Il fascino del Male

[Questa recensione è stata pubblicata sull’Indice dei libri del mese poco dopo l’uscita de Les Bienveillantes di Jonathan Littell in Francia. M.S.]

Pier Carlo Bontempelli

Il romanzo di Jonathan Littell è stato in Francia il caso letterario del 2006. Quasi un’opera prima (l’autore, nato nel 1967, aveva pubblicato nel 1989 un romanzo cyberpunk intitolato Bad Voltage), esso si è imposto all’attenzione del pubblico e della critica: Gallimard ha dovuto addirittura sottrarre carta alla pubblicazione dell’ennesimo Harry Potter per destinarla a Les Bienveillantes. Eppure si tratta di 905 pagine fitte e dense, per un peso complessivo di 1.200 grammi. Come spiegare il successo di un testo complesso e spesso estremamente sgradevole? L’autore racconta in prima persona la traiettoria esistenziale e criminale (criminale sia sul piano individuale, come vedremo, che sul piano sistemico) di un ufficiale delle SS. Il protagonista è Maximilian Aue, di madre alsaziana e di padre tedesco: questi, dopo aver combattuto come ufficiale dei Corpi Franchi nei paesi baltici, è dichiarato disperso. Max compie i suoi studi in Germania e in Francia. Intellettuale poliglotta, amante di letteratura, arte e musica, diventa giurista e nel 1932 inizia la sua carriera nel Sicherheitsdienst (Servizio di sicurezza) delle SS. Il personaggio è immaginario ma la situazione è  storicamente significativa. Ricordo di passata che il Sicherheitsdienst fu per molti intellettuali tedeschi, usciti dall’ umiliazione del Trattato di Versailles, uno spazio di revisione della storia nazionale e più in generale del pensiero dell’Occidente. Grazie alla relativa autonomia di cui disponevano cercarono di riformulare, a partire dal loro punto di vista rigorosamente basato sulla corretta genealogia razziale, la nuova Europa. La forte attrazione di questo corpo d’élite su molti giovani intellettuali è stata analizzata in tempi recenti da storici americani e tedeschi (si vedano come esemplari i lavori di Christopher Browning e Michael Wildt). D’altra parte non si può più negare che la Weltanschauung  del nazionalsocialismo abbiano avuto una forte presa su molti giovani tedeschi negli anni ’30. Lo dimostrano  le scoperti recenti che ci hanno clamorosamente ricordato come anche prestigiosi intellettuali, considerati dopo il 1945 le coscienze critiche della Germania democratica (Günter Grass, Walther Jens e altri), non seppero sottrarsi, in giovane età, al fascino del “male”.

Oltre che per motivazioni ideologiche, il protagonista del romanzo, omosessuale, sceglie di entrare nelle SS come in un rifugio in cui può praticare e nascondere un suo doppio segreto. Max infatti ha avuto un rapporto incestuoso con la sorella gemella da cui sono presumibilmente (non è mai detto esplicitamente) nati due gemelli. Egli agisce dapprima  in Ucraina e in Crimea, allo scopo di garantire la razionalizzazione dello spazio conquistato mediante  l’esecuzione di ebrei e di prigionieri russi. Viene poi inviato a Stalingrado. Torna, gravemente ferito, a Berlino e si stabilisce nella capitale del Reich. Durante una breve visita in Francia uccide la madre e il patrigno (francese). In seguito riceve da Himmler, il comandante in capo delle SS, l’incarico di gestire al meglio le “risorse umane” costituite dai prigionieri ebrei. In altri termini, deve tenere in vita il più a lungo possibile e in condizioni adatte alla produzione industriale chi è destinato a essere sterminato. Nel frattempo rivede a Parigi alcuni suoi vecchi amici e conoscenti – personaggi storici reali della destra francese filonazista, come l’équipe della rivista Je suis partout e Céline. Poco prima della caduta di Berlino incontra Hitler. Mentre il Führer sta per decorarlo, Max viene preso dall’irresistibile impulso di strizzargli il naso (sic!) per capire se il dittatore è ebreo e deve poi fuggire per questa sua mancanza di rispetto. Sotto l’incalzare dell’Armata Rossa, si rifugia nel settore occidentale di Berlino avendo ucciso il suo miglior amico per sottrargli  documenti falsi, utili a passarsi per un francese del Service du Travail Obligatoire. Si stabilisce infine in Francia dove diventerà proprietario di una fabbrica di merletti, nascondendo la propria identità (di ex SS e di omosessuale) dietro la facciata di un matrimonio “ripugnante” ma necessario alla sua sopravvivenza e alla sua rispettabilità borghese.

Les Bienveillantes è anche un accurato documento  della Shoah. L’autore, ebreo-americano che scrive in francese, si cala nei panni di Max e racconta in prima persona i dispositivi della persecuzione, della deportazione, dei campi di lavoro e di sterminio. Con gelida lucidità il protagonista racconta quanto ha fatto e visto sia in Ucraina e in Crimea che nei Lager veri e propri (ad Auschwitz e altrove). La quantità di informazioni fornite sulle operazioni militari e sui meccanismi del genocidio appare talvolta esorbitante, ma sempre riesce a catturare il lettore.

L’opera di Littell è sapientemente costruita e non è possibile qui dare conto delle sue molte chiavi di lettura. Mi limiterò a qualche osservazione sulle sue potenzialità ideologiche. Il romanzo è anche una riscrittura in chiave moderna della tragedia eschilea di Oreste. Questa prospettiva colloca gli avvenimenti narrati, anche quelli più sconvolgenti, sotto il potere del fato che decide senza consultare gli esseri umani, sollevandoli, dunque, da ogni responsabilità morale. Littell evita così di rispondere al quesito relativo all’origine e all’ineluttabilità del male. Lo stesso titolo scelto dall’autore (Les Bienveillantes) che ritorna nell’ultima riga del libro, richiama le Eumenidi, forze primitive che non riconoscono l’autorità degli dei e accompagnano Aue per tutta la vita perseguitandolo. E ne hanno ben donde: Aue è un assassino in quanto parte di un sistema che commette crimini contro l’umanità, partecipando direttamente a esecuzioni di ebrei e di prigionieri dell’Armata Rossa, ma è anche un pluriassassino individuale. Uccide infatti per motivi privati ben cinque persone: la madre, il patrigno, un ex amante rumeno, un vecchio suonatore d’organo colpevole di suonare Bach in tempo di guerra, e l’amico fraterno Thomas. Il suo personaggio si pone dunque, come pochi altri, al di là del bene e del male.

Torniamo alle ragioni del successo. Il motivo va ricercato probabilmente nel fatto che Littell ha voluto rischiare di raccontare l’indicibile. Così facendo ha scoperchiato un vero e proprio Vaso di Pandora. Ha messo in scena un essere diabolico come esempio di nietzscheana volontà di potenza, di devianza assoluta e di capacità di oltrepassare ogni limite. Aue non è un banale burocrate, del Male finisce per rappresentare momenti che rischiano di essere affascinanti e coinvolgenti. Littell non lo legittima mai – e dunque non è il caso di accusare il libro di revisionismo. Ma certo l’autore si spinge, forse anche per motivi commerciali, a eliminare un tabù ancora dominante nella letteratura che si occupa del nazionalsocialismo, proponendo al lettore la figura di un intellettuale “affascinante” e perverso, amorale e trasgressivo. C’erano stati già in passato tentativi di rappresentare il nazionalsocialismo, con una consistente dose di ipocrisia, come un fenomeno estetico eroticamente stimolante e dunque in grado di coinvolgere: basti ricordare alcuni film degli anni ’70 (mi riferisco non solo al filone esplicitamente porno, assai rilevante nel genere, ma anche ai film di Luchino Visconti, di Liliana Cavani e di Tinto Brass). La novità del romanzo è che il Male entra nella letteratura ai suoi più alti livelli di consacrazione sia da parte delle massime istituzioni culturali (gran premio dell’Académie française e soprattutto il premio Goncourt) che da parte del pubblico. E si afferma così un nuovo tipo di eroe.

D’altra parte, e su questo bisognerà riflettere, lo spirito di un tempo che sostiene di non avere più bisogno di ideologie continua a sfornare visioni del mondo condannate dalla storia e dal Tribunale di Norimberga. Ancora una volta è il cinema popolare ad anticipare il fenomeno. Si vedano The Good German (2006) di Steven Soderberg, tradotto ipocritamente in italiano Intrigo a Berlino, e Black Book (2006) di Paul Verhoeven. Nell’ultimo film il protagonista buono è – guarda caso! – di nuovo un ufficiale del Servizio di sicurezza delle SS, impersonato dall’affascinante Sebastian Koch, che aiuta la sua amante ebrea (sic!) a svelare gli intrighi criminali e affaristici di alcuni esponenti della Resistenza olandese. Ma  in ambedue i film citati i protagonisti si pentono e si riscattano morendo. Nel romanzo di Littell invece non c’è ombra di pentimento e il personaggio sopravvive felicemente alla sue malefatte. Se, come sembra, il pubblico che acquista Les Bienveillantes è costituito soprattutto da uomini tra i 20 e i 30 anni, viene da chiedersi perché questo strato (ampio) di lettori sia interessato a giocare con l’ultimo tabù: la rappresentazione del genocidio degli ebrei vista dalla parte dei persecutori. Littell ha voluto presentare le istanze dei rappresentanti del Male assoluto. Il suo gioco si svolge sul filo del rasoio e questo piace al suo pubblico. È questa una novità positiva? È una questione aperta di cui si parlerà ancora. Sono in fatti previste traduzioni in varie lingue, italiano compreso.

Pier Carlo Bontempelli

This entry was posted in Recensioni and tagged , , , , , . Bookmark the permalink.

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *