Una relazione per l’accademia sul convegno «Kafka: nuove vie della ricerca»

(immagine via www.kulturas.de)

 Luca Crescenzi

La molteplicità di vie che la ricerca kafkiana ha intrapreso a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, quando cioè è cominciato a venir meno il fascino delle interpretazioni olistiche – metafisiche, esistenzialistiche o sociologiche che fossero –, produce oggi una pluralità di sguardi che il convegno organizzato a Venezia il 12-14 marzo 2013 da Andreina Lavagetto per il Dipartimento di Studi Linguistici e Letterari Comparati di Ca’ Foscari e da Luca Crescenzi per il Dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica dell’Università di Pisa ha cercato di mostrare nella forma più sintetica e rappresentativa possibile.

Nell’arco delle due giornate di incontri si sono confrontate interpretazioni di ispirazione filologica, culturologica e ermeneutica che, pur nella loro diversità, hanno mostrato come sia ormai da superare un vecchio pregiudizio critico: quello dell’impenetrabilità della scrittura kafkiana la quale, secondo un vecchio adagio caro alla critica decostruzionista, è una via labirintica che tenta l’interprete, lo attira dentro di sé e lo costringe al confronto, ma non lo conduce in nessun luogo respingendo ogni assalto (Jahraus). Il corollario non meno noto di questo teorema è che le forme della scrittura kafkiana non «rimandano positivamente, come pure fanno credere, ad una verità che stia al di là della loro bellezza fisica» ma, piuttosto, tematizzino il loro rapporto con la verità medesima in forma dubitativa unicamente in quanto « causa di una domanda» che genera risposte non meno rassicuranti che arbitrarie (Baioni).

È ben vero che se si considera l’opera di Kafka nel suo insieme si può avere facilmente l’impressione di percorrere labirinti senza uscita, ma l’occhio della ricerca, nel corso degli ultimi anni, è venuto vieppiù concentrandosi sui dettagli delle narrazioni, dei diari e degli epistolari, individuando più di una via percorribile per penetrare all’interno dell’officina kafkiana delle idee.

Da questo punto di vista è risultata esemplare la relazione introduttiva di Gerhard Neumann dedicata alle forme del movimento nelle fulminee prose della prima raccolta narrativa pubblicata da Kafka, Contemplazione. La struttura «puntillistica» dell’insieme dà forma, secondo Neumann, a un Bildungsroman per frammenti al cui centro sta la rispondenza della visione a una concezione dinamica della «carriera» dell’Io di cui sono espressione i movimenti (andare, correre, saltare, fermarsi, stare) insistentemente tematizzati dai frammenti. Il Bildungsroman kafkiano si costituisce in altri termini come una successione di «esperimenti sul tema dei movimenti vitali» che la narrazione segue con tecnica cinematografica lasciando che la macchina da presa agisca da (problematico) soggetto osservatore.

La tecnica cinematografica della scrittura è stata, non a caso, posta al centro della relazione di Peter-André Alt dedicata alla «poetica voyeuristica» di Kafka. Se il grande problema della scrittura kafkiana è – come recita una nota di diario del 15 febbraio 1920 – la «traduzione» nella scrittura di una visione del mondo fondata sull’osservazione, diventa impedimento principale alla realizzazione di un simile programma lo «sfasamento» che l’immagine osservata conosce nel momento in cui si trasforma in parola. Tale sfasamento conduce, per un verso, allo sviluppo di una serie di tecniche rappresentative tratte dal cinema, come si vede ad esempio nel ricorso a vere e proprie didascalie cinematografiche in Ein Brudermord, per l’altro all’adozione di tecniche «traduttive» desunte dalla letteratura sul sogno prodotta, ad esempio, dalla scuola di Helmholz. Si spiegherebbero così alcune particolarità peculiari della scrittura kafkiana come l’attitudine a «smembrare» l’immagine per restituirla «condensata» alla pagina scritta o la presentazione di «istantanee» in successione che compongono per flash narrativi l’insieme di una vicenda. La stessa natura onirico-realistica della scrittura kafkiana deriverebbe dalle riflessioni sugli «Halbschlafbilder», le visioni sulla soglia tra percezione diurna e notturna, che occupano gli studi sul sogno già a partire dalla metà dell’Ottocento.

È evidente che, considerata in questi termini, la scrittura kafkiana rivela la limpida concezione su cui si costruisce e manifesta una concretezza, per così dire, «tecnica», che molto può spiegare della sua forza suggestiva e del preciso calcolo su cui la suggestione medesima si regge.

Il nesso tra cinema e narrazione del resto è da tempo un argomento centrale della riflessione sull’opera di Kafka. Nel suo intervento Matteo Galli l’ha sondato nella prospettiva della ricezione da parte del cinema del dopoguerra. Attraverso un’acuta analisi della trasposizione cinematografica del Processo nell’omonimo film di Orson Wells e, in particolare, attraverso una considerazione delle scelte registiche relative agli interpreti della pellicola e ai ruoli da essi interpretati in altri film, Galli ha offerto una lettura penetrante del lavoro wellsiano mettendone in evidenza i sottintesi interpretativi tutti tesi a marcare il nesso tra la sessualità di Joseph K. e il processo cui è sottoposto. Una simile lettura potrebbe risultare persino riduttiva dopo i decenni spesi dalla critica kafkiana sulle lettere a Felice Bauer e sulle letture biografiche del Processo generate dall’analisi canettiana dell’epistolario. Ma la lettura di Wells precede tanto la pubblicazione delle Lettere a Felice quanto, ovviamente, il saggio di Canetti a esse dedicato e porta alla luce una riflessione su colpa e sessualità che acquista toni nietzscheani laddove riconduce alla ginecofobia e a una concezione ostile del femminile (che si vale visivamente del ricorso a un attore come Anthony Perkins reso celebre pochi mesi prima della realizzazione di The Trial dal ruolo di Norman Bates in Psycho di Hitchcok) la natura del “delitto” di Joseph K. È un tema sotterraneo, profondo, che Wells coglie nel senso di Kafka per le immagini e che riproduce nelle libertà visive e inventive del suo film finendo per suggerire una lettura del conflitto tra i sessi di portata ben più ampia rispetto a quella tramandata dalla vulgata kafkiana.

La medesima riflessione sul valore rivelatore delle metafore e delle immagini che si riscontra nell’intervento di Galli è emerso anche nella relazione dedicata da Oliver Jahraus  alle figure del gelo o, meglio, alla dottrina del comportamento nel gelo nella narrativa kafkiana. Riprendendo il motivo di una riflessione sviluppata quasi un quarto di secolo fa da Helmut Lethen in riferimento alla letteratura degli anni Venti e Trenta, Jahraus individua nella narrativa kafkiana molti luoghi in cui la metafora del gelo – con riferimento alle rappresentazioni dell’autorità nella famiglia e nella comunità – diventa direttrice della lettura: una lettura che a sua volta esige e insegna la «freddezza». Dal Castello al Medico di campagna, dal Verdetto alla Metamorfosi la narrativa kafkiana riflette nelle sue atmosfere raggelate sulle «condizioni da cui si generano situazioni rivoluzionarie» che mettono in discussione la legittimità del potere e inducono a una riflessione fredda, «non emotiva», dei rapporti di forza messi in gioco dal testo. L’esemplarità di un racconto come Rinuncia! starebbe allora proprio nella problematizzazione dell’autorità e nella costruzione di una relazione con il lettore che mette in atto, anziché semplicemente esporre, una dottrina del comportamento nel gelo.

Si può leggere in questa chiave anche la riflessione sull’antagonismo bello/sublime nel Verdetto sviluppata da Sandro Pignotti il quale, attraverso la precisa distinzione delle opposizioni binarie che strutturano la novella, ha messo in luce le forme che l’autorità paterna assume nella narrazione rispetto alla realtà concettuale e esistenziale del figlio. Pignotti parla in tal senso di una «concorrenza estetica» tra i due protagonisti del racconto che, proprio come nelle poetiche binarie del Settecento europeo, definiscono i termini di un contrasto irriducibile a una misura comune e articolano una doppia concezione dell’Io e della realtà di cui sono al contempo i rappresentanti esemplari e gli attori. Se quindi la sfera del calore e del giorno pertiene alla realtà “bella” del figlio, sono la notte e il freddo a caratterizzare la sfera «sublime» del padre, secondo una logica di rappresentazione del conflitto d’autorità che può ben introdurre a una «dottrina del comportamento» nel gelo nei termini descritti da Jahraus.

La questione dell’autorità e della sua rappresentazione in Kafka, sia pure in altri termini, è emersa anche nell’intervento di Luca Crescenzi che è tornato sul testo principe della riflessione kafkiana intorno al rapporto padre/figlio, la Lettera al padre, considerata tuttavia non come documento di una dolorosa riflessione autobiografica, ma come rappresentazione letteraria di questo stesso conflitto costruita su una congerie di materiali biblici e teologici messi in risonanza con la materia esistenziale del testo. Ne deriva un’interpretazione della lettera come terreno di incontro tra la realtà e la sua trasformazione ad opera di una «profonda maschera concettuale». Dal confronto/scontro tra queste due dimensioni prende forma una narrazione irriducibile alla sua dimensione mimetica in cui emerge una figura paterna che ha simultaneamente la natura del padre reale, quella di un patriarca e quella della sua proiezione metafisica – una creazione esclusivamente letteraria poiché in questa forma sta la realizzazione di qualcosa che non c’è mai stato e non può esserci se non come simbolo o, appunto, come maschera.

Considerazioni diverse, ma egualmente dirette a indagare le strutture portanti della narrativa kafkiana, ha sviluppato l’ottimo intervento di Mathias Mayer che ha analizzato il significato della figura retorica della litote per la narrativa di Kafka. Attraverso una nutrita serie di esempi, dalla parabola Davanti alla legge agli aforismi di Zürau, da Josephine la cantante a Un digiunatore, Mayer ha potuto mostrare come la doppia negazione possegga, nell’opera di Kafka, una valenza centrale la quale – lungi dal possedere il valore di un’affermazione rafforzata – mantiene la narrazione in una sorte di sospensione continuata. Esemplare il caso del rapporto con la musica di Gregor Samsa già trasformato in insetto e dell’interrogazione che lo Untier, il quale in questo caso appare come come un «non-non uomo», rivolge a se stesso domandandosi se il fatto che la musica medesima lo commuova non stia a dimostrare la sua estraneità tanto al mondo umano quanto a quello animale. Puntuale nell’analisi delle microstrutture formali del testo l’intervento non si è limitato, tuttavia, a sviluppare una riflessione formalistica, mostrando da ultimo come, nella sua tensione sospensiva, la litote sembri ricondurre la narrativa a kafkiana a modelli talmudici o manifestare una notevole vicinanza all’ermeneutica rosenzweighiana nella misura in cui essa si costituisce intorno al pensiero del «Nicht-Nichts».

Tutto dedicato al rapporto tra la scrittura di Kafka e la cultura del teatro yiddish è stato l’intervento di Peter Sprengel, che ha illustrato con notevole acribia filologica, sulla base dell’analisi dei testi di Jacob Gordin elaborati per la scena da Jizchak Löwy, il significato di drammi come Got, Mentsh un Tayvl e, soprattutto, Der vilder mentsh per l’avvicinamento di Kafka alla tradizione dell’ebraismo orientale e alle tematiche del teatro di Gordin. Ne è emerso un quadro aperto, reso più complesso dalla natura dei tagli praticati da Löwy sui testi originali (sostanzialmente tesi a cancellare ogni risoluzione conciliatrice) e dall’incertezza sulla forma delle rappresentazioni effettivamente giunte alla conoscenza di Kafka per le quali è possibile solo avanzare congetture indirette (ad es. attraverso l’esame dei superstiti copioni e delle foto di scena delle rappresentazioni berlinesi di Der vilder mentsh).

Ancor più grande perizia filologica – come era logico prevedere – ha evidenziato la presentazione del volume di lettere kafkiane degli anni 1918-1920 in uscita all’interno dell’edizione critica delle opere kafkiane e curata dal relatore, Hans-Dieter Koch. I 242 numeri di cui si compone l’edizione riservano non poche sorprese tra cui, oltre a 9 lettere inedite e 10 lettere restituite alla loro forma integrale, le sole 2 lettere superstiti – e finora sconosciute – indirizzate da Kafka a Julie Wohryzek (si tratta di due brevi missive inviate per posta pneumatica scoperte causalmente da collezionisti filatelici). Anche i cosiddetti Gespenster-Briefe – fino a oggi uno dei grandi misteri della critica kafkiana dedicata al rapporto con Milena trovano nella nuova edizione una nuova sistemazione cronologica e risultano assai più comprensibili (pur perdendo con ciò non poca parte del loro fascino).

L’intervento dedicato da Alessandro Piperno alla «tentazione di non pubblicare» in Flaubert e Kafka ha infine sviluppato una sottile riflessione sulla condizione creativa e il perfezionismo in dialogo con i grandi scrittori-interpreti di Kafka, da Kundera a Nabokov a Philip Roth. Citando Kurt Wolff e il ricordo da questi dedicato a Kafka («Disse qualcosa che non avevo mai sentito prima da nessun autore, né avrei più sentito in seguito, e che perciò rimase inscindibilmente legata all’unico, irripetibile Kafka: “Le sarei sempre più grato se respingesse i miei manoscritti, piuttosto che pubblicarli”») Piperno riflette sulla «brutalità» del pubblicare come distacco dell’opera dal sé e come destino dell’autore: chi scrive non può non sentire l’innaturalezza del compimento e, quindi, della pubblicazione e dunque l’incompiutezza non è incapacità di concludere ma attributo necessario della scrittura. Una rivendicazione di autorialità che è l’ultima, somma e difficilissima perfezione dello scrittore.

Luca Crescenzi

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