Arno Schmidt contro il Leviatano

[In occasione dell’uscita del Leviatano di Arno Schmidt nel Quadrifoglio tedesco di Mimesis, ripropongo la recensione che ne fece Cesare Cases sulla rivista di Elena Croce «Lo Spettatore italiano» nel 1954. Dario Borso, che ha egregiamente curato questa nuova edizione, come già Paesaggio lacustre con Pocahontas, sostiene (p.es. qui e qui) che è una stroncatura. A me non pare così. Al contrario. M.S.]

              Cesare Cases

[NB. Nel ristampare la recensione nel ’63 Cases aggiunse in nota: «Quando scrissi quest’articolo non riuscii a reperire i dati biografici di Arno Schmidt e partii dal pacifico presupposto che fosse un giovane, impostando tutto il discorso su questo convincimento. Invece è nato ad Amburgo nel 1910, cioè aveva già 39 anni quando uscì Leviathan. È vero però che Schmidt, a parte e professioni di fede nella gioventù che mi hanno tratto in inganno, ha quella carica di vitalità propria di molti tedeschi antifascisti che hanno dovuto reprimerla e comprimerla durante il nazismo, quando corrispondeva alla reale gioventù anagrafica (un caso analogo è quello di Erich Kuby). Quindi ho lasciato tutti i riferimenti alla sua inesistente gioventù».]

Credevamo che si fossero ormai esaurite tutte le possibilità di fare della letteratura distruggendo la letteratura, e invece no. Arno Schmidt ci mostra che l’esistenza di un enfant terrible, animato da sentimenti eversivi contro ogni autorità e contro le forme tradizionali, eppure (incredibile a dirsi) sincero, è ancora possibile. Di questo atteggiamento egli ci dà una nuova, notevole variante che merita la nostra attenzione proprio per la sua unicità.

A prima vista le prose d’arte dello Schmidt si distinguono a malapena dalle altre del genere: sono scritte in prima persona, più o meno in forma di diario, in uno stile smozzicato e divagante, formicolante di lunghe parentesi, senza che vi succeda mai nulla di ben definito. Anche le situazioni sono tipiche. Delle tre prose del primo volume la prima (Gadir) è il diario di un centenario che da cinquant’anni, per ragioni misteriose, vive prigioniero in una fortezza cartaginese, nutrendo sogni d’evasione da cui lo libera la morte: cose che potrebbero benissimo essere dette in un racconto di Kafka o di qualche suo mediocre imitatore alla Kasack. La seconda (Leviathan) è il resoconto di un viaggio in treno, sembra da Berlino poco prima della caduta, verso una destinazione ignota (anche questo del treno è un motivo scontato fin dall’allegra preistoria del nichilismo, quando Erich Kästner canterellava:

Wir fahren alle im gleichen Zug
und niemand weiss wohin…
)

Nel treno ci sono varie persone tra cui, oltre al narratore, una ragazza cui lo legano imprecisi rapporti amorosi, un pastore protestante e qualche vecchio, con uno dei quali si fanno lunghi discorsi filosofici. La terza (Enthymesis), forse la migliore, è il diario di Filostrato, discepolo di Eratostene, membro di una spedizione scientifica che deve compiere misurazioni astronomiche. Ai margini di un grande deserto gli altri si rifiutano di continuare e Filostrato procede solo finché, esausto, arriva a una catena rocciosa al di là della quale lo trasporterà forse un essere mezzo uomo e mezzo uccello.

Già da questi pochi cenni risulta una caratteristica di Arno Schmidt: la predilezione per la cultura, sostenuta da una pesante erudizione che abbraccia entrambe le «facoltà filosofiche» delle università tedesche: storia, filosofia, letteratura, ma anche astronomia, chimica, fisica. È vero che anche qui questa cultura è usata in buona parte in funzione formalistica, estetizzante, per dare delle belle liste sonanti di nomi greci, fenici, babilonesi e Dio sa che cosa altro: «Thule, Basilia, Abalus, Mentonomon». Sono i soliti rampolli, spogliati da ogni pathos e resi asettici come elenchi di medicinali, della «fille de Minos et de Pasiphaë». Ma già in questi limiti lo sfoggio di cultura non riesce sgradevole. In fondo, anche se qualcuno ha da spregiare, come Faust, filosofia, giure, medicina e purtroppo anche teologia, piace vedere che ne abbia almeno prima gustato, laddove molti moderni scrittori d’avanguardia, siccome c’è già stato qualcuno che ha detto: «J’ai lu tous les livres», si ritengono esentati dal leggerli loro, ravvisando nell’analfabetismo la più sicura garanzia della buona riuscita della scrittura automatica. E la loro ignoranza essendo in realtà spuria, perché originata dall’esempio di numerosi scrittori della loro famiglia (e quindi pur sempre da letture), si finisce per preferire coloro che, come Joyce o questo Arno Schmidt, ti offrono implicitamente la loro biografia culturale, cioè la genesi della decomposizione, spesso assai più interessante della decomposizione stessa e in ogni modo presupposto indispensabile a comprenderla. Senza contare il vantaggio che ci si dà così l’impressione che se, come immancabilmente accade, non capiamo qualche cosa, ciò dipende da lacune della nostra cultura e non dalla nostra intelligenza, ché mentre tutti ammettono le prime nessuno (si legge all’inizio del Discorso del metodo) è disposto ad ammettere la mancanza della seconda.

Però qui la cultura ha anche una funzione positiva, che non aveva nemmeno in Joyce: non è soltanto un’eco, ma una promessa. Nella distruzione totale dei valori, in un mondo leviatanico, i libri sono un punto di riferimento, un appiglio. Poiché il nichilismo dello Schmidt non è per nulla compiaciuto e soddisfatto. Certo nei suoi lineamenti esteriori (il ripudio di ogni autorità) esso ricorda da vicino, per esempio, gli espressionisti tedeschi; e quando si sostiene la malvagia natura leviatanica del mondo con una disordinata, ma imponente girandola di immagini astronomiche, matematiche, fisico-chimiche, dietro di esse è facile intravedere il gran maestro dei poeti scienziati della decomposizione: Gottfried Benn. Ma anche qui si rivela come il mezzo migliore per trovare la propria personalità sia quello di affrontare risolutamente le letture fatte alla luce delle proprie esperienze, senza scansare né le une né le altre per cadere nell’imitazione o nell’immediatezza. Ora l’esperienza fondamentale dello Schmidt è il nazismo, per cui egli prova un orrore profondo e genuino, rarissimo, ahimè, tra i tedeschi d’oggidì. Esso è per lui l’incarnazione integrale del Leviatano, del brutto potere ascoso che opprime e distrugge l’uomo. Il nichilismo, la sete d’eversione, si appunta quindi contro ogni ordine in quanto ogni ordine è di natura leviatanica, è un precursore del «nuovo ordine» nazista. Donde, in certo qual modo, una valutazione della storia ex analogia fascismi: suffeti cartaginesi, re macedoni e soprattutto burocrati romani sono altrettanto mostruose manifestazioni di statalismo leviatanico.

Nessuno è risparmiato, e meno che mai il cristianesimo. «Il campo di concentramento non è stato inventato da Stalin o da Hitler o nella guerra dei Boeri, ma in seno alla Santa Inquisizione: e la prima esatta descrizione occidentale di un campo di concentramento ben organizzato lo dobbiamo alla fantasia pervertita del cristianissimo Dante. Prego, non manca nulla: le fosse del concime, il supplizio dell’acqua gelata, l’eterna corsa ritmica dei flagellati; per gli eretici stanno pronte le arche infuocate e la gente presa da inutile brama di conoscenza – Ulisse – viene fulminata dall’altro …». Come si vede, anche la cultura, e non della minore, si è compromessa col Leviatano. Già prima di Dante, Platone: «Che cosa ci sia di grande in Platone, non l’ho mai potuto capire: certo scrive con eleganza, talvolta, ma spesso i suoi libri sono pieni di banalità stilistiche e filosofiche lunghe pagine intere, quali non si perdonerebbero ad uno scolaretto. Eppoi, come coronamento, quell’utopia pazzesca, con la comunità delle donne e dei fanciulli e la nuda idolatria dello Stato: “durante una guerra non sarà lecito a nessuna di sottrarsi ai baci di un prode” e cento altrettanti disgustose assurdità. È il breviario per un eunuco fanatico, cupido di immortalità, che sghignazza freddamente divertito sopra milioni di idioti immersi nel sonno dello spirito».

Questa sommaria parentela tra Dante, Platone e, diciamo, Ilse Koch, rivela certo sempre dell’enfant terrible in rivolta contro i miti scolastici. Col semplicismo per cui ogni organizzazione purchessia sarebbe leviatanica e concentrazionaria non si va molto lontano. Ma lo Schmidt sceglie bene le sue vittime e i loro dati deboli. Dante non è tutto nella feroce burocrazia del contrappasso, né Platone in quella della sua repubblica; però ci sono, né si può serbar rancore allo studente ribelle se le scinde da ogni contesto storico e le assume a riprova dell’eternità di un astratto terrorismo. Non dimentichiamo poi che se questo semplicismo è un errore, è un errore ingenerato da una violenta, incontrollata reazione alla dittatura nazista, e quindi un errore che può essere benefico. Per un giovane cresciuto in un’epoca in cui si mirava a rimbecillire e abbruttire la gioventù, è anzi quasi il massimo che si possa pretendere dalla spontaneità dell’individuo. Ed è sintomatico che il nazismo abbia portato questo giovanile nichilismo su un piano politico, per quanto primitivo e generico: qui non c’è traccia della rivolta contro la famiglia, il matrimonio, la morale convenzionale che aveva tanta parte nella letteratura fino all’espressionismo. Non che questi problemi non esistessero, ma la loro unilaterale esasperazione serviva per lo più a celare un conformismo di fondo, mentre l’esperienza nazista li ha spazzati via portando alla ribalta questa nuda, scheletrica, ma sentita opposizione tra apparato politico coercitivo e libertà umana.

Poiché in favore dello Schmidt non militano soltanto delle pure e semplici attenuanti sociologiche. C’è nel suo anarchismo qualche cosa di profondo e di indistruttibile: il momento dell’indignazione giovanile, della piena del cuore ferito. Non lasciamoci ingannare dal suo dichiarato antiumanismo. Un personaggio grida: «Ich fluche allem Gemensch!» (come dobbiamo tradurre: «maledico tutta la uomaglia»?) Tutti gli uomini, difatti, sono complici del Leviatano. Ma sappiamo che l’autore ama i libri, anche se non Dante o Platone. Lo stesso personaggio afferma che «non c’è beatitudine senza libri». E i libri sono purtuttavia scritti da uomini, sono la garanzia che vi sono uomini buoni. «La natura – cioè il Leviatano – non ci offre nulla di perfetto; essa abbisogna sempre di correzioni ad opera di spiriti buoni». La parola «buono» ritorna spesso, ed è il semplice, ingenuo, simpatico sottinteso di tutta la pars destruens: «Io chiamo la gioventù del mondo alla ribellione dei buoni contro la natura e contro Dio!». In questi ombrosi, ma sicuri interstizi del Leviatano si insinua la poesia dell’autore: poesia fatta di caste visioni naturali sporadicamente balenanti tra le imprecazioni sulla «uomaglia» e le noterelle erudite. Solo di rado essa si dispiega in un canto fermo che dà la misura di quel che possa lo Schmidt quando si abbandona alla sua romantica nostalgia dell’idillio («La nuvola si ferma e mi guarda; | il ruscello scorre azzurro e lucente | sui suoi piedi di argento; | fugge il mezzodì, fugge il crepuscolo, | giunge la sera piena di fuoco | e bianche stelle spuntano»). Voci schiette, elementari, che contrastano stranamente col tono teso e insieme elaborato del resto. Anche qui si potrebbe vedere la tradizionale incapacità tedesca di uscire dal conflitto tra astratto e nebuloso raziocinare ed evasione intimistica, entrambi senza senso concreto con la società, ma anche qui ci sembra che tale tradizione sia inverata e redenta dal sincero afflato giovanile che ne pervade la polarità.

Del fenomeno gioventù emerge anche un altro aspetto: quello prometeico. I pochi «buoni» sottratti alla morsa del Leviatano nutrono smodate ambizioni. Filostrato, il discepolo di Eratostene, discorda dal vecchio maestro per quanto riguarda la forma della terra: «Ho detto una volta a Eratostene che è caratteristica dello spirito di voler l’infinito; ora il disco è più infinito della sfera, dunque la terra deve essere un disco. E aggiunsi impazientemente se non sentiva come sarebbe stato terribile quando si fosse finito di scoprire la superficie della sfera. Egli assentì con indifferenza e replicò sorridendo… Ma gli ho taciuto la cosa più importante: dove si deve fuggire, se la terra è una sfera? Sì che non si debba più, infine, fissare terrorizzati un volto umano…». La punta antiumanistica (Filostrato vuole raggiungere «la città senza uomini») rattrista, ma siamo oramai corazzati contro di essa. Il prometeismo dello Schmidt non può professare che degli orizzonti asociali. Ma l’importante è che qui si trovino tutti i requisiti di quella rara avis che è un giovane, un vero giovane, e non uno di quei sepolcri imbiancati che simulano la gioventù attraverso il freddo disordine dei loro giochi verbali. Nello Schmidt il disordine è la colata della passione, il traboccare del furioso processo alla propria vita e ai propri libri e della furiosa esaltazione della proprie impossibili speranze. C’è un momento nella vita in cui si vede il Leviatano anche dove non c’è e si crede che la terra sia un disco infinito anche quando si sa che è una sfera finita. Questa è la verità dello Schmidt.

Certo, il momento dell’adolescenza è soltanto un momento. Ce ne rendiamo conto aprendo il secondo libretto, pubblicato a quattro anni di distanza dal primo. Già la differenza della veste tipografica salta agli occhi. Sul primo, piuttosto dimesso, troneggiava in copertina un orribile mostro di Staudinger, mezzo Brueghel, mezzo Kubin e mezzo Picasso. Il secondo fa parte di una collana «Studio Frankfurt» che è un calco dell’americana «New Direction», coi medesimi irritanti caratteri «Sparta» (nati per la réclame, essi tradiscono l’immanenza della commercialità nella più esoterica letteratura d’avanguardia), coi medesimi titoli senza maiuscole, spesso gli stessi libri americani tradotti e una sagoma cubista sulla lucidissima copertina in tricromia. Evidentemente i nichilisti si sono alquanto imborghesiti, scoprendo che il miglior posto di battaglia per distruggere la letteratura (a prescindere dai vantaggi finanziari) è la radio («Studio Frankfurt» pubblica, come promette il nome, molte sceneggiatura radiofoniche).

Arno Schmidt resiste bene alla prova nella seconda delle due prose di questo volumetto (Alexander oder Was ist Wahrheit?) Siamo di nuovi tra greci e orientali. La prima persona è il diciottenne Lampone, discepolo questa volta di Aristotele, che si reca in Oriente presso uno zio, ufficiale di Alessandro Magno, spinto dal desiderio di vedere il grand’uomo. Il viaggio, in compagnia di due commedianti, lo mette a contatto con la realtà dell’impero macedonico, deludendolo lentamente. Alessandro è in realtà un capriccioso tiranno levitanico, un massacratore le cui gesta sono indorate da bollettini di guerra e storiografi ufficiali. Quando Lampone giunge alla sua residenza, non può vederlo perché è in agonia, stroncato da un veleno preparato dalle mani di Aristotele, il quale si è messo di persona a organizzare il suo 20 luglio contro l’allievo degenere, riuscendoci meglio dei generali e dei borgomastri tedeschi. I motivi sono dunque gli stessi delle prime prose, solo più attenuati e riposati: si capisce che l’esperienza nazista è più lontana. Ma ad essa lo Schmidt è fedele, e questo racconto sembra quasi un’allegoria della gioventù irretita del fascismo e a poco a poco disincantata. L’immagine dell’adolescenza è quindi meno parossistica e più concreta di prima, con sfumature psicologiche delicate come il timido amore per la commediante-etera Monica (un altro punto a favore dello Schmidt è il tono fresco e pudico dei momenti erotici). Sembra insomma che in questa direzione, placando e approfondendo le bollenti intuizioni del Leviathan, lo Schmidt possa ancora lavorare con successo.

Diverso discorso è da fare per il primo racconto, Die Umsiedler (Gli emigranti). Si tratta di due profughi dalla Slesia, un uomo e una vedova di guerra, che traversano il Rheinland e poi trovano una residenza stabile nel paese di lei, dove conversano interminabilmente di amore ed altre cose. Qui l’anarchismo si fissa in modo accademico. «Niente più guerra, niente più miseria! Il mio voto se lo piglia il partito che è contro il riarmo e per la limitazione delle nascite!». «Dunque nessuno?» «Dunque nessuno». Puro malthusianesimo espressionista. Preferivamo lo Schmidt che voleva la città senza uomini a questo che la vuole con pochi uomini comodamente installati: ci sembra più umanista quell’altro. È ancora tanto abile da introdurre nuovi felici varianti dei vecchi spunti, per esempio del motivo antireligioso. Siccome la donna è un po’ attaccata alla religione c’è una specie di gustosa caricatura del famoso dialogo tra Faust e Margherita: «Cultura cristiano-occidentale!? Se la fosse andata come volevamo quelli, ancor oggi prenderemmo la terra per un piatto con Roma o Gerusalemme in mezzo: con Kant e Schopenhauer avrebbero fatto un rogo, e sopra da bravi Goethe e Wieland, e poi lo avrebbero acceso con Darwin e Nietzsche! Nooo, Katrin, il cristianesimo non ha niente a che vedere con la cultura». Katrin protesta debolmente che i preti sono persone colte. «Cosa ti viene in mente? – chiesi stupefatto, – Lo chiami cultura se uno invece di Dio può dire Deus, Théos, Elohim? Poiché tutto si riduce a questo. Lascia stare: il timore del Signore impedisce l’inizio della sapienza». E più oltre: «Non vi è niente di così assurdo che i fedeli non credano. O i burocrati non facciano».

Fa piacere vedere che l’anarchico irriducibile non cade in certe trappole cristiano-occidentali, ma la sua ribellione è diventata decisamente prolissa, snobistica, cinica. Ci vedi il cittadino del mondo che si fa fotografare mentre brucia il passaporto, salvo richiederne uno nuovo il giorno dopo per non aver seccature. Si è rifatto la biblioteca: «Ottanta volumi (dopo la prossima guerra saranno soltanto dieci)». Ahimè: il nichilismo erudito, per mantenersi in efficienza, ha bisogno di nuove prospettive belliche.

La stessa decadenza è nello stile, sempre abile, ma questa volta freddamente abile. C’è un richiamo ancestrale nel fatto che i due si stabiliscono a Bingen, patria di Stefan George (evocato anche dai caratteri «Sparta»). Ma è soprattutto l’occupazione americana che ha lasciato tracce in molte parole e in inutili abbreviazioni. La gentile paroletta Klo, per esempio, si trova sparsa a profusione e sembra tolta di peso da Longo Sofista o da Gessner, e invece è il troncamento di Klosett (troncamento usuale, è vero, ma che qui diventa prezioso). Non parliamo poi dei giochetti verbali di pessimo gusto. Già in prima pagina incontriamo parolibere del tipo «greisig gräulich griesgram Gräber grimming»: allitterazione germanica o Isidore Isou? Probabilmente il secondo, visto che per gli antichi Germani, ampiamente compromessi col nazismo, lo Schmidt ha scarsa simpatia. E andando avanti eccoci a un asmatico «hassen hasten rasen rasten». Purtroppo il nuovo Schmidt ci fa diffidare del vecchio. Avevamo tanto ammirato quell’«Ich fluche allem Gemensch!», dove l’ardito neologismo Gemensch esprimeva ottimamente tutto il giovanile vigore nichilistico. Ma qui leggiamo: «Unten waren viele Damen: das Gedam» e ci cadono le braccia. La faccenda comincia a diventare stucchevole: Paganini si ripete. Possibile che ci siamo ingannati; che anche la violenza verbale del primo Schmidt fosse soltanto uno dei soliti esercizi manieristici?

Preferiamo credere di no. In tanta carenza di giovani veri dobbiamo aggrapparci disperatamente ai pochi che ci sembrano tali. Preferiamo continuare a credere che lo Schmidt abbia incarnato, almeno per un momento, la ribellione della genuina «gioventù del mondo» contro la barbarie nazista. Per questo ci è caro, nonostante i suoi limiti, e vorremmo che non si discostasse da quell’esperienza, come avviene ancora in Alexander. Ma se (Dio liberi) non sopraggiungerà un’altra guerra mondiale a ridurre il numero di libri e a riattivare l’esasperazione anarchica, bisognerà bene che lo Schmidt si adatti alla stabilità e si accorga che ci vuole un minimo di organizzazione anche per combattere il Leviatano. A meno che non si ritiri nell’egoistico menefreghismo malthusiano degli Umsiedler, il quale, come è ormai ampiamente dimostrato, è una delle più salde colonne su cui le tirannie leviataniche instaurano il loro sanguinoso terrore.

Cesare Cases

Cesare Cases, Un giovane contro il Leviatano, «Lo Spettatore Italiano», VII, n. 10, ott. 1954, pp. 462-465; ristampata in Saggi e note di letteratura tedesca, Torino, Einaudi, 1963, pp. 260-268 (rist. anastatica a cura di Fabrizio Cambi, Trento, Università degli Studi di Trento, 2002). Trascrizione di Claudio Musso.

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11 Responses to Arno Schmidt contro il Leviatano

  1. db says:

    diciamo che per me è una recensione perfidamente diffamatoria.

  2. db says:

    questa non è una stroncatura:

    “Al contrario di quasi tutti i suoi colleghi, Arno Schmidt è un giovane intellettuale e poeta che non solo approva di cuore il tramonto dell’occidente, ma anche desidera ardentemente, e per l’immediato futuro, il tramonto dell’umanità. Il tono è quello cinico di un moderno desperado che ha visto e patito la guerra e tutte le malvagità del nostro mondo attuale, con un fondato e legittimo pessimismo dunque e una comprensibile aggressività. Ciò per sé solo non sarebbe interessante, la nausea universale non è più a corto di mezzi espressivi. Ma qui ora c’è un vero poeta, che ci sputa in faccia il suo ribrezzo, e già il titolo Leviatano, saturo di associazioni a Giobbe e Isaia, ma anche a Julien Green , promette più di un mero feuilleton esistenzialistico . Questo giovane poeta spavaldo e assai dotato, che in mitiche preesistenze ha già ucciso Platone, ha conosciuto il demone Leviatano e si è dedicato a calcoli sulla liquidazione dell’umanità, è un visionario un po’ arrischiato e magari non privo di rischi, ma genuino. E pure il suo affettatamente sottolineato amore per l’apparentemente esatto, per matematica e astronomia non è l’amore ingenuo del logico devoto, ma quello ardente e nervoso dell’utopista e dell’eretico.”

    Hermann Hesse, 1949.

  3. michele sisto says:

    Beh, mi sembra che Cases dia di Schmidt un’immagine non molto distante da quella di Hesse. Anche a lui piace l’utopista, l’eretico, che sputa in faccia al lettore il suo ribrezzo (per il nazismo, specifica). Poi, certo, gli rimprovera l’orientamento anarchico e lo invita a aderire al comunismo. Col senno di poi, possiamo dire che aveva torto, e che Schmidt aveva ragione. Ma ciò non toglie che Cases avesse per lui un’evidente simpatia. Tant’è vero che si adopera fin dal ’54 perché Einaudi lo pubblichi, suscitando l’entusiasmo di Solmi e di Calvino. Ma purtroppo, al vedere i testi, i traduttori se la davano a gambe, e per questo di Schmidt si è pubblicato molto poco, e tardi… ma partire proprio dal ‘Leviatano’, uscito nel 1966 sul “Menabò” di Vittorini e Calvino. (Del resto sono parecchi gli autori di cui Cases caldeggiava la pubblicazione e che, per lo stesso problema, sono arrivati in Italia con decenni di ritardo e in traduzioni parziali: basti pensare a uno dei suoi ‘fari’ dichiarati, Karl Kraus.) Solo negli ultimi anni si è riaperta la pratica Schmidt: con la traduzione della trilogia ‘Dalla vita di un fauno’ – ‘Brand’s Heide’ – ‘Specchi neri’ fatta da Domenico Pinto per Lavieri e con il ‘Pocahontas’ e questo ‘Leviatano’ di Borso. Herzlichen Dank.

  4. db says:

    buongiorno Michele. la domanda che mi pongo, e tu potresti avere una risposta, è: perché Cases nel 1965, invece di pubblicare *Leviatano*, libro composto di 3 racconti il cui primus inter pares (ma anche senza pares, perché AS gli ha aggiunto gli altri due solo su richiesta dell’editore) è “Leviatano o il migliore dei mondi”, rifiuta questo e al posto suo inserisce un altro racconto storico-allegorico? certo, lo fa uscire l’anno dopo sul Menabò, ma non è la stessa cosa. infine: chi sarà la cotraduttrice (con E. Picco) del Leviatano, R. Berardi Paumgartner?

  5. michele sisto says:

    Quello che posso dirti per certo è che Cases non aveva alcuna voce in capitolo nella collocazione dei libri nelle collane. Una volta redatto il parere di lettura – che nel caso di Schmidt era sempre positivo – il suo compito si esauriva e la responsabilità passava alla redazione e ai direttori delle collane. Negli anni cinquanta-sessanta era soprattutto Calvino a occuparsi delle uscite di letteratura contemporanea, e Calvino era a sua volta un sostenitore di Schmidt.

    Certo, Cases poteva dare dei suggerimenti, ma la decisione finale non era sua. So che il “Menabò” dedicato alla letteratura tedesca era in cantiere da tempo, all’incirca da quando Feltrinelli aveva pubblicato l’antologia di scrittori tedeschi contemporanei “Il dissenso” (1962), e a volerla era soprattutto Vittorini (che in quel periodo era molto interessato a Uwe Johnson). Quindi suppongo che si sia deciso, già prima del ’65, di inserire il “Leviatano” nell’antologia, anche perché si prestava all’idea di “Letteratura come storiografia” (il titolo dato all’antologia) molto meglio dei racconti d’ambientazione classica. Per questo, penso, il volume “Alessandro o della verità” è uscito senza il “Leviatano”. Bisogna anche tenere presente che quel volumetto, uscito nella Ricerca letteraria, era pensato – almeno da Cases – come il primo di una serie di almeno due, che doveva dare un’idea complessiva della produzione di Schmidt.

    Di Rosanna Berardi Paumgartner non so dirti nulla. In un appunto sulle traduzioni di letteratura tedesca conservato nell’archivio Einaudi il “Leviatano” è segnalato come tradotto da lei nell’estate del 1960. Quindi la traduzione è stata rivista, più tardi, da Emilio Picco, l’unico traduttore professionista che si è infine dichiarato disposto a tradurre Schmidt. Berardi Paumgartner non ha tradotto altro, cosa abbastanza comune in quel periodo, in cui, per la mancanza di traduttori, si ricorreva a non professionisti (spesso donne), che finivano per tradurre un titolo o due, e poi sparivano. Magari erano anche bravi, come Letizia Fuchs Vidotto, traduttrice dalla “Morte a Roma” di Wolfgang Koeppen (Einaudi 1959).

    Comunque una cosa è fuori discussione: sia Cases che Calvino erano favorevoli a Schmidt e si sono adoperati per pubblicarlo. Che ci siano riusciti tardi e con molti limiti dipende soprattutto dalla mancanza di traduttori, e in secondo luogo dal fatto che nessuno, nell’Italia di quegli anni, era interessato a una prosa come quella di Schmidt, tutti presi com’erano, critici e scrittori, dal dibattito sul neorealismo e sulla neoavanguardia à la Gruppo 63. Peraltro, non credo che “Alessandro o della verità” abbia venduto più di qualche centinaio di copie: quindi non era neanche un affare dal punto di vista economico, tradurlo. Come non lo è neppure adesso, direi!

    Ora, non si può escludere che i ritardi dell’Einaudi abbiano danneggiato Schmidt, che avrebbe potuto essere rilevato da altro editore (ma quale?). Escluderei però risolutamente che ci sia stato un tentativo di boicottaggio, per motivi politici o d’altra natura. Cases e Calvino sono stati sempre tra i (pochi!) fautori di Schmidt, non certo tra i suoi avversari.

  6. db says:

    convincente su più punti, quindi grazie Michele: forse (e puoi dirmelo tu) a quei tempi era più normale di adesso smembrare i libri, ossia nel caso del Leviatano non pubblicarlo completo. Ad ogni modo, vorrei spezzare un’arancia (come dicono al mio paese) a favore di Picco, un fior di traduttore.

  7. michele sisto says:

    Direi di sì, che era normale. Studiando le traduzioni e il lavoro delle case editrici mi sono convinto di una cosa (banale, ma generalmente non percepita): che un un libro venga tradotto non è la regola, ma l’eccezione. E ogni eccezione ha la sua storia. In altri termini, di fronte alla produzione di un certo autore la prima domanda da fare non è: perché questa determinata opera non è stata tradotta? oppure: perché la si è tradotta solo parzialmente? bensì: perché questa determinata opera è stata tradotta? e perché proprio questa? e perché in questo determinato modo?

    L’industria delle traduzioni in Italia nasce negli anni trenta del novecento, e ancora fino agli anni sessanta compresi era percepito come normale tagliare i libri, assemblarli diversamente, tradurli “liberamente” ecc. Poiché la norma era (ed è) non tradurre affatto, e poiché il tradurre era (ed è) un atto “eccezionale” di per sé, i mediatori (traduttori, editori, consulenti, ecc.) avevano una sorta di vantaggio simbolico (si doveva loro gratitudine comunque!), e si prendevano la libertà di modificare i libri più di quanto non sia accettato oggi (anche se si continua a farlo).

    Su Picco sono pienamente d’accordo!

  8. db says:

    dubbio residuo: tu dici che Cases era favorevole a Schmidt, ma secondo te questa recensione è favorevole a “Leviatano i Il migliore dei mondi”? a me sembra di no, e che Cases l’abbia ripubblicata nel 1963 è sufficiente a motivare il declassamento del testo, dal libro alla rivista.

  9. michele sisto says:

    Per la me la recensione è inequivocabilmente positiva. E ti confermo che lo sono anche tutti pareri di lettura che Cases ha scritto su Schmidt. Almeno quelli conservati. Li potrai leggere nel volume “Scegliendo e scartando”, in cui ho raccolto 250 pareri di Cases. Dovrebbe uscire fra qualche settimana per Nino Aragno Editore. Temo che tu debba rassegnarti: tu e Cases state dalla stessa parte! (con Pinto, Picco, Calvino e non molti altri…)

  10. db says:

    l’importante è raggiungere quota 11, per formare la nazionale traduttori di calcio !

  11. db says:

    Di Leviathan, raccolta di tre prose d’arte di cui la seconda è l’omonima, Cases qui sopra scrive: “La terza (Enthymesis), forse la migliore,”. Il forse è di maniera, il resto si capisce da sé.

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