Heinrich Mann, Il suddito

Immagine via: thefielder.net 

[Nel 2009, dopo oltre mezzo secolo dalla prima edizione italiana (Einaudi, 1955, nella traduzione di Clara Bovero), la casa editrice UTET ha ripubblicato Il suddito (Der Untertan, 1914) di Heinrich Mann (con ricca introduzione di Luigi Forte e revisione della traduzione originaria a cura di Fabrizio Cicoria). Alla irresistibile ascesa di Diederich Hessling Lea Ritter Santini ha dedicato un denso saggio, confluito nel Romanzo tedesco del Novecento, che volentieri ripropongo anche guardando all’attualità. Mann, come segnala la data di pubblicazione, diede un contributo, prezioso ed essenziale, all’identificazione, nel Secondo Reich, delle radici profonde del Terzo, e seppe fotografare con acume e lungimiranza un tipo umano che si riprensenterà nella storia successiva con una nuova divisa ma che già, per così dire, era in incubazione: il gregario, pronto a delegare la soluzione di un problema a un potere autoritario, ad autoassolversi, e a considerare il diritto subordinato alla forza e all’ambizione. C.M.]

Lea Ritter Santini

La rivista bavarese che tra la fine del secolo e i primi decenni del Novecento traduceva in disegni pungenti, in caricature bonarie e in identificabili travestimenti letterari l’aggressiva scontentezza di artisti e intellettuali per il prussianesimo guglielmino, il Simplizissimus, diventato ormai un organo di opposizione politica e sociale, pubblicava nel 1912 alcune puntate di un romanzo dal titolo Il suddito (Der Untertan). Il suo autore, Heinrich Mann, ebbe dalla censura accoglienza più tranquilla di quella riservata, per pagine della stessa rivista, a Frank Wedekind o a Ludwig Thoma, costretti a trascorrere spesso vacanze forzate nel carcere di Stadelheim. I patriottici cittadini si accesero di sdegno alla lettura di alcune parti dedicate ai «Nuovi Teutoni», la corporazione studentesca che insegna al suddito a trovare una sua felicità morbida e condiscendente nella nebbia della birra e degli inni all’onore, alla fedeltà e alla patria, ma l’indignazione borghese non ebbe conseguenze giuridiche. La redazione di un’altra rivista di Monaco a tendenza nazional-liberale, la Zeit im Bild che dal gennaio 1914 aveva ripreso la stampa del romanzo, comunicava a Heinrich Mann, alla fine dello stesso anno, che la difficile situazione del momento non consentiva a un organo pubblico la ulteriore pubblicazione di un’opera che, in forma satirica, criticava lo stato del paese e della sua autorità, «a prescindere dalle difficoltà sicure che deriverebbero dalle più lievi allusioni alla persona del Kaiser».

Perché questo suddito fedele, riflesso di un potere emblematico, esiste, diventa importante, impara a comandare, a sottomettersi al sistema e ad usarlo in funzione del suo signore, del suo modello. Il suo Signore è – nel romanzo come nella realtà che ha fornito non solo figure e avvenimenti, aneddoti e analogie, ma anche il preciso e provato strumentario retorico dei discorsi e delle parole-guida – quel Guglielmo II imperatore di Germania per volontà divina che ancora nel 1940, dopo la capitolazione di Parigi, telegrafò a Hitler congratulandosi con le parole dell’avo Guglielmo il Grande: «Quale svolta del destino per volere di Dio! Nel cuore di ogni tedesco risuona il corale di Leuthen che i vincitori intonanarono per il loro grande re: Nun danket alle Gott».

Nel 1914 i suoi sudditi ringraziavano ancora Dio, non avevano ancora imparato a diffidare del potere del Kaiser e l’assolutismo, come l’invidia e l’odio per le forme liberali della vita politica corrispondevano ai loro bisogni: «Guglielmo II aveva espresso, ogni volta, senza inibizioni e riserve, quello che c’era in fondo a ogni coscienza». Alla vigilia della prima guerra mondiale i processi per lesa maestà compromettevano con la loro frequenza la ristretta libertà dell’opinione pubblica e della stampa e riducevano quel povero e dubbio margine di tolleranza ancora concesso al liberalismo ormai soffocato dall’isteria nazionale.

Il suddito esemplare di quegli anni, l’unità moltiplicabile che avrebbe formato un Herrenvolk di gregari, era rappresentato da un tipo nuovo venuto a dominare la scena: «né borghese né Junker, ma tutti e due assieme, un essere con gli speroni e con un cervello di numeri, un paradosso ambulante, abile nel non ritirarsi né cedere di fronte a quanto le deformate e stravolte idee imposte potessero inventare». Proiezione ridotta e obbediente del suo sovrano, si esercita a sobillare i concittadini e a provocare in pubblico – il suo pubblico ristretto e provinciale distribuito in una topografia minima di ceto medio – le reazioni politiche non concordi o contrarie al governo dei suoi oppositori e concorrenti pericolosi perché gli sia così possibile eliminarli dalla competizione e liquidarli sotto l’accusa di idee non nazionali o kaisertreu.

Questo suddito pubblico e intercambiabile in ogni gruppo, che nella natura fanatica e subalterna racchiude l’enigma della collettività, che venera ottusamente i dati di fatto: «Essere obbiettivi significa essere tedeschi», e che «considera leggi vitali la sottomissione, la brutalità e la durezza» anticipa il cranio rotondo e malevolo ripieno di onorificenze e di bandiere delle colonne della società disegnate da George Grosz e offre, con la sua parabola, la più efficace possibilità di verifica di un comportamento che vent’anni dopo veniva considerato una paurosa e unica degenerazione della storia. «Ogni volta che i tedeschi perdono una guerra, ristampano il mio Suddito» riconosceva Heinrich Mann, seguendo le vicende, non solo del suo romanzo, ma di quella intermittente abitudine dei suoi connazionali ad analizzare e analizzarsi a catastrofe avvenuta, ma a ignorare e rifiutare ogni presa di coscienza, quando il disastro si annuncia o si prepara. […]

L’ascesa di Diederich Hessling avviene per episodi che in tutta la loro concatenata casualità – quindi sostituibilità all’interno della costellazione dei fatti e dei loro personaggi – assumono la tarda saggezza dell’apologo a cui solo la storia della Germania può aggiungere la morale. Il giovane piccolo fabbricante, tronfio del nazionalismo da corporazione, accusa di lesa maestà il liberale industriale Lauer, già colpevole di far partecipare i suoi operai ai profitti della fabbrica («Chi è capace di questo, è capace di tutto») perché, ad una delle sedute serali ai tavoli della birra, questi ha osato affermare che anche le case regnanti sono «ebreizzate». La Verjudung non è compatibile con l’alto rispetto dovuto alla somma autorità, porta in tribunale i notabili e i loro affari privati e offre così l’occasione all’ancora non affermato Hessling, di sfogare le sue qualità oratorie in nome del disinteressato idealismo, previlegio dei tedeschi, chiamati, nel segno del loro monarca, ad eliminare le orde di coloro che vogliono sovvertire l’ordine, di quei nemici all’interno, dei «senza patria» che non meritano il nome di tedeschi. «Noi siamo seri, fedeli e veri. Essere tedeschi significa fare una cosa per se stessa». La piccola aula del tribunale di provincia diventa la carta millimetrata della vita politica, la pista su cui si compone il difficile e imprevedibile rischioso gioco la cui posta è il potere a cui «si baciano gli zoccoli mentre si scavalca. Che passa sopra la fame, l’ostinazione e le beffe. Contro cui non possiamo nulla perché tutti noi l’amiamo, l’abbiamo nel sangue perché nel sangue abbiamo la sottomissione».

La scalata del suddito non è l’opera di un solitario volonteroso e tenace senza scrupoli: l’influenzabilità e l’affinità con la massa, il gruppo che lo ascolta e lo vede – giurati o platea – pronta a trasformare in sorriso ammiccante e ossequio la smorfia di disprezzo, il fischio in approvazione, il primo costernato disagio in rumoroso entusiasmo, sono la provocazione necessaria, il suo sostegno e la sua certezza, perché egli ne è l’esponente e il mandatario che riscuote anche per chi gli ha riservato la propria disponibilità: «Lo avevano visto tutti; un uomo mediocre con una intelligenza comune che dipende dall’ambiente e dalle occasioni, privo di coraggio finché le cose gli vanno male, sicuro arrogante e pieno di sé appena cominciano a cambiare… Come lui ce ne sono stati migliaia in ogni epoca, gente che faceva i propri affari e aveva una opinione politica».

Annebbiato da una romantica ipocrisia, in prostrazione davanti ad un Signore che deve prestare al suo suddito il potere necessario per reprimere i più piccoli e i più deboli, Diederich Hessling non rappresenta solo un tipo o un modello che serviva, in un preciso contesto storico, alla polemica o alla satira; la sua presenza nella letteratura tedesca – lo aveva già riconosciuto Lukács – resta isolata e unica, proprio per quel suo pericoloso disegno, così malignamente divertente anche per il lettore illuso sul proprio germanesimo liberale, che riconosceva forse qualcosa della fattura e della tradizione a cui però sfuggivano i segni allusivi, lo schema delle valenze di base di cui era formato, di quelle che si trasformano e di quelle che esplodono, portatrici del carattere e degli ideali della società tedesca. La presenza di questi segnali, di cui avvertiva il pericolo, una volta scoperti e intepretati nella loro carica di ridicola parodia, di ironica demistificazione, l’aveva avvertita proprio Adolf Bartels, il critico del germanesimo ortodosso che educava il predisposto pubblico tra le due guerre al gusto della letteratura «Blut und Boden» che concludeva nella Koservative Monatschrift la sua recensione del Suddito. «Un Pendant a Germania, fiaba invernale (Deutschland, ein Wintermärchen) di Heinrich Heine, ma ancora più insopportabile, perché non si tratta qui di una forma di derisione soggettiva, ma si vuol fingere una rappresentazione oggettiva. Come ho già detto, in futuro dovremo prendere sul serio Heinrich Mann, ma solo come prendiamo sul serio il nemico pericoloso, che ci può attaccare ogni momento, e il toglierlo di mezzo non ci darà rimorisi di coscienza».

I motivi che avrebbero reso legittimo e lodevole l’annientamento del nemico pericoloso avevano già, decenni prima che venissero bruciati i libri sulle piazze di Berlino, l’attendibile convinzione che deriva dall’apparente sdegnata competenza quando il critico fa sostenere il dichiarato impegno civile e politico anche da una grossolana analisi tecnica: «La sua maniera di rappresentare la vita e le cose non la si può rifiutare con asprezza sufficiente, dal punto di vista del Volkstum tedesco, perché nel momento forse più difficile della storia tedesca ha compiuto, con la sua opera, contro il nostro popolo un attentato messo in scena con tanta raffinata bravura che non gli si potrà mai perdonare. Che non sia uno dei nostri, uno di noi tedeschi, lo si sa: suo fratello Thomas ha scritto una volta quando, erroneamente, lo considerai un ebreo: “Quello che nella mia produzione e in quella di mio fratello Heinrich può sembrare esotico al critico professor Bartels sarà dovuto alla mescolanza di sangue latino che in realtà abbiamo”». Un fattore, questo, che autorizza il buon filologo a concludere: «Quale tipo di sangue abbia il sopravvento in Heinrich Mann, non oso deciderlo, ma poiché secondo la legge di Mendel il tipo puro di una razza può riapparire anche negli incroci, ho la precisa convinzione che in questo caso non si tratti di quello della razza germanica».

Il suddito esprime anche questa «superiorità biologica», in una annotazione psicologica che vuol chiarire il carattere di Diederich Hessling e cristallizza già il presagio della più avventurosa qualità dell’Herrenmensch: il coltivato ribrezzo per una razza fisicamente diversa. Nel romanzo è provocato dal tipo del capo-macchinista, la cui appartenenza al partito della socialdemocrazia serve soltanto da schermo: «”È uno sfacciato! Bisogna mandarlo via!” Un odio animale saliva in Diederich, l’odio della sua carne bionda contro il magro e bruno, l’uomo di un’altra razza, che volentieri avrebbe considerato inferiore e gli sembrava sinistro e sospetto». Eppure la viltà è attributo indispensabile ad una ascesa sociale che conquisti lentamente il potere con l’approvazione pubblica: Heinrich Mann ne racconta le fasi, anche quelle che il censore Bartels non sapeva registrare.

Al piccolo Diederich, descritto negli anni dell’infanzia in una goffaggine spessa e sorniona, in una timorosa e ipocrita obbedienza che ricorda il primo giorno di scuola di Charles Bovary, manca la tranquillizzante dimensione della buona fede che Flaubert aveva pur concesso al suo futuro borghese tradito; il cittadino Hessling, che pure conserva alcune virtù comuni a M. Bovary, ma anche, in una malevola deformazione, a César Birotteau, aggiunge quella nuova germanica Wille zur Macht del vendicativo filisteo tedesco che modifica in ferocia sociale, in crudeltà organizzata il modello del piccolo borghese politicamente inesperto e innocuo. Hessling non conosce la rivolta morale del borghese balzachiano: «Le bourgeois essentialment ami de l’ordre, et toujours en révolte morale avec le pouvoir auquel néammoins il obéit toujours, créature faible en masse et féroce en détail insesible comme un huissier quand s’agit de sono droit»; ne ha capovolto i termini trasformandolo in culto adorante la diffidenza per le istituzioni, in ebbrezza di identificazione la debolezza nella massa. «Un nuovo tipo che nella durezza e nella repressione non vede il triste passaggio necessario per giungere a condizioni più umane, ma il senso stesso della vita. Debole e pacifico per natura si esercita ad apparire ferreo perché nella sua immaginazione lo era Bismarck…».

Questo nuovo tipo di suddito deriva dai grassi Kommerzienräte, dagli impettiti farisei del nazionalismo, «rigidi quasi avessero inghiottito il bastone che li ha picchiati da ragazzi», ubbidienti al raffinato malgusto, docili al germanesimo coraggioso, che popolano la Germania di Heinrich Heine, ma è anche la trasformazione virulenta dei prussiani senza dubbi che Theodor Fontane contrapponeva nei suoi romanzi agli insicuri ufficiali dell’aristocrazia. La soggettiva reazione di un personaggio, pur esemplare che sia, alla storia diventa spiegazione della storia attraverso le azioni di un personaggio che sono l’anonimo interruttore del cui funzionamento dipende l’immissione di corrente. Heinrich Mann non si serve di Diederich Hessling per un esercizio letterario di esperimento psicologico, lo deforma nella satira che irritò i contemporanei per avvertire il lettore, per metterlo in allarme contro quelle tendenze così note, così comprensibili e comuni da essere considerate le desiderabili caratteristiche del suddito perfetto visto nello specchio del suo signore e dei di lui servi.

Nel grigio organismo di una scuola della piccola città Diederich trova un appagamento che lo rende felice. «Appartenere a un tutto impersonale, a quest’organismo implacabile, ad un meccanismo che disprezza la qualità umana, il ginnasio, lo rendeva felice perché il potere, il freddo potere a cui lui, anche se soffrendo, partecipava, era il suo orgoglio. Al compleanno del professore si incoronavano di fiori la cattedra e la lavagna. Diederich incoronava addirittura la bacchetta». L’aver costretto ad inginocchiarsi davanti ad una croce da lui costruita sulla cattedra con gli strumenti da disegno, l’unico ebreo della classe, lo rende ebbro di vittoria. Non c’è forse immagine in tutto il romanzo, che fissi quella inconfondibile gustata allure del gregario tedesco con tale crudezza; non nell’antisemitismo primitivo e non solo nella chiara componente sado-masochistica, l’omaggio devoto allo strumento di punizione, ma più in quell’associazione tutta germanica di illeggiadrimento e di perversione, di brutalità e di idillio esterno, di crudeltà e di finto gioco, che richiama non la facile immagine-réclame del fiore nella canna del fucile o infilato nella baionetta, ma i terribili fiori disumani della baracca di guardia nel campo di concentramento, che adornano un altro testo-accusa della letteratura tedesca moderna: Il Vicario (Der Stellvertreter) di Rolf Hochhuth.

L’immagine è coerente con quella distorsione di simboli che non è il risultato della compiacente adattabilità a forme nuove, ma vuole indicare il registro di comportamento del gregario prepotente e ipocrita, pronto a schiacciare chi sta più in basso di lui per abbassare la testa a sua volta sotto i colpi di chi sta più in alto ed esercita su di lui quel potere che egli scarica verso i meno forti. È il suddito modello che non ha vita individuale se non nella misura in cui si inserisce in un gruppo, in una associazione, in una società, in un club, in una fabbrica, in un partito politico: la sua figura traduce, nelle caratteristiche psicologiche e fisiche – molle nei tratti che perdono contorno e dimensioni nella livellante pinguetudine della birra – quelle latenti qualità distruttive che al contatto di favorevoli condizioni ambientali, sociali e politiche, in parte o del tutto da esse stesse determinate, producono la caduta e la rovina non solo di una società o di una nazione.

Se si vuol concedere alla letteratura quella forza di anticipazione sulle cose a venire che può derivarle solo dalla chiarezza dell’analisi del presente, quella preveggenza che costituisce forse la più importante delle sue costanti, non si può negare a questo romanzo di Heinrich Mann la sua forma di potere, quello di una profezia temuta che, nata dalla cronaca impietosa e acutissima della società guglielmina, avrebbe consentito di scoprire nell’ascesa dell’ideologia nazionalista, le radici e la forza di quella futura in cui il gregario di carriera, il subalterno invasato delle istituzioni e della sua missione di rappresentarle, il suddito del Kaiser, sarebbe diventato il diligente realizzatore, l’ispettore zelante e implacabile al servizio dell’ortodossia nazista. Un potere che è di accusa al modello, al contenitore non modificabile di fronte ai nuovi contenuti che ne assumono fatalmente la forma.

Solo questo tessuto di analogie e di avvertiti confronti, di cronache e presentimenti non ancora svaniti o fugati, ma sempre riusabili appena a disposizione della contemporaneità, allineati come tante vedute di cartoline infilate sotto quella risentita e frettolosa critica che non fa onore a Thomas Mann quando, dalle ultime pagine delle Considerazioni di un impolitico, si riferisce al romanzo Il sudddito: «Il pericolo diventa acuto quando la satira si abbassa al fatto politico, alla critica della società, insomma quando viene alla ribalta il romanzo sociale in chiave satirico-espressionista; a questo punto la satira diviene un pericolo politico ed internazionale. Infatti un impressionismo volto alla critica sociale ma senza impressioni, senza responsabilità né coscienza, che descrivesse imprenditori che non esistono e lavoratori che non esistono, “condizioni” sociali che al massimo sussistevano nell’Inghilterra del 1850, e che con simili ingredienti cucinasse le sue criminose istorie sobillatrici e piene di amore, una simile satira sociale sarebbe cosa insensata, e se anche meritasse una definizione un poco più distinta, più distinta di quella di calunnia internazionale, di menomazione dell’onore nazionale, si chiamerebbe estetismo spregiudicato». Che sarebbe quasi una variante dell’attentato alla nazione per cui dava l’allarme Adolf Bartels.

L’impaziente e arrogante fratello di quegli anni rimproverava all’autore del Suddito una boria che non ha dietro di sè una formazione o almeno ne ha una non tedesca e una «presunzione di dar lezione alla vita tedesca con uno spirito straniero e ostile». Forse la più ingiusta, più tardi corretta, condanna a chi invece aveva già dichiarato in un saggio su Flaubert, pubblicato nel 1905: «Buona satira non l’ha scritta mai nessuno che non si sentisse di appartenere in qualche modo a quanto offriva al ridicolo: un apostata o un escluso. Nelle satire si trova invidia o nausea ma sempre una perfida sensazione di comunità. A un estraneo non riesce». Heinrich Mann non era né un estraneo né un escluso dalla società che aveva scelto di rappresentare in Diederich Hessling e nella sua scalata al potere, l’ascesa cui si potrebbe premettere lo stesso aggettivo «resistibile» che più tardi Bert Brecht usò per l’altro grande personaggio campione della miseria tedesca: Arturo Ui.

Chi permette ad Arturo Ui di arrivare a comandare e a distruggere sono le stesse forze esitanti e influenzabili, conquistate da una retorica teatrale e grossolana, che facilitano, nei momenti critici e apparentemente sfavorevoli, il successo al nuovo giovane proprietario della cartiera Hessling. La immutabile società dei sudditi metafisici che si compone di impiegati, ufficiali, industriali, quella stessa che, una volta seduta sul banco degli imputati di Norimberga, Bert Brecht avrebbe riconosciuto come la società descritta e fissata nei grandi romanzi politici di Heinrich Mann. Brecht considerava Il suddito il primo grande romanzo satirico politico della letteratura tedesca; il filo del consenso ideologico accompagnato dall’ammirazione crea rapporti che ripetute analogie liberano dalla riserva dovuta all’azzardo letterario o alla affinità casuale e non provata di motivi o di fatti.

«Chiamerò il Kaiser un grande attore… Proprio per questo non dovrebbe essere permesso a qualsiasi mediocre contemporaneo di scimmiottarlo». La pubblica difesa del liberale industriale accusato di lesa maestà dall’imprenditore Hessling, affidata a Wolfgang Buck, un amico d’infanzia, figlio del «grande uomo del ’48», simbolo di un tempo e di convinzioni destinate a essere annientate, avvicina nell’ironico collage di detti imperiali, di luoghi comuni e di immagini sceniche, le due forze che agiscono sulla suggestione popolare: l’emblematico potere e l’abilità della sua messa in scena.  «Lei non sa quale tipo la storia chiamerà rappresentativo di questo tempo?» «Il Kaiser», disse Diederich. «No – l’attore», disse Buck. Il nuovo segno da cui è caratterizzata l’apparizione del tipo politico del suddito guglielmino è il gesto fanfarone, l’aria di sfida battagliera, la millanteria ostinata di una personalità che vuole esistere per un pubblico e sa di doverlo conquistare ad ogni costo, anche se a pagare sono poi gli altri: «La vita pubblica ne ricava una vernice di cattiva commedia e di cattivo mestiere. Le idee politiche si mettono in costume teatrale».

La realtà copia della scena, così come Diederich Hessling si identifica con Lohengrin e durante la rappresentazione dell’opera si augura di poter avere una musica simile come accompagnamento al suo discorso in Comune sui problemi della canalizzazione. Perché la musica è arte tedesca e alla stessa maniera in cui i sudditi di Telramund diventano i docili insignificanti vassalli di Lohengrin, così bisogna arrivare e agire al Reichstag. L’abilità scenica richiesta all’eroe come alla comparsa, al capo come al suo fedele gregario, la facoltà di recitare la commedia con buono o cattivo mestiere per arrivare al successo cui mirano, è la stessa preoccupazione che Brecht presenta come tappa essenziale dell’ascesa del suo Arturo Ui. È un guitto specialista di tirate shakespeariane che insegna ad Arturo Ui a recitare e a muoversi davanti allo specchio, per imparare a convincere la sua futura platea di seguaci: «Non importa quello che pensino il professore o qualcuno dei superintelligenti, importa come il pover’uomo s’immagina il suo signore. E basta». Che il pover’uomo sia a Berlino, a Netzig o a Mahagonny. Netzig, la piccola città creata da Heinrich Mann per proiettare sulla sua topografia essenziale la fine del liberalismo, il processo di lesa maestà, l’ascesa del suddito appartiene alla stessa carta geografica in cui si trova Mahagonny, la città inventata da Brecht per la sua parabola dell’impossibile avventura di una convivenza umana regolata da principi sociali di utopia.

Mahagonny è definita da Brecht Netzestadt, come un Netz, una rete e l’associazione con la Netzig, la rete piccolo borghese che serve ad invischiare le quotidiane ambizioni dei personaggi di Mann non può restare linguisticamente significante. Come l’uso del proverbio «Wie man sich bettet so liegt man» che Diederich Hessling ripete per il suo avversario sociale e politico quando lo vede finalmente in prigione e che si ritrova, con un seguito conforme alla tecnica e alla morale del suddito, nella ribellione del refrain di Jenny, a Mahagonny:

Wie man sich bettet so liegt man
Es deckt einen keiner dazu
Und wenn einer tritt dann bin ich es
Und wir einer getreten dann bist Du.

La conquista del potere avviene per gradi, attraverso la diligente applicazione dei principi conformi alle strutture della società borghese; la cronaca delle sue tappe è insieme quella della verifica dei mezzi e delle idee di cui si sono serviti i vincitori e i vinti, della dialettica delle loro forze e della loro efficacia. L’anima pubblica scopre la sua venalità e la sua disponibilità psicologica e morale che non può venir modificata dal cambio di persone, se le persone rivestono lo stesso ruolo e rappresentano le funzioni esterne di categorie che variano solo le loro definizioni. Heinrich Mann mette a disposizione del suddito tutta la raccolta dei topoi del prestigio e dell’abilità borghese: la calunnia accorta e camuffata di riguardo, lo sdegno fariseo contro i frivoli costumi, l’ostentata buonafede all’inganno già ordito, la disciplina nello sforzo di apparire rappresentanti di una classe superiore. «Formen sind kein leerer Wahn» usava ripetere il Leibbursche nela corporazione di Diederich.

Il conformismo del signor direttore di fabbrica è esercitato nei pericolosi compromessi che sa poi volgere a suo vantaggio sfruttando la labile coscienza, l’attaccabile insicurezza, la debolezza sociale, la servilità di chi gli sta accanto: che siano i membri dell’Unione Ufficiali, i suoi operai o la bionda o rosea, grassoccia Guste Daimchen «pulita come un maialino», giovane che Diederich decide di sposare non solo per la rotonda abbondanza di forme, ma per l’esuberante fortuna economica di non trascurata nipote di un ricco zio. Anche se il fine del matrimonio è quello di offrire al Kaiser dei buoni e forti soldati: «I doveri matrimoniali devono cessare immediatamente appena il Kaiser chiama alle armi». Per lo meno un alibi marziale all’investimento di energia sulla scena non pubblica. […]

Anche a Nezig si spara, se la situazione lo richiede. Dipende dal grado di necessità, e questo può essere rappresentato anche dallo stato di irritazione di una sentinella di provincia. Heinrich Mann si serve della messa in scena dell’episodio, di un inserto storico che il lettore contemporaneo o più tardi quello avvertito possono collegare alla maniera della dimostrazione della «grazia imperiale» di Guglielmo II. Un giovane operaio licenziato dalla fabbrica di Hessling perché il severo direttore l’aveva scoperto ad amoreggiare con una ragazza dietro i sacchi di stracci («Qui non ci sono fidanzate, ci sono solo lavoratori. Voglio la disciplina e la moralità tedesca») è colpito dal fucile di un soldato di guardia al palazzo del rappresentante del governo, che si ritira in fondo alla sua garitta quando si accorge di averlo ucciso. Forse gli era apparso troppo ardito o petulante, o gli aveva rivolto la parola.

L’episodio di disciplina, un’ammirevole correzione agli impudenti ribelli, entusiasma il diettore Hessling, presente sulla piazza: «Il popolo deve sentirlo il potere. La sensazione del potere imperiale non è pagata troppo cara con una vita umana… Per me, quello che è accaduto ha qualcosa di grandioso, per così dire di “maestoso”. Che a qualcuno che si comporta da insolente si possa sparare così, in mezzo alla strada, senza fargli il processo! Pensate: proprio in mezzo alla nostra ottusità borghese capita qualcosa di così eroico! Si vede in fondo che cos’è il potere!».

Nella realtà storica come in quella di Netzig giunge poi da Berlino all’ammirevole fedele sentinella, la promozione a caporale e un telegramma imperiale di lode per il coraggio dimostrato sul campo dell’onore. Diederich Hessling s’identifica misticamente a tal punto col potere da dettare il telegramma al sorpreso impiegato postale, prima che il Kaiser «confermi» nello stile e nel tenore l’eco già percipita dal suddito prima che fosse pronunciata la parola del suo signore. Perché i riconoscimenti dell’alto sono il sospirato Ersatz, ma anche le premesse di beni più reali, in un commercio di servizi e di richieste, di ricatti e di contropartite che l’avarizia prussiana aveva solo grottescamente deformato in titoli e onorificenze a sostegno della sua corte. La decorazione, l’ordine di terza o di prima classe, che pende sullo sparato dell’industriale, premia lavoro e simbolica dedizione: la fornitura di carta ai giornali nazionalisti ma anche la stampa dei più significativi detti del Kaiser su rotoli di altra carta più morbida, perché arrivino in maniera più diretta ai lettori, l’erezione di un monumento a Guglielmo il Grande che trasforma il denaro di un beneffatore cittadino in opera assai più grande ed immortale del previsto orfanotrofio desiderato dai liberali.

In realtà la coccarda bagnata dal furioso temporale apocalittico che rovescia le tribune inaugurali e spegne in acqua grigia e sporca il panno colorato delle uniformi è già reliquia della lotta: il presidente Wulchow ne è debitore al compiacente direttore Hessling per aver questi venduto, secondo precise e a lui favorevoli direttive, la cartiera paterna al centro della città, una posizione così strategica per il patrimonio e la speculazione edilizia di un amico del presidente. Gli oggetti di scambio variano di importanza, il loro valore è sostituito dalla loro fruibilità ideologica e quindi dalla loro convertibilità in potere economico o in autorità politica. Il monumento del Kaiser, dal piedistallo adorno di aquile mostruose, porta a Hessling una nuova e più grande cartiera; il nubifragio su Netzig che mette in fuga, nell’ora dello scoprimento, i rappresentanti del governo e le dame ambiziose, i dragoni e gli ussari, i generali, gli ulani, i corazzieri e i borghesi con la perenne cattiva coscienza di coloro a cui è negato il vero, unico onore, l’uniforme luccicante, il gran teatro prussiano alla ricerca di un riparo dai tuoni, si legge come un’allegoria in cui il suddito perde gli ultimi attributi di umanità per diventare simbolo della sua degenerazione.

Ma le sue reazioni umane-sentimentali erano state sempre condizionate da quell’istinto di identificazione con il suo Kaiser e i suoi mandatari da fargli provare sensazioni di attaccamento o di devozione solo per cose o per persone che considerava emanazione del sistema, «molecole spuntate» dal potere di cui lui stesso si sentiva rappresentante chiamato. L’impettito e marziale tenente von Brietzen corteggia secondo lo stile dei thè di provincia e delle cavalcate a due, Emmi, sorella non conformista di Diederich; quando, con militare disinvoltura, l’ufficialetto si fa trasferire per non complicare con incomodi legami la sua comoda distrazione in ambiente non nobile, il fratello debitore all’onore familiare di un intervento deciso si reca da lui per spiegazioni. Si sente rispondere con la stessa frase che in una simile occasione, per difendersi dalle proteste del padre della sua innamorata e anemica amica degli anni berlinesi, anche lui aveva usato con esterna soddisfazione: «Non si dà ai propri figli una madre che ha perduto l’onore».

Una risposta suggerita da un potere ideologico che usa le categorie messe a sua disposizione da un codice che garantisce la solidarietà del gruppo, ma non protegge a sua volta dalla loro applicazione, se si trova dall’altra parte: la dialettica del suddito accetta di farsi calpestare per poter a sua volta calpestare gli altri come gli piace. Di fronte a questa legge Diederich cede il suo iniziale interesse di fratello alla integrata ammirazione del tedesco fiero del suo esercito e del suddito orgoglioso della sua moralità nazionale: «Il tenente prussiano non c’è nessuno al mondo che ce lo riesca a imitare». Il suo bisogno di sentirsi parte di un ordine superbo che impone la sua forza togliendo la libertà personale, ma garantendo la violenza sugli altri, corrisponde all’incapacità di pensarsi al di fuori di un apparato che diventa più importante della vita, quella propria e quella degli altri, escluso dall’ideale di obbedienza e di disciplina che faceva della Germania di Guglielmo II, di tutto il paese, secondo la definizione di Tuscholsky: «un unico cortile da caserma».

E il lettore italiano si sente autorizzato, con un’associazione che non vorrebbere essere colta ma solo istruttiva, a riconsiderare non episodici e lontani aspetti della storia, quelle «prussianerie» che aveva in orrore Vittorio Alfieri al quale, entrando a Berlino, gli stati del gran Federico «parvero la continuazione di un solo corpo di guardia» e che uscendo «da quella universal caserma prussiana» ringraziava il cielo di non averlo fatto nascere suddito di quel re. Forse non conosceva il corale di Leuthen.

Lea Ritter Santini

Tratto da: Il romanzo tedesco del Novecento. Dai Buddenbrook alle nuove forme sperimentali, Giuliano Baioni, Giuseppe Bevilacqua, Cesare Cases, Claudio Magris (a cura di), Einaudi, Torino 1973, pp. 131-146.

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