Ulrike Draesner, Spiele

[Pubblichiamo la traduzione di alcune pagine del romanzo di Ulrike Draesner, “Spiele” (München, Luchterhand 2005), ambientato a Monaco durante i giochi olimpici del 1972La traduzione è di Irene Fantappiè. Grazie a Ulrike Draesner che ha acconsentito alla pubblicazione (I.F.)]

L’aveva fatto per loro, loro l’avevano preso in trappola, era venuto in loro aiuto, non gli avevano detto niente di cosa lo aspettasse, sapevano cosa avrebbe dovuto fare, lui l’aveva fatto, lì, comunque, era andato tutto bene, lì, comunque, non era successo niente, e ciò che era successo dopo neppure loro avrebbero potuto saperlo, sarebbe successo lo stesso, anche se lui non li avesse portati, sarebbe successo prima o in un altro posto oppure li avrebbe portati un altro, e adesso era successo, e si affrettò, le otto, alle nove avrebbe aperto l’agenzia, voleva essere il primo, il primo cliente del giorno portava fortuna, voleva essere lui, Matthias, era lui, sì.

Il cespuglio di sambuco protendeva scure bacche blu accanto alla cabina gialla del trasformatore, la metropolitana attendeva a porte aperte, come se tentasse di ridere oppure proprio ansimasse, in quel momento era ancora freddino. Matthias rallentò, lentamente era meglio, per lui, quasi quarant’anni, un po’ di pancia poteva anche avercela, finché riusciva ad entrare dietro al volante. Il volante gli si appoggiava sulla pancia. Così non volava lontano, quando frenava bruscamente. Cosa che comunque non faceva. Da diciannove anni guidava gli autobus, da dieci senza incidenti. Sulla strada si protendevano quei fiori selvatici che sarebbero stati in grado di sottrarre alla falce i loro cuori vegetali, neppure a chi portava una brutta notizia, oggi, si sarebbe mozzata la testa, non c’era altro da fare che abituarsi alla notizia, non era stato lui il messaggero, eppure si sentiva così, si diceva, calmati, tu li hai solo condotti, tutti, vivi, all’elicottero, tu hai guidato solo una volta, per un tratto breve, c’era silenzio, solo il motore, e lì, comunque, non è successo niente. 

Chiunque lo conosce lo sa, sa che sogna l’Adriatico. Italia. E’ uno che dice volentieri sì, ma anche uno che si accorge soltanto dopo di cosa stia realmente accadendo. Per questo è solo. Alcuni sostengono che dica, in ogni caso, regolarmente no. Eppure dice sì, vita natural durante, alle donne, al cibo e alla birra; no, gli dice la vita, lui ieri ha di nuovo detto sì e adesso sta andando a prenotare il suo viaggio, Italia, 500 extra l’hanno pagato, in contante sull’unghia, lì, comunque, non ha detto di no.

Finalmente si mosse a piccoli scatti la metropolitana. Sui campi il fieno seccava in grandi messi, le mucche portavano fasce con lunghe frange contro i tafani. Matthias a colazione aveva sentito la radio. Anche tutti gli altri nel vagone sembravano sapere com’era andata a finire a Fürstenfeldbruck. FFB: fonti e fiumi di birra. Frena, fermati, babbeo. Fila, figlio d’un bastardo! E ora? Era come se il giorno precedente stesse continuando, come se gli avvenimenti della notte avessero cancellato il tempo. Intorno a lui, in silenzio, la gente apriva i giornali. Su uno spiccava “Salvati tutti gli ostaggi”, in rosso. Sull’altro “Morti tutti gli ostaggi”, in nero. Così si stava seduti uno di fronte all’altro. Ci mancò poco che ridesse. Se non…. sì, cosa…, cos’era? Li aveva solo portati all’aeroporto, tre o quattro minuti, cinque al massimo.

A Marienplatz, gli schermi appesi per le olimpiadi erano spenti, ad uno era appeso un cartello: Computer per informazioni Golym, 500 milioni di dati caricati da 100 esperti per due anni. Sotto, un biglietto scritto a mano: sulla Palestina Golym non contiene niente, ci stiamo lavorando. Matthias era in piedi tra persone che correvano qua e là, gli sembrò più vuoto che negli altri giorni, ognuno era di fretta, voleva andarsene rapidamente.

Ieri l’avevano chiamato, nel suo giorno libero, stava togliendo le lumache dall’insalata, schizzò in piedi tanto che la schiena gli fece male. Deve venire! Hanno bisogno di uno che sappia guidare un autobus. Un civile. Senza mezzi termini implorano: vieni! Servizio al villaggio olimpico. Non sapeva cosa stesse succedendo? Fa lo stesso, no, a maggior ragione non doveva assolutamente guardare la televisione. L’uniforme non gli sarebbe servita, meglio di no. Lui lo sente, come discutono. Dice di no.

Gli dicono che è il più anziano. Può farlo. Deve farlo. E’ lui che hanno chiamato per primo. Gli altri poi sono tutti di turno.

E allora?, chiede, perché dovrei farlo. E’ il mio giorno libero.

Perché sei il più anziano. Hanno ripetuto. Ne varrà la pena, Matthias, hanno detto poi.

Italia. Prese la sua giacca e partì. Andando afferrò dal tavolo del giardino il barattolo da senape con le lumache e lo sistemò nel portabagagli.

Soltanto dopo gli fu chiaro che avevano chiesto a lui perché era l’unico senza famiglia.

Matthias attraversò Marienplatz verso il Tal. L’agenzia di viaggi la conosceva dai percorsi del suo bus. Prenotare qualcosa qua, una volta nella vita! E adesso poteva dare in acconto addirittura 500 in contanti. Portare ostaggi e rapitori all’elicottero. Non poteva sapere come sarebbe andata. O no? 500 extra, era il risultato. In quel momento, però, già sapeva che la faccenda puzzava. E gliel’avevano perfino spiegato. In tutta franchezza. Non si poteva lamentare. Il rischio era chiaro come il sole. Aveva detto sì. Alla fine, era lì. Faceva già buio. I rapitori erano tesi. La giornata era stata snervante per tutti. Le sue forze fresche arrivavano davvero a proposito. Pareva una cosa innocua: guidare il bus per un tratto. Però lo sapeva, cosa significava. Metteva la sua vita in gioco. Si guadagnava onestamente i suoi soldi in più.

Tutte le sedie intorno alla Mariensäule erano occupate, le rose del giorno prima giacevano al suolo appassite, accanto la gente in piedi tentava di ricomporre i frammenti di notizie in qualcosa che avesse senso. Davanti ai vetri di una banca, con dentro un televisore acceso, si era formata la calca. Venne avanti un camion dei pompieri. La scala si azionò distendendosi completamente, poi un poco all’indietro, finché l’uomo nella cesta poté raggiungere senza sforzo le bandiere. Portava l’uniforme color cenere degli impiegati statali e ammainò le bandiere olimpiche, il verde allegro, il blu ottimista, il bianco con i raggi del sole disegnati. Quando l’auto ripartì, davanti al municipio sventolavano ormai soltanto le bandiere della Baviera, della Repubblica Federale e della città di Monaco, a mezz’asta.

Tirava vento, come formiche le prime foglie d’autunno si rincorrevano l’un l’altra sulla piazza, una pagina di giornale vorticava, Matthias chinò la testa. Vide entrambi gli elicotteri, uno ormai soltanto rottami e cenere, l’altro con la parte posteriore – coda, rotore, cofano – funzionante fin nei dettagli, ma lì, proprio dove sedevano gli ostaggi, ugualmente distrutto. Il resto dell’apparecchio esploso era indicato da quattro frecce nere, che spuntavano da direzioni diverse con i numeri 4, 8, 10 e 11. Matthias non riusciva a vedere nulla nel punto in cui indicavano. Il profilo dell’elicottero, incoronato dalle frecce, sembrava cartone ondulato per bambole di cartapesta.

Italia, disse fiero alla giovane dietro lo sportello. Lei sorrise, è grande. Mare, disse Matthias, ho 500 in contanti. Non fa niente, disse lei, dopo qualche secondo Matthias capì e rise anche lui. La donna frugava nei suoi cataloghi, Matthias lesse altre offerte, Mallorca, La Palma, Dubrovnik, ultima possibilità!, bello anche in ottobre, ma le mete sembravano tutte uguali – strinse i suoi biglietti da cento, giù in basso nel portafoglio, ieri, in contanti sull’unghia, dal budget di servizio. Là, i loro volti, così vicini. Dalle 19.20 gli elicotteri erano pronti, alle 21.00 scadeva l’ultimo ultimatum. Erano tutti nervosi, anche gli attentatori, l’avrebbe visto anche un cieco. Prima volevano andare a piedi, poi volevano un autobus. Ne arrivò uno piccolo, bianco, loro rifiutarono, ne pretesero uno più grande, in quel momento entrò in campo Matthias. Si cercava un volontario. Lui era già lì, seduto. E per di più con la patente giusta, se ne tenne conto. Era nervoso anche lui, sì, travolse un paio di cespugli. La piazza delle bandiere nel villaggio olimpico era deserta, erano accese solo le luci di tre o quattro paracarri, le ambulanze erano pronte.

Venne avanti lentamente. Spettrale. Fu felice quando svoltò dentro al sotterraneo.

Giunsero infine poco prima delle 22. Salendo lo guardarono, scendendo no. Anche i rapitori. Quelli non combattevano per la libertà, per lui erano assassini, fin dall’inizio assassini, aiutarli, no, lui aiutava gli ostaggi, aveva aiutato gli ostaggi, si diceva, si era detto ancora nella notte, ora sono tutti salvi, ed era andato a letto soddisfatto. Decise di andare subito al mattino all’agenzia di viaggi, al mattino però tutto era falso, e alla radio udì l’opposto, però adesso era qui. Stop, disse Matthias, io lì non ci vado volando, non voglio nessun aereo!, e non viaggio neppure con il bus. Rimane allora il treno, disse la signorina lievemente irritata, e chiuse il catalogo, un momento. Lui mise i biglietti da cento sul tavolo, la mano sopra, vedeva la chiavetta dell’accensione davanti sé. Il posto di guida dei bus militari era sorprendentemente comodo, udiva i loro passi, non gli era permesso alzare la testa, ma udiva perfettamente, udiva ancora, lo sapeva, tutto sarebbe rimasto così. Conosceva un collega che aveva investito una donna, non era più riuscito a liberarsi dell’immagine, lui, Matthias, non aveva investito nessuno, altri avevano, due ore dopo, colpito a morte gli uomini che aveva trasportato, 17 uomini, 14 colpiti, bruciati, esplosi. In che lingua avevano gridato, nessuna lingua nelle loro grida, mai salirà su un aereo, cortesemente sorride alla ragazza dell’agenzia, cortesemente lei ricambia il sorriso, l’intera Italia dipende dalla rete ferroviaria, disse, nessun problema, ma glielo sconsiglio. Viaggiare in treno in Italia è rischioso, incidenti di continuo, guasti di continuo, e: al mare più bello così non ci si arriva.

Prenotò un viaggio per Dubrovnik. La ragazza batteva a macchina con zelo, telefonava, era molto soddisfatta. Anche lui, finché rimaneva nell’agenzia di viaggi. Anche Dubrovnik sta sull’Adriatico, è la stessa cosa, ripeteva lei guardandolo con occhi raggianti. Ho la giornata libera, disse lui, viene a pranzo con me?

*

Più tardi era a Fürstenfeldbruck, da solo.

Il verde dell’Amper creava un contrasto con il primo nevischio dell’autunno sulle cime dei monti. Matthias premette il suo volto sulla rete metallica di recinzione. Non era l’unico, qui. C’era un odore di mele e pere mature, di erba. Almeno fino alla rete. Dietro la rete, in direzione della torre di controllo, c’era odore di fumo. Un odore più amaro, nelle mucose faceva male, pungeva il petto, serrava il respiro. Camminò lungo la rete verso la torre. Dopo un po’ di discussione, gli fu permesso di entrare. In fondo, il giorno prima aveva reso un servizio enorme. Erano venuti presto, Merk, Genscher e il capo dei rapitori, Issa, ma non si chiamava mica così, Issa era solo il suo nomm de gherr, avevano detto al telegiornale, sempre questa roba francese. E questo Issa, ragazzino giovane e gracile, esaminava, rapido e preciso, ogni punto critico, sapeva subito dove. Già stavano arrivando gli altri, spingevano davanti a loro gli ostaggi. Legati l’uno all’altro, barcollavano salendo gli scalini, furono ammassati sui sedili, il motore rimase acceso tutto il tempo, Matthias dovette tenere lo sguardo sul volante, uno con un mitra era in piedi accanto a lui, la canna la vedeva, l’uomo lo sentiva, così vicino. Vai, disse il capo, questo Matthias lo sapeva anche da solo. Erano appena passate le dieci. Aprire una porta, anche durante il viaggio. Erano già davanti agli elicotteri, tutto fu di nuovo controllato. Per minuti e minuti rimase seduto nel bus da solo con sei terroristi e nove ostaggi. Quell’odore lo riconosceva. Matthias non osava voltarsi, stava rannicchiato dietro al volante, a testa in avanti. Issa stava in piedi su uno degli elicotteri. In una mano una potente torcia elettrica – preparato, fin nel dettaglio – nell’altra una mitraglietta. Una piccola figura sul tetto dell’elicottero, tutti i contorni ben definiti, scuro, chiaro. Matthias aveva lo sguardo fisso sull’arma. Non riusciva a fare altro. Solo l’arma. Conosceva l’odore. Non era solo sangue, non solo sudore, c’era qualcosa di più. Come in una caccia? Non aveva un odore cattivo. Era paura, e in mezzo c’era un silenzio totale. Il motore era acceso. Eppure c’era silenzio lo stesso. Come se non sentisse più nulla, come se il silenzio degli ostaggi gli si fosse piantato nelle orecchie, come se l’avesse colpito qualcosa.

E adesso era qui, per vedere con i suoi stessi occhi il luogo in cui la cosa era andata avanti. Aveva bisogno di un po’ di sostegno, di un po’ di realtà. Altrimenti li avrebbe visti scendere dal bus per l’eternità, per l’eternità procedere avanti, a schiena china. Cinque nell’apparecchio con la targa D-HAQO. Quattro nel D-HAQU. Notava sempre le targhe, del tutto automaticamente. “D” come Deutschland, Germania. Nessuno degli ostaggi gli aveva rivolto lo sguardo, neppure uno. Matthias era seduto immobile, quando gli elicotteri si alzarono in volo. Le luci rosse e gialle nell’aria – gli pareva che mandassero segnali proprio a lui. Si piegò accanto al volante ed ebbe un conato di vomito. Sentiva male al cuore.

Ore dopo, mentre era a casa steso sul letto, vedeva ancora le luci dell’elicottero nel cielo notturno e rossastro, sentiva i rotori girare, sempre più lievemente, e la voce dell’ultimo di loro tornò, non c’era modo di mandarla via. Con un movimento appena percettibile l’ostaggio alzò la testa e disse grazie, in tedesco, danke, e Matthias poté sentirci dentro la speranza, fin sotto la pelle, fin dentro al suo letto.

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