Ingeborg Bachmann, Tre sentieri per il lago: una storia di goffi cavalieri

[Riprendiamo questa recensione apparsa su La Stampa nel 1980 per segnalare il convegno Re-Inszenierungen von Ingeborg Bachmann in Italien, che si terrà Verona il 6-7 dicembre prossimi, per iniziativa dell’Università di Verona e del Forum Austriaco di Cultura. Scarica la locandina qui. Immagine via utta.org. C.M.]

Carlo Fruttero e Franco Lucentini

Chi non abbia perso interesse per l’eterno problema di come le donne vedono gli uomini potrà leggere con profitto un libro finissimo, Tre sentieri per il lago, di Ingeborg Bachmann (Edizione Adelphi). Si tratta di cinque ritratti femminili legati da quasi impercettibili coincidenze: ora la protagonista di una storia riappare di scorcio in un’altra, ora una conversazione ci rivela sbadatamente il felice matrimonio di quella che avevamo vista dibattersi in un amore infelice, ora un cognome, un pettegolezzo, una malignità aprono brevi spiragli su un sottofondo di parentele e relazioni mondane, ricordi, incontri, intrecci di destini viennesi, che per essere appena indovinato non è meno avviluppante, musicalmente continuo.

Lo è anzi di più, perché appunto così ognuno di noi passa attraverso gli altri, a occhi semichiusi, fra dimenticanze e lacune, casuali ritorni di curiosità, indelicatezze, giudizi crudeli o superficiali, e quel perpetuo mormorio informativo, quella risacca di lo sai che stanno già divorziando, che lui è morto due anni fa, che lei non l’ha poi sposato, che lui si è trasferito a Roma, che lei, dopo il secondo figlio, ha piantato tutto, s’è messa con un giornalista… E’ quello che si potrebbe chiamare il romanzesco greggio, e di cui tutti siamo al tempo stesso produttori e consumatori. Da una certa distanza, tutti raggiungiamo la dignità di personaggi; ma dobbiamo rassegnarci all’idea che un flirt balneare e un cancro al fegato, una vita ricca di avventure o tragedie e un’esistenza di totale piattezza, occupano in ultima analisi, nel campo visivo di chi ci sta intorno, lo stesso modesto spazio periferico, che ci vuole all’incirca la stessa quantità di parole tanto per dire «lei adesso sta nelle Antille a cercare i tesori dei galeoni spagnoli», quanto per dire «lui ha vinto il concorso e s’è sistemato all’Inps di Savona».

La Bachmann usa magistralmente questo sentimento dell’effimero, del marginale, questa tastiera della sfilacciatura e della nebulosità, fino a farne l’esplicito tema del racconto Occhi Felici, dove Miranda, incantevole signora viennese, tiene letteralmente il mondo fuori dalla propria difettosa visuale. Nulla più offende o rattrista questa miope che «dimentica» o «perde» di continuo gli occhiali: Miranda è felice perché la realtà le arriva attraverso un filtro d’imprecisione, d’indeterminatezza; perché non vede lo squallore di piazze, vie, ristoranti, insegne, la stupidità e cattiveria delle facce in autobus e al concerto; perché è libera di immaginare la bellezza dove non c’è. Non mancano gl’inconvenienti, beninteso. Si offendono conoscenze, si abbracciano estranei, si va a cozzare contro porte, spigoli, lampioni, si rischiano cadute e investimenti. Ma è un prezzo che vale la pena di pagare per ritrarsi in una estraneità ottica così rassicurante e portatrice di allegria, benevolenza, ottimismo.

Di tutta la faccenda, Josef, che pure è innamorato di lei, non capisce assolutamente niente. La crede una poverina indifesa, svagata, infantile e spesso esasperante. Si mette in testa dì proteggerla e correggerla. Le parla, con tipica praticità maschile, di occhiali, lenti, visite dallo specialista. Non s’accorge che Miranda lo dirotta per il suo bene su un’altra donna, e fino all’ultima scena, durante il festival di Salisburgo, resta una classica figurina di «manovrato», volenteroso, amabile, ma irrimediabilmente ottuso.

Lo schema si ripete negli altri racconti. Da una parte una donna, candida o scaltrita, anziana o giovanissima, che se ne sta circondata da cordoni invisibili; dall’altra un uomo, marito, amante, padre, figlio, fratello, che le gira attorno come un goffo, rozzo turista.  Manca ogni intento polemico nella Bachmann, che è scrittrice d’ispirazione postasburgica, rothiana, tutta intenta a cogliere gli struggimenti, le risonanze minime, le segrete ironie e lacerazioni della vita; tanto più impietosi risultano perciò i suoi «schizzi» maschili. Più non risuona in queste pagine il vecchio grido femminile «tu non mi capisci!». Qui, agli uomini non si rimprovera niente, non si chiede niente. Essi sono sempre presenti e sempre lontani, come una razza di aliens non più conquistatori, non più dominatori, ma soltanto ingombranti; occasionalmente malvagi, generosi, egoisti, perfino intelligenti, ma comunque «inferiori». Sarebbe facile rilevare che le eroine della Bachmann sono dei casi-limite, delle scocciatrici croniche, nevrotiche, spostate, insoddisfatte, anime perse nella rassegnazione, nella vecchiaia, nella solitudine. Ci vengono del resto descritte con minuziosa esattezza: le loro case viennesi o parigine, i loro gusti, i loro abiti, le loro golosità e affettazioni, i loro capricci e terrori, il loro lavoro, il loro passato. Chi legge può anche fermarsi, senza rimetterci, a questi eleganti e vividi smalti narrativi, praticamente introvabili oggi.

Un racconto come Problemi problemi, per esempio, ha l’appeal immediato del pezzo di bravura. Beatrix, una ragazza della piccola borghesia, si crogiola nel vizio, anzi, come lei stessa riconosce, nella perversione del sonno; dormire è per lei la massima delle voluttà. La vediamo destarsi, vediamo la sua mente torpida racimolare brandelli di pensieri, stimoli, voglie, ricordi intenzioni, e a poco a poco vediamo le accidiose volute della sua personalità formulare il progetto di andare dal parrucchiere. Questa visita a «René», in un giorno di pioggia e quindi nefasto per le acconciature, si arroventa via via di frustrazioni sempre più orrende. L’attesa è troppo lunga, c’è una lavorante nuova e incapace, il signor Karl non compare al momento giusto con le sue fide mani, il casco è troppo caldo, lo smalto sbagliato, il trucco un disastro e cosi fino a che Beatrix esce di scena stravolta e singhiozzante, il volto sfigurato, i capelli in spiritato, tragico disordine. E’ un feroce racconto di costume, se si vuole, tagliato su una ragazza viziata, fannullona, scroccona, meschina. Ma Beatrix è anche tutte le donne che vanno dal parrucchiere; tutte le donne che possono contare soltanto su se stesse; tutte le donne di oggi.

In questo libro, esse sono ancora le principesse del mondo cavalleresco e del mondo delle fiabe che ne derivò, prigioniere di maghi subdoli e sfuggenti, di draghi tentacolari e fiammeggianti d’incantesimi e malefici che più potenti non se n’erano visti mai. Esse continuano a languire solitarie dietro mura, sbarre, foreste, labirinti inaccessibili ma hanno compreso che la loro tradizionale irraggiungibilità è definitiva. Il liberatore non le libererà; il salvatore scanserà la prova, il bel cavaliere passerà sotto la loro finestra e s’informerà se nel castello dell’orco ci sono camere con bagno, il biondo pescatore, invece di tuffarsi a ricuperare l’anello caduto in fondo al mare, offrirà loro un ombrellone e una bibita tiepida. Non per viltà o inettitudine; per mera inconsapevolezza.

Ingeborg Bachmann visse a lungo in Italia. Molti tra i nostri amici la frequentavano, e solo per caso non l’incontrammo mai, era appena partita, o sarebbe venuta il giorno dopo, o s’era sentita male, o era a casa di qualcun altro. Di lei ci dicevano che era una donna infelice, vulnerabile, sprezzante e dirupata, prigioniera di fantasmi maligni e inafferrabili Era molto miope. Morì nel 1973, nel suo appartamento romano. S’addormentò con una sigaretta accesa tra le dita e la sua camicia di nailon prese fuoco. Non aveva vicino nessun cavaliere per spegnere le fiamme.

Carlo Fruttero e Franco Lucentini

Tratto da La Stampa del 31 Agosto 1980, numero 190, p. 3.

Il testo: Ingeborg Bachmann, Tre sentieri per il lago e altri racconti, (tit. orig.: Simultan: neue Erzählungen, 1972) traduzione di Amina Pandolfi, tranne per il racconto Occhi felici a cura di Ippolito Pizzetti, Adelphi, Milano 1980.

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