Michael Krüger, La commedia torinese

kruegerStefano Zangrando

Di Michael Krüger, poliedrica personalità del mondo letterario tedesco, colpisce la costante qualità degli esiti: il suo lavoro editoriale alla guida dell’Hanser Verlag di Monaco e come direttore della rivista «Akzente» ha concorso a mantenere alto il livello della letteratura tedesca degli ultimi decenni tanto quanto le sue opere poetiche e romanzesche vi hanno contribuito in termini estetici. I suoi romanzi, in particolare, spesso gravitanti attorno al mestiere di scrivere o aventi per protagonisti intellettuali e artisti, hanno sempre costituito un lucido contraltare, di volta in volta più o meno grottesco, alla deriva ornamentale delle arti e dei costumi. Con il suo ultimo lavoro narrativo, La commedia torinese (traduzione di Palma Severi, Einaudi «Arcipelago», pp. 185), Krüger fa un deciso passo avanti, confrontandosi con l’«inguaribile malattia dello scrivere» in un’opera nient’affatto autoreferenziale, con un perfetto equilibrio compositivo e connotata da una sensibilità per il dettaglio umano, una saggezza romanzesca che è il frutto manifesto di una maturazione innanzitutto personale. Il narratore M. è chiamato a gestire il lascito del suo migliore amico Rudolf, uno dei più celebri e acclamati scrittori tedeschi della contemporaneità, suicidatosi come altri suoi illustri predecessori a Torino, dove viveva e dirigeva un istituto di ricerca presso il locale ateneo. Ad attendere M., oltre alla vedova morente Elsa e ad una mole esorbitante di carte postume, l’infida collaboratrice Marta, assistente del defunto e responsabile materiale del lascito, e lo zoo segreto allestito da Rudolf sul terrazzo della propria abitazione, indizio velatamente allegorico di una misantropia ostentata all’esterno come rifiuto radicale di ogni pubblica onorificenza. Questo rifiuto dello stesso mondo che lo porta in gloria è solo una delle innumerevoli ambiguità di Rudolf, un personaggio che ha nelle proprie zone d’ombra la sua stessa ragion d’essere. All’emergere di una terza aspirante vedova, che con il narratore ed Elsa aveva condiviso l’amicizia del giovane Rudolf negli anni di studio universitario a Berlino, si aggiunge la scoperta, da parte di M., di documentazione che attesta plagi illustri all’origine di uno dei più fortunati romanzi dell’amico scomparso. La svolta dell’esile trama, che vede il narratore mutarsi in «falsario», porta la narrazione, pur cadenzata dal ritmo regolare di ricordi e digressioni, a dialogare in modo sempre più serrato con quel ramo della tradizione romanzesca del XX secolo che ha cercato nel documento, nel collage e nella citazione un’affermazione di vitalità poetica contro ogni ipotesi di “fine della letteratura”. L’interrogativo sull’«ultimo romanzo» scritto da Rudolf prima di uccidersi, uno «sforzo titanico» destinato a restituire con la massima precisione «sessant’anni di Germania postbellica», troverà così una risposta coerente a livello strutturale, ma non per questo meno sorprendente, mentre all’empatia di chi legge rimarrà l’evidenza che alla «malattia» della scrittura è inevitabile soccombere.

(Recensione apparsa su «Alias» del 3 novembre 2007.)

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