Maria Teresa Costa, Filosofie della traduzione

 Maria Teresa Costa

Filosofie della traduzione

Milano-Udine, Mimesis 2012, 134 pp.

Dall’Introduzione: «“Voglio parlare della scoperta che l’io fa dell’altro. L’argomento è vastissimo. Non appena lo abbiamo formulato nei suoi termini generali, lo vediamo subito suddividersi in molteplici categorie e diramarsi in infinite direzioni”.[1] Con queste parole Tzvetan Todorov inizia il proprio libro sull’evento per antonomasia che ha portato l’Occidente a confrontarsi con il problema dell’alterità, La conquista dell’America. Scrivere sulla traduzione comporta lo stesso tipo di problemi. La materia scivola da tutte le parti nella sua sterminata estensione e conduce a misurarsi con il tema della relazione con la differenza.

Che altro vuol dire tradurre se non porre in relazione due entità diverse, o meglio creare la possibilità della relazione tra due lingue e dunque tra due culture? Quale sia la forma di tale relazione è la domanda a cui hanno tentato e tentano di rispondere traduttori e teorici della traduzione. Anche volendosi limitare alla “traduzione letteraria”, e cioè alla traduzione di testi letterari, artistici e filosofici, non è possibile fornire una risposta univoca, ma solo muoversi tra gli estremi di una tensione irrisolta tra equivalenza e complementarietà. Il traduttore, figura spesso in disparte, che passa in sordina nel baccano dell’autorialità, vive in un non-luogo, tra le culture, e dà la propria voce all’altro che ha di fronte. Nel fare questo egli si trova a confrontarsi in modo problematico sia con la propria lingua, avvertita insieme come accogliente, materna e troppo aderente al proprio corpo, sia con la lingua straniera, percepita spesso nella forma di una ricchezza eccedente. A partire da questo difficile equilibrio egli è chiamato a creare una nuova lingua, entro i margini indistinti tra memoria e oblio: egli ha davanti dei modelli, delle lingue codificate che già esistono, e deve prendere sulle proprie spalle il peso di tali tradizioni, rivivificarle, farle parlare nel qui e ora in cui si trova. Il passaggio non è soltanto da una lingua a un’altra, ma pure da un’epoca all’altra, anche nel caso in cui egli sia stato richiesto di tradurre un autore cosiddetto “contemporaneo”. Tra passato e futuro egli deve fare traghettare la lingua straniera al di là del fiume, fino ad approdare nelle rive della propria lingua, da cui il paesaggio appare per così dire rovesciato. Le due lingue si rispecchiano sulle stesse acque condivise, ma la luce è diversa, e così i riflessi proiettati sull’acqua.[2]

Fin da subito risulta evidente quanto il discorso sia imbevuto di pluralità, come se a parlare fosse sì l’autore, ma con la voce del suo traduttore. Il gesto traduttivo si crea con un atto di dislocazione spaziale e temporale. Le lingue non si danno infatti come enti statici dai confini definiti, ma sono in continua evoluzione ed entrano spesso in collisione tra loro, determinando dei mutamenti nel modo di pensare degli uomini. Nella dialettica tra tradizione e innovazione, la storia del pensiero, e dunque della filosofia, si costruisce come una storia di traduzioni e di errori di traduzione. Ciò vale sia se si considera la questione da un punto di vista diacronico, sia se la si osserva sincronicamente. Riflettere sulla traduzione diventa in questo senso per la filosofia porsi la domanda sulla propria essenza e sul proprio destino, nel legame imprescindibile con la lingua.

Osservata dalla prospettiva della filosofia, la traduzione diventa essenziale per riflettere su temi quali linguaggio, storia e tradizione. Non si tratta evidentemente di questioni marginali per la filosofia, che, seguendo la suggestione heideggeriana, può essere guardata retrospettivamente come una meditazione su alcune parole fondamentali (Grundwörter) che non fanno che ripetersi con diverse modulazioni. La traduzione è ciò che ha contemporaneamente permesso e causato tali modulazioni.

 Anche dal punto di vista della traduzione esiste tra i due ambiti un’affinità elettiva, una “prossimità di essenza”. L’accostamento alla filosofia rivela la condivisione di un legame originario con la lingua, non tanto con le molteplici lingue naturali, ma con la “lingua della verità”.[3] Questo non significa che entrambe procedono a ritroso attraverso una mera ricostruzione etimologica, alla ricerca di alcune parole fondamentali e inaugurali, ma che tale nucleo originario di verità (ethymon) è contenuto in una forma abbreviata e diminuita anche nelle lingue storiche. La traduzione fa intravvedere al filosofo che tale lingua della verità non può essere rivelata, ma solo evocata in absentia e annunciata in forma potenziale. Ciò è possibile, poiché essa si muove tra due temporalità: rispetto al testo originale la traduzione arriva sempre troppo tardi, ma mostra al contempo che vi è tra le lingue una parentela che travalica la storia e che nel presente può essere solo allusa.[4]

Traduzione e filosofia condividono inoltre una forma di esistenza al plurale: non esiste un’unica filosofia, né un’unica traduzione, ma solo molte differenti filosofie e traduzioni. Ciò le conduce ad assumere per la loro stessa essenza la forma della relazione e a valicare i confini disciplinari, osservando gli altri settori dallo spazio tra di essi.

Date queste premesse, “filosofie della traduzione” è da leggersi come locuzione dotata sia di un genitivo oggettivo, sia di un genitivo soggettivo, poiché a legare filosofia e traduzione è un nesso tutt’altro che superficiale e casuale. Le pagine seguenti non vogliono rendere conto di tutte le filosofie che hanno parlato di traduzione, né tanto meno ricostruire una sorta di “storia della filosofia della traduzione”, ma, a partire dal legame intimo ed essenziale tra filosofia e traduzione, vogliono farsi illuminare dalla loro struttura relazionale e costruire una mappatura – necessariamente prospettica e incompleta – di termini che possano servire da orientamento a chi voglia intenderle come modi di affrontare la relazione problematica che lega l’io all’altro.»

 


[1] T. Todorov, La conquête de l’Amerique. La question de l’autre, Éditions du Seuil, Paris 1982 (trad. it. La conquista dell’America. Il problema dell’ “altro”, trad. di A. Serafini, Einaudi, Torino 1992, p. 5).

[2] Cfr. G.-A. Goldschmidt, Quand Freud voit la mer. Freud et la langue allemande I, Buchet/Chastel, Paris 1988, p. 14.

[3] W. Benjamin, Die Aufgabe des Übersetzers, in Id., Gesammelte Schriften IV, a cura di T. Rexroth, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1972 (trad. it. Il compito del traduttore, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, a cura di R. Solmi, con un saggio di F. Desideri, Einaudi, Torino 1999).

[4] Cfr. A. Berman, L’Âge de la traduction. «La tâche du traducteur» de Walter Benjamin un commentaire, Presses Universitaires de Vincennes, Paris 2008.

 

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