Christa Wolf, Trama d’infanzia

[Dal Corriere della Sera del 5 agosto 1992. Immagine via: eins.grafxweb.de. C.M.]

Antonio Faeti

Non c’è, forse, territorio o spazio letterario, dove sia più difficile muoversi, di quello offerto dalle memorie di chi, adulto, rammenta se stesso bambino o adolescente. Quando Alberto Savinio scrisse il suo libro Tragedia dell’infanzia, un testo breve e dotato di abbacinante tristezza, pensava certo anche, e con disgusto, al ricordo molliccio e narcisista di chi offre a lettori neghittosi il dubitabile miele di un Eden privato, meritevole soprattutto di scomparire in un oblio dignitoso. Ma Christa Wolf, con il suo Trama d’infanzia (ed. orig. 1976, edizioni e/o, Roma, 1992) ha raccolto, invece, in pagine dolenti e memorabili, le rimembranze livide e cupe di un’intera generazione di tedeschi, sempre evitando le trappole lagnose di un privato sconciamente esibito, e sempre creando splendidi paradigmi interpretativi, validi per un’epoca, per un popolo, per una cultura. Mentre la riflessione pedagogica langue, oppure borbotta con cipiglio ragionieresco, su pretesti inutilmente e burocraticamente kafkiani, questo è anche un grande testo pedagogico, denso di innumerevoli risorse, generoso nell’offrire anche minuziosi repertori di stimoli a chi medita sui giovani, sul loro evolvere, sul loro esistere in rapporto alla storia. 

La prima suggestione di cui si vale Trama d’infanzia è quella ricavata da un viaggio che la voce narrante attribuisce a una donna, una tedesca dell’Est, desiderosa di rivedere, all’età di quarant’anni, nell’estate del 1971, la sua piccola città natale, ora non più tedesca ma polacca. La protagonista è accompagnata dal marito H., dal fratello Lutz e dalla propria figlia adolescente, Lenka. I ricordi scorrono, naturalmente, ma non come in un fiume: il flusso della memoria, in cui si immerge la Wolf, assomiglia piuttosto a un torrente, in cui si compiono imprevedibili sobbalzi, dagli anni del nazismo al 1971 e al 1974, l’anno in cui il libro prende davvero forma e viene scritto. Non c’è, quindi, la rosea nebbia che tutto rende intenzionalmente opaco, ci sono violenti e ammiccanti e persino umoristici riporti a un presente che non è mai solo contrapposto al truce passato, ma piuttosto abilitato a dialogare, per un terribile senso di continuità, con i remoti fantasmi che poi occhieggiano, ora, con nuove maschere e con nuove parvenze.

La voce narrante, fra l’altro, non ricorda in senso proprio, ma conversa con la bambina e con l’adolescente che vissero lì, nella città ora polacca, un tempo tedesca, e ha dato un nome a questa presenza: la chiama Nelly e non ha indulgenze di nessun tipo mentre tratta con questa creatura di cui si sente, di volta in volta, l’erede, la prosecuzione, il prodotto evolutivo. È Nelly o è Christa la bambina che scarabocchiò interamente la pagina del libro di fiabe in cui i genitori di Hänsel e Gretel mettono a punto il piano per liberarsi dei loro bambini, abbandonandoli nel bosco? Il colloquio di quel babbo e di quella mamma viene definito “quell’orribile conversazione” e, nella trama d’infanzia che la Wolf definisce, il ricordo del dialogo notturno, con i bambini a spiare, a capire, a scoprire, diventa come un insopprimibile presupposto ermeneutico.

Perché Nelly accosta fra loro i ricordi, così che si spieghino proprio fra loro, in una totentanz sardonica e orrorifica: il 17 marzo del 1933 i comunisti della piccola città vengono costretti a sfilare in mesto corteo e a bruciare, tra le lacrime, i loro vessilli; per la stessa strada passano, il 26 agosto del 1939, i coscritti che vanno al fronte, ma lunedì primo agosto 1974, mentre Christa scrive, un certo generale Pinochet si autodesigna capo supremo della sua nazione. E quest’ultima data rammenta alla scrittrice l’elenco degli intellettuali tedeschi privati della cittadinanza per indegnità, ma anche la morte di uno di essi in un lager staliniano e l’impegno della moglie per onorarne la memoria, nella censura e nel silenzio della Germania dell’Est.

Nella giovane vita di Nelly c’era stato un fervido amore: quello provato per Julia, la sua professoressa di storia, e a lei la scrittrice ripensa, ora che è scomparsa da tempo, mentre giudica il Watergate e utilizza certe nozioni per comprendere l’autentico clima da basso impero in cui naufraga l’amministrazione Nixon. Anche Benjamin, l’impagabile protagonista de La Prosivendola di Daniel Pennac, edito da Feltrinelli, ha in mente un grottesco paradigma che evidenzia una dolente continuità: noi punimmo i tedeschi a Versailles, dice Benjamin, loro se la presero con gli ebrei e questi ultimi hanno scaricato tutto sui palestinesi.

Ma la grandezza di Christa Wolf, e il suo collocarsi nella memorabile genealogia tedesca che ha un grande fondatore in Jean Paul, si avverte soprattutto nell’implacabile risonanza del riso, che sempre martella il tragico sobbalzare della memoria. Così i tedeschi, turisti nei Paesi dell’Est, cantano canzoni oscene, ubriachi di birra, nel 1974, e Lenka fa il suo lavoro di turnista in una fabbrica che ripropone, nel 1974, quelle create accanto ai lager, mentre le caserme delle SS presso Buchenwald sono proprio diventate un hotel dove un innocente viaggiatore stenterà a prendere sonno per ragioni che dovrebbero essergli ben note.

E, in fondo, la memoria, la vita, le trasformazioni, il peso dell’infanzia sull’esistenza degli adulti vengono insieme alla mente in una splendida pagina della Wolf: “… finché qualunque certezza su se stessa minacciava di sprofondare in un imbuto senza fondo. Un fenomeno dal fascino inquietante, che lei riconosceva: la bianca infermiera sulle etichette delle scatole di latte Libby, che sul palmo della mano porge a chi osserva, al compratore, al bevitore di latte, una seconda scatola di latte Libby sulla cui etichetta una seconda infermiera, ormai molto piccola fa esattamente lo stesso con una terza scatola. E così via. Finché infermiere e scatole si sono ridotte a dimensioni tali che nessun pennello avrebbe mai potuto dipingerle, ma il cervello torturato di Nelly riusciva a figurarsele con la massima esattezza, con estrema precisione, finché al di sopra dell’occhio destro un puntino della grandezza di uno spillo le cominciava a scottare e a pulsare”. 

Antonio Faeti

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