Edlef Köppen, Bollettino di guerra

koeppen«Sono nato il 1° marzo 1893. Per questo nell’agosto 1914 potei arruolarmi volontario nell’Esercito, che servii dall’ottobre 1914 fino all’ottobre 1918 col massimo impegno come artigliere, caporale, sottufficiale, vicemaresciallo, aiutante, sottotenente della riserva, sul fronte occidentale e orientale. Lo feci con entusiasmo, con senso del dovere, a denti stretti, con disperazione, tanto che mi conferirono la croce di ferro di prima classe e poi mi rinchiusero in manicomio».

Questo scorcio autobiografico apparve sul risvolto di copertina della prima edizione, pubblicata dall’editore Horen di Berlino nel 1930, del romanzo Heeresbericht, una delle molte opere narrative che tra la fine degli anni venti e l’inizio degli anni trenta, nell’ultimo, difficile periodo della Germania weimariana, rielaboravano il trauma storico ed esistenziale della prima guerra mondiale. L’autore, Edlef Köppen, originario di Genthin, una cittadina dell’odierna Sassonia-Anhalt, dopo l’esperienza bellica aveva lavorato come redattore, traduttore ed editore tra Potsdam e Berlino, ma era stato costretto ogni volta a lasciare il posto di lavoro per le complicazioni conseguenti alle ferite al torace riportate sul campo di battaglia. Aveva poi trovato un impiego stabile presso la Funkstunde, stazione radio berlinese tra le più interessanti e sperimentali dell’epoca, come addetto alla programmazione per la sezione letteraria. Fu proprio in quegli anni che Köppen lavorò al suo romanzo più importante, il cui destino editoriale in Germania fu però alquanto ingrato: dopo due sole edizioni di poche migliaia di copie, fu vietato dai nazisti nel 1933, definitivamente bandito nel 1938 – un anno prima della prematura morte del suo autore -, variamente riscoperto solo negli anni Settanta, per poi cadere di nuovo nell’oblio. Nel 2004, tuttavia, Heeresbericht è stato riproposto con successo dal Deutscher Verlags-Anstalt di Monaco, con un’utile postfazione del curatore Jens Malte Fischer, ed è ora disponibile anche in italiano nella traduzione, pulita e precisa, di Luca Vitali: con Bollettino di guerra (Mondadori «Oscar scrittori del Novecento», pp. 404) il lettore italiano dispone finalmente di una delle migliori opere letterarie che siano state scritte sulla prima guerra mondiale.

Il suo valore poggia innanzitutto su forma e stile, rigorosi e innovativi a un tempo, e in particolare su una scelta compositiva che l’apparenta a Gli ultimi giorni dell’umanità di Karl Kraus, nonché alle più avvedute sperimentazioni letterarie dell’epoca. Anziché indulgere alla facilità di una narrazione lineare e tutto sommato “canonica”, di matrice realista e ottocentesca, come quella per cui aveva optato non soltanto Erich Maria Remarque nell’arcinoto Niente di nuovo sul fronte occidentale, ma la maggior parte degli autori che in quegli anni si cimentarono con lo stesso tema, Köppen sceglie infatti la via dell’inserzione documentaria e del montaggio: dopo un’epigrafe sulle condizioni di “narrabilità” della guerra tratta da un comunicato dell’Ufficio superiore per la Censura, il romanzo si apre, in successione, con due disposizioni belliche del Kaiser Guglielmo II, un estratto dal decreto di arruolamento dei volontari, il certificato di abilità del ventunenne Adolf Reisiger, una dichiarazione militarista degli insegnanti del Reich e una lettera della madre del protagonista. Solo a questo punto, dopo i corsivi dei documenti, incontriamo il primo brano narrativo, in caratteri “regolari”, sull’arrivo del giovane Reisiger al Comando del reggimento di artiglieria dal quale prenderà avvio la sua carriera di combattente. L’effetto è straniante ma oltremodo esplicativo, il primo annuncio di una varietà ambiziosa, e in effetti il resto del libro, che copre l’intero arco quadriennale della guerra ed è ambientato in prevalenza sul fronte occidentale, nel nord della Francia, consiste precisamente in una studiata alternanza di brani narrativi e documenti, in grado di infilare con grande esaustività i capitoli, i temi e le assurdità della cosiddetta Grande guerra – il tutto, ovviamente, attraversato dal filo rosso dell’esperienza individuale del protagonista, che ricalca la traccia autobiografica citata all’inizio. Si tratta, in sostanza, di un esempio ben riuscito di quell’aspirazione alla «totalità» che il giovane Lukács, sulle orme di Hegel, aveva ascritto al romanzo nella più celebre teoria del genere, elaborata nel secondo decennio del secolo, e che i più autorevoli precedenti di Köppen, il Dos Passos di Tre soldati (1921) e Manhattan Transfer (1925) e l’Alfred Döblin di Alexander Platz (1929), avevano assecondato con successo, contribuendo in modo essenziale all’uscita del romanzo dalla crisi che lo aveva investito, in quanto medium poetico dominante, nei primi decenni del secolo.

Questa complessità strutturale, tuttavia, non basterebbe da sola a fare di Bollettino di guerra un romanzo bello oltre che importante, il cui valore consiste da ultimo nell’offrire al lettore, attraverso l’alternanza mirata di stili e registri, una storia capace di avvincere senza distogliere lo sguardo dagli orrori della guerra e anzi favorendone a strappi, proprio grazie all’irruzione ironica e distanziante dei documenti, la contemplazione disincantata. Tanto più che, essendo una parte dei documenti inventata, dunque partecipe della finzione, e l’altra reale, a costituire il contraltare ufficiale e tronfiamente retorico degli avvenimenti narrati, l’iniziale dialettica tra finzione e documento finisce per generare la vera, illuminante contrapposizione che fonda il romanzo: quella tra la falsificazione dei fatti operata dai documenti ufficiali e la verità storica restituita dalla finzione.

Questo, del resto, fa sì che l’empatia di chi legge segua un percorso analogo a quello del personaggio protagonista. Le prime esperienze al fronte del volontario Reisiger, il cui ideale di guerra non trova conferma nella routine del suo acquartieramento a sud di Arras, costituiscono una vera e propria iniziazione all’interno di una circostanza storica già prigioniera delle perversità e delle contraddizioni che condurranno alla tragedia. È del «nemico», della sua presenza sensibile per quanto impersonale, che c’è bisogno per definire la propria identità individuale e di gruppo, e quando finalmente è l’ora di combattere in trincea non bastano l’incontro ravvicinato con la morte o una ferita più o meno grave a intaccare l’esaltazione di chi, se condannato alla quiete sui generis delle retrovie, non prova altro che noia. Solo poco alla volta si insinuerà in Reisiger, che pure vivrà la guerra come un’ininterrotta progressione di carriera, l’evidenza dell’errore che lo condurrà infine a ribellarsi. E così noi lettori, che pure affrontiamo i passaggi successivi, via via più micidiali, della guerra di posizione, dell’uso dei gas tossici e dell’impiego di aviazione e carri armati col senno di chi ne conosce l’ulteriore evoluzione nei cataclismi bellici che verranno, anche noi faticheremo a negarci il fascino perverso dell’azione bellica filtrata dalle narrazioni concitate, il talento visionario e le metafore di Köppen. Dalla «strana, macabra follia» di una quotidianità “pacifica” a ridosso della zona di fuoco, passando per i «giochi romani modernizzati» dei combattimenti a cavallo e per la «gigantesca festa in maschera» dei preparativi per l’ultima grande offensiva tedesca, ci troveremo a dover ammettere, come Reisiger al cospetto dell’orizzonte infuocato, «è bello … se solo non fosse la guerra».

(Questa recensione è apparsa su «Alias» del 12 aprile 2008 con il titolo Il montaggio delle follie.)

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