sviluppo urbanistico e quindi, dello sviluppo della società in generale, anche rispetto all’America. Non è un fatto insignificante che Hitler volesse vedere un film americano al giorno: dietro la propaganda antiamericana c’era la coscienza di una profonda affinità e questa affinità si rivela leggendo la grande letteratura dell’epoca di Weimar. Nella narrativa tedesca come in quella americana si trova lo stesso senso del disorientamento sociale e della solitudine dell’individuo. La Germania è stata, quindi, un terreno di sperimentazione dei grandi fermenti dell’epoca e anche del grande disorientamento della razza bianca.

Si parlava della fine dell’uomo europeo e ciò si avvertiva in Germania più che in altri Paesi europei, che avevano, come la Francia, una maggiore “resistenza culturale”. I francesi erano forse ancora più antisemiti dei tedeschi, ma avevano più freni culturali che inibivano loro le conseguenze atroci che l’antisemitismo ha avuto in Germania. L’antisemitismo conduce qui all’irrigidimento della società, alla tendenza a cercare delle vie di uscita nella distruzione e nell’autodistruzione. C’è, quindi, un rapporto tra la Germania di Weimar, la Germania di Goethe e questa Germania dell’orrore. Tra Weimar e Buchenwald c’è una relazione che non è dovuta ad una evoluzione interna, spontanea, organica, ma al diverso valore che hanno acquisito certi fenomeni all’epoca di Goethe o all’epoca di Hitler. Si è avuta allora una specie di esplosione di fenomeni sociali che erano già immanenti alla società tedesca, ma non esplodevano.

Professor Cases, ritiene adeguata l’interpretazione del nazismo come un tentativo di modernizzare un Paese che, a causa della sua cultura, faticava a rinnovarsi?

Il nazismo, con la sua ideologia di rinnovamento fondato, però, su valori premoderni cari ai tedeschi, ha contribuito in maniera determinante a far esplodere fenomeni sociali di crisi, già presenti da tempo nella vita del popolo tedesco. Infatti, l’evoluzione dal disorientamento sociale e dal senso di solitudine rintracciabili già nella Germania di Weimar fino agli orrori di Buchenwald ha significato, per il popolo tedesco, arrivare ad accettare lo strano connubio, proprio del nazismo, di modernizzazione e riattualizzazione di valori antichi.

E’, però, necessario tener presente che questa evoluzione da Weimar a Buchenwald ha estremizzato gli esiti di un processo che aveva luogo dappertutto, ad esempio in America. L’America aveva però altre risorse per fronteggiare i fenomeni di crisi connessi ai mutamenti sociali ed economici sviluppatisi nel corso dell’Ottocento. Le capacità di recupero dell’America sono state grandissime; in Germania, invece, il bisogno di modernità si è trasformato nella tendenza contraria. Si pensi, per esempio, alle conquiste nel campo sessuale che si erano realizzate nell’epoca di Weimar. Se leggiamo i romanzi dell’epoca troviamo la testimonianza di una disinvoltura sessuale da cui gli stessi americani erano in quel momento lontani. Questo desiderio di modernità, in Germania, ha avuto come conseguenza una reazione violenta in senso contrario e quindi, un ritorno a concezioni e a modi di vivere che sembravano da tempo superati.

Madame de Staèl ha creato l’immagine del tedesco romantico. Qual è l’impronta tipicamente tedesca nella formazione e nello sviluppo del Romanticismo?

Una nota tipicamente tedesca, in quel vasto e complesso movimento culturale che è il Romanticismo, è senz’altro la precocità di questo fenomeno in Germania. Già a scuola ci insegnano che il primo Romanticismo italiano corrisponde al tardo Romanticismo tedesco, ma molte sono le inesattezze, perché si considerano romantici anche prodotti letterari dello Sturm und Drang. Lo stesso Schiller è stato considerato per decenni in Italia come un grande romantico, mentre la designazione “Romanticismo” dal punto di vista storico-letterario deve essere destinata al Romanticismo di Jena e di Heidelberg. Fra Schiller e i romantici non correva, peraltro, buon sangue.

Un motivo alla base dello sviluppo del Romanticismo è l’orrore per la modernità; è comunque lecito chiedersi fino a che punto esso fosse giustificato. I tedeschi sono stati i primi a pensare, ad esempio, che il telaio meccanico costituisse l’inizio di un’era catastrofica.

Ma il Romanticismo tedesco non ha avuto una grande risonanza europea. L’unico grande scrittore romantico che abbia imposto il Romanticismo a tutto il mondo è stato Hoffmann, il quale ha avuto un successo internazionale ed è stato tradotto dappertutto, ma avendo sempre, al tempo stesso, la fama dell’eccentrico. I grandi scrittori francesi, come Balzac, influenzati in parte da Hoffmann e in parte dal Romanticismo tedesco, hanno avuto, invece, una risonanza internazionale ed è piuttosto attraverso costoro che il Romanticismo è stato divulgato e reso accessibile. E’ questo il motivo per cui il Romanticismo tedesco è ancora considerato un movimento poco noto, da riscoprire e la cui riscoperta “salverebbe l’umanità”. La traduzione dell’opera completa di Novalis va, a mio avviso, in questa direzione: si può sperare di trovare in Novalis quella ricetta che non si trova altrove per salvare il mondo dalla catastrofe.

Quale fu il rapporto di Goethe con il Romanticismo?

Fu un rapporto ambivalente, perché Goethe, in un primo tempo, sperava di poter contrapporre al Romanticismo il classicismo, vale a dire le dottrine che aveva elaborato insieme a Schiller tra il 1795 e il 1805. In seguito, si è accorto, però, che quel tipo di classicismo era un “classicismo di gesso”. Goethe ha perciò modificato negli ultimi anni le sue concezioni, soprattutto nel secondo Faust, un’opera straordinaria la cui lettura riserva sempre nuove sorprese.

Nel secondo Faust, che è, come è stato detto, “il poema del XIX secolo”, Goethe aveva previsto buona parte di ciò che sarebbe successo nell’Ottocento. Mentre precedentemente pensava di poter superare l’orrore per la modernità sul piano puramente estetico, attraverso il ricorso alle dottrine del classicismo, attraverso la resurrezione di Elena come incarnazione del classicismo, nel secondo Faust capisce che questo non è possibile e che l’umanità sta precipitando in un baratro da cui è difficile che possa risollevarsi. Il secondo Faust comunica questa consapevolezza con quella suprema ironia che è l’arte del vecchio Goethe, ma sottintende comunque che esiste forse qualche possibilità di redenzione.

Oltre a Goethe, oltre Hoffmann e Novalis, un altro tedesco che ha avuto un forte impatto sulla cultura europea è Karl Marx. Lei stesso Professor Cases è stato uno dei grandi intellettuali marxisti di questo secolo.

In Marx c’è un’ambivalenza profonda verso il progetto della modernità: da una parte Marx è uno dei critici più accaniti del progetto di modernizzazione, dall’altra la sua ricerca sembra superare la modernità portandola al suo compimento, cioè tenta di usare la modernità come rimedio contro la modernità stessa.

Che cosa rimane del pensiero di Marx e soprattutto del suo atteggiamento verso il progetto della modernità dopo il 1989?

E’ difficile fare un bilancio. Penso che l’idea di Marx, secondo cui è necessario spingere avanti il motore della storia fino a trovare il punto in cui l’umanità giunga a una società senza classi, vada conservata anche se, fino ad ora, è stata votata all’insuccesso, per ragioni, direi, di sopravvivenza. Si tratta, infatti, di un’idea motrice che può dare le ali all’umanità. Senza di essa rimangono soltanto rassegnazione e passività. Ma è certo che lo stesso Marx si rendeva conto dell’impossibilità di conciliare il progresso con il bene dell’umanità e che l’umanità non sarebbe approdata ad una soluzione dei suoi problemi. Marx, infatti, afferma, che l’umanità si pone soltanto problemi che è in grado di risolvere, ma già nelle teorie del plusvalore questa convinzione vacilla ma cresce, viceversa, al tempo stesso, la fiducia positivistica nel progresso.

Gli scritti giovanili di Marx sono, invece, ancora influenzati dal Romanticismo e alla fiducia generale nel progresso si accompagnano la rabbia e l’insoddisfazione per la necessità di passare attraverso l’asservimento dell’uomo alla macchina. Nell’ultimo Marx, questa diffidenza è sempre più repressa, mentre è più accentuata la fiducia, perché nel frattempo Marx ed Engels avevano costruito un edificio politico, avevano creato la Seconda internazionale, erano sostenuti da una struttura portante e tutto ciò giustificava il loro ottimismo. Inoltre Engels era, tra i due, il meno profondo e il più vicino alle tesi del positivismo e alla fiducia nel progresso.

György Lukács è sicuramente, nell’ambito della tradizione marxista, il filosofo più originale dopo Karl Marx. Qual è stato, secondo lei, il contributo di Lukács all’interpretazione del nostro secolo dominato dalla “distruzione della ragione”?

E’ necessario, anzitutto, tenere in considerazione l’evoluzione del pensiero di Lukács; ci sono, infatti, un primo e un secondo Lukács tra loro divergenti. Personalità come Marx o Goethe, che vivono al centro di grandi rivolgimenti politici e sociali, si adattano naturalmente a questi rivolgimenti e modificano le loro concezioni. Non si tratta di un processo di trasformismo, ci si deve interrogare piuttosto sulla peculiarità di un determinato momento storico, chiedersi perché la storia presenti quel particolare aspetto e, di conseguenza, sviluppare le proprie riflessioni. Lukács, dopo la conversione al marxismo, ha mantenuto come punto fermo la sua fiducia nel marxismo e nel partito comunista, come organo del pensiero marxista. Ripeteva spesso, a questo proposito, “Right or wrong it’s my party”, “Giusto o sbagliato è sempre il mio partito”, che era una deformazione del detto inglese “Right or wrong it’s my country”.

Per lui infatti, il partito era quello che per un inglese dell’Ottocento era la patria, ossia qualcosa in cui avere fede nella ferma convinzione che presto o tardi avrebbe avuto la meglio non solo sugli avversari esterni, ma anche sull’avversario interno, sulle proprie contraddizioni interne. Questo ha distinto Lukács da tutti i pensatori marxisti dozzinali ed è stato riconosciuto anche da pensatori antimarxisti. Questa sua grande fiducia, costantemente riaffermata nella sua opera, colpiva chiunque lo leggesse o lo conoscesse. Per questo motivo le sue riflessioni apparivano sincere anche quando erano simulate. Si trattava, infatti, di una simulazione che si imponeva, perché egli pensava che fosse necessaria in quel momento e questo spesso si capiva attraverso le sue stesse parole. Il suo linguaggio “esopiano” permetteva di capire anche quello che non si poteva dire in determinate circostanze.

Il primo grande Lukács degli anni Venti è l’autore di Storia e coscienza di classe, un libro fondamentale per il pensiero marxista estremo, che postulava quella rivoluzione che poi non ebbe luogo, la rivoluzione dei Consigli di cui Lukács era allora uno dei protagonisti. La rivoluzione ungherese dei Consigli e la rivoluzione russa avrebbero preluso ad una rivoluzione mondiale che poi non venne. Storia e coscienza di classe è ancora oggi un libro molto importante, perché è la Bibbia di ogni marxismo radicale, di ogni radicalismo marxista, ma questo radicalismo non fu confermato dagli eventi. Lukács stesso dovette fuggire dall’Ungheria, la rivoluzione dei Consigli finì e la stessa rivoluzione russa si concluse male. Lukács avversò infatti il periodo staliniano, nonostante egli rimanesse sempre del parere che, pur attraverso tutte le deformazioni, tutti i guasti operati dallo stalinismo, il principio comunista avrebbe potuto sempre salvarsi. Però, certamente, Lukács si rendeva conto che la situazione era molto brutta. In una nota intervista del famoso marxista francese che andò a trovarlo a Mosca negli anni Trenta, egli disse di vivere coraggiosamente nella paura, perché aveva il coraggio di assumere certi atteggiamenti, di prendere posizione anche quando ormai il terrore era instaurato.

Lukács condivideva la fiducia hegeliana nella storia, la convinzione per cui la storia porta sempre a buon fine e, nonostante i riflussi, va sempre avanti in senso positivo. A questo egli non ha mai cessato di credere anche negli ultimi anni. Lukács non aveva capito l’entità del male, del “male radicale” avrebbe detto Kant, che minacciava l’umanità; credeva che ci fosse una soluzione per tutto e che lui aveva identificato con la prassi dei partiti comunisti, sia pure riveduta, corretta, migliorata, depurata da tutti gli orrori stalinisti, ma convinto che si potesse in fondo proseguire quel cammino.

La categoria del progresso è stata sicuramente una delle più importanti categorie dalla fine del Settecento in poi, almeno per la cultura europea. Alla fine del XX secolo, uno dei secoli più cruenti e barbari della storia umana e alla vigilia del XXI, è impossibile mantenere la fede nel progresso, senza riflettere sulle lezioni che la storia ci ha dato. D’altra parte lei stesso ha detto che, senza la speranza, l’uomo non riesce a fare niente e che perciò è anche pericoloso abbandonare ogni speranza nella possibilità da parte della storia di mitigare il “male radicale” che la attraversa. Qual è, dunque, la posizione che una persona razionale, che non vuole, però, abbandonarsi al pessimismo, deve assumere rispetto al progresso?

Credo che qualcosa della categoria del progresso vada mantenuta. Se leggiamo l’opera di Joseph de Maistre, la “bibbia” del pensiero reazionario, si può dire che empiricamente ha avuto ragione lui: in realtà quello che prevedeva è successo, ma dobbiamo per questo tornare alla santificazione dell’Ancien Régime, all’esaltazione del Papa e del boia? Io credo che questo non sia concepibile. E’ possibile forse reintrodurre il boia come hanno fatto i nazisti, ma non è possibile reintrodurre l’elogio del boia, la persuasione della necessità della sua funzione. In questo senso, l’umanità è diventata, come diceva Kant, maggiorenne e non torna più indietro. Si fanno cose orribili in nome della libertà, però questa libertà esiste, è diventata una coscienza generale e quindi, tornare indietro non è possibile.

Che cosa pensa dell’estetica di Lukács e come spiega il fatto che il marxista Lukàcs ha subito il fascino della letteratura di Musil e Thomas Mann?

Questo fascino mi sembra abbastanza comprensibile: sia Lukács che Thomas Mann credevano in fondo nella recuperabilità della civiltà borghese e Lukács aggiungeva a questa fiducia un “condimento” marxista, con l’affermazione che era possibile salvare l’eredità borghese solo attraverso il comunismo. La sua idea era in parte simile a quella di quel comunista francese che sosteneva che il comunismo aveva raccattato le bandiere della Rivoluzione Francese, che la borghesia aveva buttato in terra. In Lukács rimane, quindi, sempre l’idea di una borghesia buona, suscettibile, ad un certo momento della sua evoluzione, di convertirsi al marxismo, e di una borghesia cattiva che indugia nell’irrazionale e si allontana perciò dalla via aurea della borghesia. Quindi, Lukács amava Thomas Mann perché era il prototipo di questo tipo di borghesia buona, un prototipo che gli aveva dato anche delle delusioni perché negli anni della Prima guerra Mondiale era passato dalla parte della borghesia cattiva; ma in seguito, si era rimesso in carreggiata e rimaneva, quindi, comunque un modello.

L’altra ragione era formale: Thomas Mann era uno scrittore realista, che si manteneva fedele all’idea del romanzo ottocentesco, compatto e senza sbavature. Questo era l’ideale artistico di Lukács che rifiutava, viceversa, l’avanguardia e ogni tentativo di riprodurre, nelle forme, il caos. Lukács riteneva che si trattasse di una pura illusione ottica, che il mondo fosse sempre in qualche modo compatto e che fosse la borghesia degenerata a vederlo in una “forma deformata”. In realtà, questa “forma deformata” corrispondeva oggettivamente all’essenza della società attuale. Non erano Musil o Céline a favorire l’avvento di una società decomposta, ma era la società decomposta che chiedeva di farsi riflettere, di farsi interpretare nei modi di Musil o di Céline. Di qui il carattere “archeologico” dell’Estetica di Lukács, un’opera importante, ma anche difficilmente leggibile, perché si sente che l’autore è stanco, non perché sia vecchio lui, ma perché è vecchio il punto di vista che ha adottato.

Lei appartiene a una generazione che ha vissuto buona parte di questo secolo e si è occupato per più di cinquanta anni della cultura tedesca. Quali sono, secondo lei, gli autori tedeschi che vale ancora la pena di leggere?

Dei più recenti direi senz’altro Thomas Bernhard e Ingeborg Bachmann, entrambi austriaci. Non ho invece un grande amore per Grass o per la generazione degli anni Sessanta. Celan, che si può considerare tedesco solo in un certo senso, ha dato espressione meglio di ogni altro, da una parte al disastro in cui viviamo, dall’altra anche a quel nucleo “solido”, a quel nucleo di resistenza che la poesia offre. Insomma, la grande poesia è sempre qualche cosa a cui ci si può aggrappare, anche nel momento di massimo pessimismo. L’opera di Celan ha dato un esempio di questa possibilità.

Uno degli autori che hanno avuto sicuramente più successo anche al di fuori della cultura tedesca è stato Bertolt Brecht. Anche in Brecht è possibile ritrovare la caratteristica per lei essenziale della cultura tedesca, vale a dire la sintesi tra letteratura e filosofia. Che cosa rimarrà di Brecht? Sarà un drammaturgo le cui opere verranno lette e rappresentate anche nei prossimi secoli?

Brecht per me è stata una rivelazione letteraria. Ero prevenuto ideologicamente nei suoi confronti, a causa di Lukács, che era il suo grande avversario nel campo marxista e quindi non lo leggevo o non riuscivo comunque ad appassionarmi alla sua opera. Poi una volta mi sono trovato, per lavoro, a rivedere alcune traduzioni ed ho avuto questa grande rivelazione. Lukács disapprova Brecht per la netta separazione tra cultura borghese e cultura proletaria. Brecht riteneva che la letteratura proletaria dovesse trovare delle nuove formule, dei nuovi moduli che fossero diversi da quelli borghesi e dava perciò un giudizio assolutamente negativo dell’opera di Thomas Mann. Viceversa sembra che, nonostante la radicale divergenza di vedute, Thomas Mann abbia detto, dopo la lettura di Madre Courage e i suoi figli: “Quel mostro ha del genio”. Le ragioni dell’attuale eclissi di attenzione per Brecht sono legate sia all’eccessivo successo che la sua opera ha avuto negli anni ’60 e ’70, sia al fatto che egli era estremamente legato alla discussione sul marxismo e perciò quando si è cessato di credere nel marxismo l’opera brechtiana non è apparsa più degna di interesse. Secondo me Brecht rimane comunque un grande scrittore e un grande poeta, nonostante i suoi grandi limiti.

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