Christa Wolf a Torino

[Nel primo anniversario della scomparsa di Christa Wolf riproponiamo il suo discorso di ringraziamento pronunciato nel 1997 all’Università degli Studi di Torino in occasione del conferimento della laurea honoris causa in Lettere e poi pubblicato su L’Indice. Al discorso segue il testo di Anna Chiarloni che lo accompagnava sulla rivista. Foto 1: via detektor.fm; foto 2: Christa Wolf e Anna Chiarloni alla cerimonia di Torino del ’97. C.M.]

Christa Wolf

Come ringraziamento per un omaggio che mi allieta e che tuttavia, come sempre in questi casi, desta in me sentimenti lievemente contrastanti, ci si aspetta certo un piccolo dono: qualcosa di scritto, poiché è alla mia scrittura che qui generosamente si tributa onore, e quindi mi trovo ora innanzi al compito di aggiungervi ancora qualcosa, e poi alla domanda: che cosa? Le mie riflessioni vanno dunque a chi gentilmente mi insignisce e al pubblico che ho di fronte: tutti, o almeno la maggior parte, linguisti e studiosi di letteratura, in parte persino germanisti, e io so per esperienza che un’autrice, a questa classe di professionisti a lei così ben nota, non può fare piacere più grande che tentare una sorta di autointerpretazione: il nutrimento ideale per interpreti di professione, sul quale essi si precipitano con vera e propria avidità, per poi reinterpretarlo essi stessi dopo un processo di elaborazione più o meno complicato e impenetrabile.

È questo un gioco, un gioco di società, ma per quanto mi sia dato vedere, uno dei più inoffensivi e innocui, che potrebbe essere spesso ancor più piacevole se noi giocatori non dimenticassimo continuamente che stiamo giocando – cosa che tuttavia, forse non in Italia, ma certamente in Germania – è ritenuta oltraggiosa. “Seria è la vita, lieta sia l’arte” – la massima ci è sfuggita di mano, i significati paiono essersi tramutati nel loro contrario: l'”ampio campo” dell’arte, particolarmente del narrare, dell’affabulare, è divenuto un campo di battaglia ove si danno mazzate e fendenti, come se su questo campo si disputasse la questione certo più importante per il singolo e per interi gruppi: che valore questo, quelli abbiano. Se hanno valore, o se l’hanno avuto. E quando – così almeno sembra – si riesce a disconoscere a un gruppo il prestigio un tempo conclamato, ecco che allora quello dell’altro gruppo curiosamente aumenta quando questo è diminuito.

“Vergangenheitsbewältigung” – una parola tedesca. Non so se sia il caso di tradurla in italiano. Sì, talvolta dà sollievo andarsene a centinaia di chilometri di distanza, oppure arretrare di secoli, in un passato che conosciamo solo attraverso saghe e miti, per vedere cosa si trova – senza ingannarsi, nel senso che si avrà sempre con sé un bagaglio di cui non ci si libererà mai: se stessi. Qualunque cosa si afferri sull’apparentemente “libero” mercato dei temi e dei motivi, rimarrà in testa, nelle mani, solo ciò che riguarda quella testa, solo ciò per cui quella mano è stata formata.

Allorché per la prima volta mi confrontai con il mito – si era al principio degli anni Cinquanta, il mito si chiamava “Cassandra” – mi resi conto dei pregi di questa scoperta: ecco un personaggio che si muove in una cornice dalla quale non si può prescindere, nella quale, però, se solo ci si inoltra quanto basta, si aprono insospettati spazi liberi: da scoprire, far riaffiorare, interpretare, ricreare. Volgere il nostro sguardo sulla storia remota. Dalla profondità del tempo lasciarsi osservare, sfiorare da figure arcaiche. (…)

I primi schiavi per lungo tempo furono donne; Cassandra e le sue sorelle troiane, che vengono deportate a Micene, nella rocca di Agamennone vincitore, s’inseriscono in questo modello. I motivi dei guerrieri achei che assediano Troia non mi parvero fondamentalmente diversi da quelli dei nostri adoratori di missili. Attraverso l’analisi della conservazione del potere ritenevo che avrei potuto scoprire qualcosa, se mi fossi immersa nelle strutture di una città come Troia e – sfruttando la mia stessa esperienza – avessi riprodotto la via della conoscenza che una donna come Cassandra deve percorrere, gradatamente riconoscendo l’essenza distruttiva della propria città.

L’accoglienza del libro nella Germania orientale e occidentale mostra che lettrici e lettori dei rispettivi paesi vi scorgevano un’acuta critica della propria società – cosa non stupefacente in quanto la società orientale e quella occidentale, malgrado tutte le differenze, avevano tuttavia un elemento fondamentale in comune: il loro obiettivo era produrre il più possibile e in modo sempre più veloce e perfetto. Persone dotate di senso critico hanno ben colto nella propria collettività il vuoto che questo obiettivo puramente esteriore produceva inevitabilmente nel gruppo, lo svuotamento di ideali un tempo pieni di senso, ora ridotti a una stentata pseudo-esistenza, a meri schemi in istituzioni sclerotizzate. E non fu difficile riconoscere che questo vuoto finisce per generare aggressività. (…)

Il mito ci può aiutare a coglierci nel nostro tempo con un altro sguardo, pone in risalto caratteristiche che non vogliamo notare, liberandoci dalla banalità quotidiana. Impone in particolar modo il problema dell’umano, del quale tratta, credo, ogni racconto. Ad esempio la questione del perché ci occorrano sacrifici umani. Del perché ci occorrano ancor sempre e continuamente capri espiatori. Negli ultimi anni, in Germania, dopo la cosiddetta “Wende” che condusse alla scomparsa della Ddr dalla ribalta della storia, ebbi motivo di riflettere su queste questioni.

Risalgono al giugno 1991 i miei appunti sulla figura di Medea, una figura che parve emergere spontaneamente da un contesto contingente per me molto sconcertante, occupato da riflessioni e sentimenti opposti e contrastanti, e che gradatamente prese il sopravvento su progetti di scrittura precedenti. Conoscevo, come tutti coloro che interrogai in proposito, la Medea di Euripide, la barbara venuta dall’Oriente che, infiammata d’amore per l’argonauta Giasone, lo aiuta a rubare quel vello d’oro che l’aveva spinto fino alla sua patria, la Colchide, sul Mar Nero, il limite orientale del mondo conosciuto dagli antichi popoli mediterranei. Con lui Medea fugge, sbarcando dopo varie peregrinazioni a Corinto, il punto occidentale del Mediterraneo. Qui Giasone si volge alla figlia del re Creonte, vuole sposarla; Medea viene esiliata dalla città. Ma, come narra Euripide, folle di gelosia e di orgoglio ferito, uccide la figlia del re, quindi i propri figli.

Era incredibile. Una guaritrice, esperta di magia, evidentemente originata da antichissimi strati del mito – da tempi in cui i figli erano il bene supremo di una tribù e le madri venivano tenute in gran stima appunto per la loro capacità di perpetuare la stirpe -, poteva uccidere i propri figli? Come sempre, quando si lavora concentrati su un problema, viene in ausilio il caso. Una studiosa di antichità di Basilea, tra l’altro curatrice del sarcofago di Medea presso il museo locale, mi spedì il suo articolo su Medea scritto per il “Lexikon Iconographicum Mythologiae Classicae” (Limc), da cui risulta che Euripide per primo attribuisce a Medea l’infanticidio, mentre altre fonti antecedenti descrivono tentativi di Medea di salvare i figli, tra l’altro conducendoli nel santuario di Era, “ove li crede al sicuro, i Corinti però li uccidono”.

Sebbene naturalmente una schiera di critici supponga che io l’abbia fatto, potete immaginare il mio sollievo per non aver avuto bisogno di inventare questa trasformazione di un personaggio rimasto sepolto per millenni nella coscienza occidentale come infanticida. Medea, il cui nome significa “colei che conosce il buon consiglio”, figura che alcune fonti ritengono sia di origine divina e che, nel corso del processo di degradazione delle divinità femminili, sia stata trasferita sulla Terra come guaritrice e maga. Medea appunto mi pare un esempio particolarmente impressionante del sovvertimento dei valori concomitante al formarsi della nostra civilizzazione da società arcaiche, che ha fatto sì che non la vita, e quindi il dispiegarsi di possibilità umane, sia emersa in primo piano, bensì la fascinazione della morte e delle cose morte, ovviamente legata all’obiettivo della riproduzione senza passaggio obbligato nel corpo materno. Già anticamente era, questa, una fantasia maschile. Euripide fa dire a Giasone: “Se esistesse nascita diversa, completamente senza donna, come felice sarebbe la vita!”.

A questa cultura, definita sempre più marcatamente da bisogni e valori maschili, che fra l’altro sviluppò una fobia del femminino e della donna, occorreva la figura della donna selvaggia, malefica, dominata da istinti sfrenati, dell’esperta di magia nera, della strega. Da esempi assolutamente contemporanei conosciamo lo straordinario interessamento dei mass media per quei casi in cui una donna viene sospettata di aver ucciso i propri figli: un crimine ancor sempre considerato come il più contro-natura tra quelli che un essere umano possa compiere e che più di ogni altro desta orrore, senza contemporaneamente destare orrore per le circostanze che oggigiorno possono spingere una donna a consumare un tale delitto.

Medea sin da principio appariva ai miei occhi una donna al confine tra due sistemi di valori, simboleggiati dalla sua patria, la Colchide, e dalla meta della sua fuga, Corinto: un confine che può facilmente mutarsi in abisso se l’interessata non è disposta o non è in grado di adattarsi alle nuove condizioni, considerate superiori, più evolute, il che non significa necessariamente che siano più umane. La questione della misura di questo “umano” divenne per me sempre più il filo conduttore del mio personaggio e del mio racconto.

La ricca, dorata Corinto non tollera la superba guaritrice, capace e consapevole del proprio valore, che indaga sul delitto sul quale si fonda anche quella città. Esseri umani vengono sacrificati al potere di idoli e al vitello d’oro. La donna deve venire calunniata, umiliata, sminuita, perseguitata, distrutta. La sua fama di infanticida dovrà essere assicurata al futuro. Gli uccisori dei suoi figli commemorano le loro vittime con un culto ipocrita. Viene respinto un tentativo di imporsi sulla ferocia dell’esistenza con discernimento, informando, mutando i comportamenti.

La storia segue il suo cammino. Alla letteratura è consentito mettere in scena le sue varie possibilità. Spetta ad attori e spettatori scegliere la più convincente. Nel vuoto centro del labirinto deve dominare invitto il Minotauro? Esisterà sempre un’Arianna che all’essere umano maschile consegna quel filo vitale con il quale egli – sconfitto il mostro, non da ultimo in se stesso – potrà uscire a tentoni dalla tenebra? Non troviamo questa costellazione alla base di molte storie contemporanee, banali e non? Il felice epilogo si è degradato a “happy end”, nondimeno mi pare che nel mito e nella letteratura che da esso origina si debba cercare, forse trovandolo, ben conservato, il nucleo autentico di nostalgia di noi tutti, insieme a una via di scampo dal labirinto, anche se altro ci suggerisce oggi lo spirito del nostro tempo.

 Christa Wolf

Anna Chiarloni

La riflessione sul mito è punteggiata da allusioni al dibattito che attraversa la Germania dopo la caduta del muro. Cerchiamo di chiarirle. Vergangenheitsbewältigung – una parola tedesca, annota la scrittrice. A doppio registro, s’intende. Perchè con la riunificazione il termine ha subito uno slittamento cronologico e semantico: se prima il “superamento del passato” riguardava il nazismo – e dunque tutti i tedeschi – oggi invece la Vergangenheit da mettere in discussione è il cosiddetto socialismo reale di quella DDR ormai scomparsa. In questo processo di revisione storica è piuttosto agli intellettuali dell’Est che viene richiesto un esame di coscienza, se non addirittura un mea culpa.

Il dibattito – acceso fin dai primi mesi del 1990, con la pubblicazione del racconto autobiografico di Christa Wolf Was bleibt – è ancora assai vivo e rivela interpretazioni contrapposte del dopoguerra tedesco. Da una parte c’è la volontà di considerare i quarant’anni di DDR come un errore della storia. Dall’altra si sente la rivendicazione – che muove anche da autori occidentali come Friedrich Christian Delius, Günter Grass e Rolf Hochhut – a una sintesi concettuale che tuteli la comprensione reciproca per la diversità delle due Germanie fino alla caduta del muro. Nel testo torinese della Wolf l’allusione amicale a Grass è trasparente: “l’ampio campo” della letteratura rimanda infatti a Ein weites Feld, l’ultimo romanzo che lo scrittore ha dedicato alle questioni tedesche, prendendo apertamente posizione contro la liquidazione della DDR. Così come “il campo di battaglia in cui si danno mazzate e fendenti” richiama la diatriba esplosa con l’apertura degli archivi della Stasi, commentata dalla Wolf in Congedo dai fantasmi e definitivamente chiarita con la pubblicazione integrale dei documenti a suo carico. Divampata nel 1993 con violenza inconsueta, la campagna di denigrazione aveva determinato nella Wolf un malessere profondo. Di qui il “sollievo di andarsene a centinaia di chilometri di distanza” arretrando nel tempo: il riferimento è al soggiorno in California e alla ricerca intorno a Medea condotta nelle prestigiose biblioteche statunitensi. Col sostegno di varie studiose, come ricorda altrove la scrittrice. Qui la menzione onorevole spetta a una “archeologa di Basilea”. Si tratta di Margot Schmidt, autrice di un ampio saggio su un reperto romano del II secolo d.C., il cosiddetto Basler Medeasarkofag. Un contributo che conferma l’ipotesi della Wolf di una Medea diversa dalla feroce infanticida euripidea. Ma anche il segno di una consonanza d’intenti sororali, alla ricerca di un filo d’Arianna che consenta di “uscire dal labirinto”.

Anna Chiarloni

Tratto da L’Indice dei libri del mese, 1997, n. 8

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