La rabbia invecchia, e l’ironia? Sulla parabola politico-estetica di Enzensberger

Hans Magnus Enzensberger (via endoplast)

[Da Pulp, maggio-giugno 2010, in occasione dell’uscita di Josefine e io. M.S.]

Paola Quadrelli

Nostalgico scruta il vecchio guerriero
l’orizzonte, se mai si scoprisse un attaccante.
Ma il mirino è vuoto. Anche il nemico
lo ha dimenticato.
(da “Vecchia rivoluzione”, in Musica del futuro)

«La rabbia invecchia, l’ironia è immortale»: è questa l’icastica sentenza che il critico Wolf Lepenies scelse per concludere il suo discorso in onore del conferimento del premio Heinrich Heine ad Hans Magnus Enzensberger nel dicembre 1998. Si tratta di un motto incisivo e acuto, desunto dallo stesso Heine, che si rivela particolarmente adatto per illustrare la parabola intellettuale e poetica di Enzensberger e per prestare infine attenzione alla più recente novità editoriale del prolifico autore tedesco, il racconto Josefine e io.

Nato nel 1929, Enzensberger appartiene alla stessa generazione di Günter Grass, di Martin Walser, di Christa Wolf e Walter Kempowski; fa quindi parte di quel gruppo di scrittori che contribuirono al rinnovato prestigio della letteratura tedesca nel secondo dopoguerra con testi marcatamente e inevitabilmente politici, poiché scaturiti dal travaglio della Germania negli anni della ricostruzione postbellica, tra crescita economica e rapido oblio del passato nazista.

La “rabbia”, il piglio fieramente aggressivo, lo slancio etico e civile sono le fonti emotive e intellettuali che nutrono le prime poesie di Enzensberger (difesa dei lupi del 1957 e lingua nazionale del 1960), la cui pubblicazione valse infatti all’autore la nomea di angry young man della letteratura tedesco-federale. Nei saggi coevi, raccolti in un volume noto e più volte riedito anche da noi in Italia, Questioni di dettaglio (1962), Enzensberger rielabora con originalità i temi della critica culturale della scuola di Francoforte e affronta con prosa serrata e scintillante l’“industria della coscienza”, ovvero i processi di subdola manipolazione e di omologazione culturale prodotti dai media (celebri la sua analisi del linguaggio dello Spiegel e il saggio sul nascente fenomeno del turismo di massa).

Consapevole di trovarsi in un momento di discrimine epocale per quanto concerne il senso del lavoro culturale e la funzione dell’intellettuale nelle società occidentali, lo Enzensberger dei primi anni Sessanta riflette nei suoi saggi sulla necessaria revisione del ruolo dello scrittore nella moderna società di massa, in cui un’industria culturale conformista e superficiale condanna la letteratura a un ruolo marginale e ne disinnesca ogni potenziale eversivo. Enzensberger rivendica con passione il compito intrinsecamente rivoluzionario della poesia dinanzi alle banalizzazioni dell’industria culturale e difende la specificità della poesia, irriducibile a ogni mandato politico: l’arte è, di per sé, “denuncia della realtà esistente”, “antimerce”, resistenza al “mondo amministrato”.

Il compito politico della poesia, sostiene Enzensberger con un’affermazione acutamente paradossale nel saggio Poesia e politica, “è quello di sottrarsi ad ogni compito politico e di parlare per tutti proprio nel momento in cui non parla di nessuno: di un albero, di una pietra, di ciò che non esiste.” E di fronte al nichilismo storicistico che riduce le opere d’arte del passato a morti oggetti museali e in tal modo le imbalsama e le neutralizza, Enzensberger evoca con immagini intense il compito anticipatorio della poesia e il suo potenziale utopico: l’opera d’arte è “un torso, le cui membra giacciono nel futuro”. Ai temi di critica della società e della cultura è improntata tutta la produzione saggistica di Enzensberger, da Mediocrità e follia (1988) con gli interventi sulla televisione e sul “trionfo della Bild-Zeitung”, a Zig zag (1997), con i saggi di denuncia degli sprechi nella politica culturale e gli scritti su epifenomeni della società opulenta, come la moda e il lusso.

L’arte di Enzensberger conosce però il suo vertice negli anni Settanta e almeno tre sono i capolavori da ricordare in questa sede: le ballate di Mausoleum (1975), trentasette componimenti dedicati a scienziati, politici e artisti, fautori e al contempo vittime del progresso (da Spallanzani a Ugo Cerletti, da Chopin a Piranesi, da Che Guevara a Molotov), La fine del Titanic (1978), un epos in trentatré canti, in cui il destino del transatlantico diventa metafora del fallimento dei miti tecnocratici e scientisti che hanno alimentato la civiltà occidentale negli ultimi due secoli e, sul versante della prosa, il geniale romanzo documentario La breve estate dell’anarchia (1972) che tra scienza documentaria e oral history ricostruisce la biografia dell’anarchico spagnolo Buenaventura Durruti, innestando al contempo un serrato e fecondo confronto dialettico con i movimenti politici degli anni Settanta.

Siamo ancora di fronte a letteratura politica nella migliore maniera enzensbergeriana, ovvero letteratura che pur non affrontando direttamente questioni politiche e sociali contingenti, rivisita il passato con lo sguardo critico e partecipe del presente ed evoca conflitti e processi che trovano ancora una ripercussione o un’eco nell’attualità. La prospettiva dell’autore, che pure partecipò al dibattito politico del Sessantotto tedesco, rifugge da faziosità ideologiche e non propugna palingenesi epocali: Enzensberger mantiene infatti uno sguardo disincantato e ironico sulle cose e sul mondo, di cui percepisce le follie, le ingiustizie e le insensatezze e di cui coglie, con sensibilità vivissima, la caducità e l’assurda vanità.

Uno dei temi preferiti della lirica enzensbergeriana è proprio quello dell’apocalisse, della guerra, della catastrofe naturale che tutto travolge e sommerge: si pensi ad alcune liriche di scrittura per ciechi (1964) come “countdown” o “doomsday”, allo scenario di morte e distruzione del Titanic, allo smascheramento delle aporie del progresso tecnico-scientifico in Mausoleum, alla raccolta di versi del 1980 che Enzensberger intitola, con una citazione da Hegel, La furia della caducità, sino alle poesie di Musica del futuro (1991), velate da un senso di precarietà e da un tono di tragica ironia, dove il presagio della fine della storia è sostituito dalla coscienza della fine di un’epoca e di un’ideologia. Al contempo, Enzensberger si rivela sempre attento lettore e indagatore del mondo moderno, dai nuovi scenari sociali prodotti dall’immigrazione (La grande migrazione, 1992), al terrorismo islamico (Il perdente radicale, 2006), all’intelligenza artificiale.

L’attività culturale dell’autore, che dagli anni Ottanta risiede a Monaco di Baviera (dopo periodi trascorsi a Francoforte, in Norvegia, in Russia, negli Stati Uniti, a Cuba, a Berlino Ovest) si è sempre distinta per vivacità, ricchezza di prospettive e varietà di scelte stilistiche: animatore di riviste (Kursbuch e Transatlantik), pubblicista, editore (dal 1985 è infatti pure curatore della collana “Die andere Bibliothek” presso l’editore Greno/Eichborn), traduttore, autore di fortunati libri per ragazzi, Enzensberger ha dispiegato il suo multiforme talento e la sua enorme cultura in molteplici iniziative.

Volgiamoci ora con maggiore attenzione agli anni più recenti e a due testi esemplari: le poesie raccolte nell’ultimo volume di liriche pubblicato da Einaudi, Più leggeri dell’aria (2001), e il recentissimo racconto Josefine e io, ove, a nostro giudizio, il talento di Enzensberger rivela chiari segnali di involuzione e mostra che, quando si spengono la passione civile e l’indignazione morale, si indebolisce pure il talento poetico del nostro autore. Le ultime liriche del poeta attestano, e negativo, che passione civile e indignazione morale costituiscono i veri elementi propulsori dell’arte enzensbergeriana, tanto che il disimpegno politico produce testi anche esteticamente fragili. Ovvero, parafrasando il motto d’apertura, quando la rabbia invecchia, anche l’ironia perde mordente.

Più leggeri dell’aria mette a nudo impietosamente i limiti del talento dell’autore: la cerebralità che ha sempre contraddistinto la lirica del nostro poeta (il quale una decina d’anni fa propose persino il progetto di un Poesie-Automat, un computer in grado di elaborare poesie), la predilezione per i giochi di parole, per le figure retoriche, per le citazioni colte, la patina intellettualistica e artificiosa, un certo snobismo di cui il poeta si è talora, seppur velatamente, compiaciuto (si pensi già a una poesia giovanile come an einen mann in der trambahn), tutte queste caratteristiche, un tempo presenti – sì – nella lirica del nostro poeta ma dosate con maggiore sobrietà, sorrette da un’intelligente autoironia, filtrate da una passione civile e da una più immediata urgenza poetica, si disvelano invece in queste ultime liriche nella loro fastidiosa vacuità. Si tratta di una lirica che non risponde ad alcuna reale urgenza espressiva e che si nutre pertanto dell’effimero armamentario dell’attualità, peraltro mescolato all’ammiccamento colto, in un gioco citazionistico ed eclettico già sperimentato in ambito tedesco, ma con maggiore raffinatezza e originalità, dal tardo Gottfried Benn.

In questi componimenti, un tizio compra il dentifricio o cambia la lampadina e intanto riflette sulla formula di Eulero; in una strofa si parla di Jean Paul e in quella successiva dei centri commerciali; in una poesia sul libero arbitrio, la moglie si lamenta con il marito perché avrebbe bisogno di un vibratore, ma riceve in regalo dal consorte una prima edizione di Nietzsche e altrove si banalizzano versi benniani celeberrimi come “Tutto è riva. Eterno chiama il mare” per parlare di una persona che non sa nuotare, compiacendo in tal modo la furberia di certa letteratura postmoderna per cui il verso famoso di un grande poeta è intercambiabile con il più sciocco spot pubblicitario.

Si assiste qui, inoltre, all’esito perverso cui può condurre un’idea unilaterale e semplicistica dell’autonomia dell’arte: tale convinzione, già sostenuta da Enzensberger nel citato Questioni di dettaglio con altra consistenza teorica e sulla scia del pensiero di Adorno, viene ora riproposta in un’ottica di disimpegno e di dichiarata impoliticità (“Un gran peso / le poesie non l’hanno”: così inizia la poesia eponima della raccolta, mentre un’altra composizione s’intitola Predilezioni impolitiche), ma l’intera raccolta sta a dimostrare come l’abdicazione da qualsiasi valore morale e civile sfoci, inevitabilmente, in un vuoto estetico.

Enzensberger è stato irretito nella trama di quella stessa industria culturale un tempo da lui demistificata con tanto acume e che ora costringe i propri autori di successo a un’assurda bulimia produttiva, a un continuo presenzialismo sul mercato editoriale e a una nefasta coazione creativa. Difficile infatti spiegare la pubblicazione di un racconto bolso e sconclusionato come Josefine e io senza pensare che lo stesso Enzensberger abbia introiettato la tecnica di produzione seriale che gli editori impongono alla creatività dei loro autori.

Nel titolo del suo racconto, pubblicato in Germania nel 2006 e accolto da un insolitamente unanime coro di stroncature, Enzensberger strizza l’occhio a Josefine la cantante ossia il popolo dei topi, l’ultimo racconto di Kafka che costituisce al contempo una sottile riflessione estetica e un malinconico apologo sul declino delle tradizioni comunitarie del popolo ebraico. Per rafforzare ulteriormente il côté kafkiano, l’autore sceglie persino di chiamare la protagonista del racconto Josefine K., con trasparente riferimento allo sfortunato imputato del Processo. Ora, nessun scrittore serio né, tantomeno, un autore tedesco può giocare impunemente con il nome di Kafka e il fatto che l’unica analogia tra Josefine e io e la novella kafkiana consista nel nome della protagonista e nella sua professione (cantante, appunto) rende l’ammiccamento al sommo Kafka un giochino tanto gratuito quanto velleitario.

Enzensberger, si diceva, è autore cerebrale: versificatore virtuoso, acuto polemista, abile ricercatore e assemblatore di documenti storici (si veda il recente Hammerstein), autore di libri per ragazzi in cui egli dispiega con talento la sua amplissima cultura e la sua intelligenza versatile, egli non è però autore di testi di pura fiction, ovvero non sa inventare e creare con la debita plasticità e verosimiglianza nuovi mondi narrativi. Né i dialoghi di Josefine e io, né le descrizioni dei personaggi riescono ad acquisire vivacità e credibilità, costrette come sono in una prosa assai sciatta e irta di frasi fatte. La stessa situazione che mette in moto la narrazione di Josefine e io appare poco plausibile: Joachim, un economista trentenne, salva da uno scippo un’anziana signora, Josefine, e viene da lei ricambiato con un invito a prendere il tè nella sua villa fatiscente. Ne nasce una serie di incontri settimanali, in cui il promettente ricercatore, che riceve inviti dal MIT di Boston e si occupa di efficiency doctrine, trascorre il pomeriggio a conversare con una “vecchiarda” (parole di Joachim), stravagante e asociale, che infioretta la conversazione di pregiudizi, luoghi comuni, sciocchezze, cliché, ottusità e “perle di saggezza” (è ancora Joachim a dirlo, cfr. pp. 21 e 28).

Il racconto è costituito dalle pagine di diario di Joachim, in cui egli racconta degli incontri svoltisi tra il settembre 1990 e il maggio 1991. Alquanto imbarazzante è però constatare che le sfrontate banalità della signora e le sue dichiarazioni compiaciutamente e sgradevolmente politically uncorrect (disprezza i politici, non va a votare, proibirebbe la pubblicità, è contraria alla democrazia, odia i francesi) corrispondono, in parte e grosso modo, ad argomentazioni che Enzensberger ha esposto altrove, in saggi e articoli. Josefine equipara Hitler a Saddam, come fece Enzensberger in un suo contestato articolo sullo Spiegel ai tempi della guerra nel golfo; è l’incarnazione vivente delle teorie sull’anacronismo sviluppate dall’autore nei saggi di Zig zag e si fa portavoce di quello snobismo e di quel qualunquismo che, mascherato da sovrana “sprezzatura” e da superiore “levità”, trapela pure nelle ultime raccolte poetiche dell’autore. La sicumera con cui Josefine “chiacchiera di ogni argomento possibile tranne che di quello che conosce” (p. 29, e si noti la sgradevole sintassi) ricorda, poi, un po’ troppo da vicino, la disinvoltura con cui Enzensberger interpreta il ruolo dell’opinionista affidatogli dall’industria culturale, dello scrittore che sa tutto e interviene su tutto, dalla politica estera all’economia, dalla sociologia alla matematica.

Poco convincente è pure il personaggio di Fryda, la cameriera di Josefine di origine ebraica (anche qui un riferimento a Kafka?): sarà lei ad annunciare a Joachim, ritornato in Germania dopo un soggiorno estivo negli Stati Uniti, la morte della padrona. A latere si aprono pure alcuni scorci sulla inquieta vita sentimentale del protagonista, che, ritrovati i quaderni di diario nel 2005, in occasione di un trasloco, decide di conservare le pagine per i figli: “Magari un giorno le sfoglieranno e si stupiranno del loro padre”. Insomma, una di quelle belle storie da raccontare ai nipoti nelle sere d’inverno: davvero un finale gretto e deludente per uno scrittore come Enzensberger che ha regalato alla letteratura contemporanea alcuni autentici capolavori.

Paola Quadrelli

Bibliografia delle opere citate in edizione italiana

Josefine e io, trad. di Valentina Tortelli, Einaudi, Torino 2010, pp. 135

Hammerstein o dell’ostinazione

, Einaudi 2008 (ora anche tascabile)
Il perdente radicale
, Einaudi 2007
Più leggeri dell’aria. Poesie morali
, Einaudi 2001
Musica del futuro
[poesie], Einaudi 1997
Zig Zag. Saggi sul tempo, il potere e lo stile
, Einaudi 1997
La grande migrazione. Trentatre segnavia
, Einaudi 1993
Mediocrità e follia. Considerazioni sparse
, Garzanti 1991
La furia della caducità
[poesie], Studio editoriale 1987
La fine del Titanic. Commedia
, Einaudi 1980
Mausoleum. Trentasette ballate dalla storia del progresso
, Einaudi 1979
La breve estate dell’anarchia. Vita e morte di Buenaventura Durruti
, Feltrinelli 1973 (tascabile 1997)
Questioni di dettaglio
, Feltrinelli 1965 (poi e/o 1998)

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