Solo ora

Da questo circolo non si esce facendolo girare all’indietro. Il prestigio e il carisma della critica non ritorneranno. E bisogna avere il coraggio di affermare: per fortuna. Erano le vestigia di un mondo gerarchico. Solo assentendo a questo tramonto le tecniche dell’interpretazione potranno essere volte a un compito inedito e migliore, qualcosa che, come il «sogno di una cosa» di cui parlò una volta Marx, abbiamo sempre desiderato senza mai averlo davvero. Perché ciò accada bisogna fare un esercizio di quella che Foucault chiamava l’ontologia del presente: bisogna cogliere l’emergenza di una possibilità che, insieme, era da sempre lì, e, nello stesso tempo, solo ora emerge come effettivamente possibile. Più che fornire altre interpretazioni (indagando al tempo stesso le condizioni di possibilità dell’interpretazione), la critica e la teoria devono avventurarsi in un terreno già da sempre alla loro portata, ma mai esplicitamente rivendicato come proprio. Devono farsi, da interpretazione, esemplificazione, imparare a pensarsi, più che come pensiero e comunicazione, come un gesto, una performance, un evento, un processo costituente che si dà le regole nell’atto del suo stesso accadere. Devono farsi paradigma, modello, esempio di una politica delle verità (per parafrasare Badiou) che non è possibile addurre se non attraverso quell’esempio medesimo. Devono sostenere davanti a chi le ascolta: non conta tanto cosa dico e nemmeno il metodo con cui lo dico, ma piuttosto il fatto stesso che attraverso le mie tecniche io possa prendere efficacemente la parola Non: guardate cosa c’è in questo testo, ma piuttosto: guardate cosa è possibile fare leggendo, guardando e ascoltando questo testo. Un fare, dunque, che aspira al rango dell’agire: praxis, non poiesis, per riprendere una distinzione che struttura il lessico della polis antica. Un processo che ha il proprio fine in se stesso, e non nel fatto di mettere capo a un oggetto esterno a sé, come accade invece nella poiesis, nella produzione. Un atto radicalmente, costitutivamente politico, tanto più tale quanto più i risultati dell’attività critica e teorica diventano di giorno in giorno meno spendibili nel circuito della produzione. Un atto sovrano, e una promessa di felicità, perché soltanto ciò che non ha altro fine cui tendere oltre se stesso può generare qualcosa come una felicità terrena. Solo passando da enunciato a gesto, da simbolo a esempio, da discorso ad atto, la teoria e la critica possono ancora pretendere a un destino. Non a caso i filosofi antichi collocavano al cuore della polis il bios theoretikos.

[da Daniele Giglioli, Tre cerchi. Teoria e Critica, in “il verri”, 45, febbraio 2011, ora integralmente in Nazione Indiana]

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