Uwe Tellkamp, La torre

[Da Pulp, settembre-ottobre 2010. M.S.]

Paola Quadrelli

Esce anche in Italia il romanzo monstre di Uwe Tellkamp, La torre (Bompiani, traduzione di Francesca Gabelli, pp. 1303), pubblicato in Germania nell’autunno 2008 e accolto in patria da un clamoroso successo di vendite, da un’ampia eco sulle pagine culturali e da importanti riconoscimenti. L’autore è nato a Dresda nel 1968, ha lavorato come medico sino al 2004, e si è segnalato nel 2005 con il romanzo Der Eisvogel.

Molti critici letterari, che attendevano da più di quindici anni il definitivo Wenderoman, ovvero un romanzo che racconti con respiro epico la rivoluzione del biennio 1989-90 e i mutamenti politici e sociali della Germania riunificata, hanno salutato il romanzo di Tellkamp, ambientato a Dresda negli anni Ottanta, con toni entusiastici, benché la narrazione di Der Turm si fermi al 9 novembre 1989 e non contempli dunque la realtà della Germania post-riunificazione. Le dimensioni monumentali del romanzo, la varietà dei registri stilistici e delle modalità narrative, nonché le numerose citazioni e gli ammiccamenti dell’ambizioso autore alla grande tradizione letteraria tedesca, da Goethe a E.T.A. Hoffmann, da Wilhelm Hauff a Thomas Mann, hanno suscitato il giubilo dei germanisti, in crisi di astinenza dopo anni di contorsioni minimaliste e diavolerie postmoderne, e hanno risollevato gli animi di quei critici letterari, che demoralizzati dai ripetuti e infausti annunci circa la fine delle “grandi narrazioni”, hanno sperato di rinvenire in Tellkamp un nuovo Thomas Mann o un Proust tedesco. Diciamo subito che lo straordinario clamore che il romanzo ha destato in Germania è riconducibile non tanto alle qualità letterarie della prosa di Tellkamp, quanto all’enorme interesse dei tedeschi per tutto ciò che riguarda il passato recente della nazione e, in particolare, i quarant’anni di dittatura nella Germania Est. La precisa ricostruzione della vita quotidiana nella DDR, rievocata da Tellkamp fin nei minimi dettagli, dal Minol-Pirol alle Trabant scalcagnate, passando per le barzellette anti-regime, incontra ovviamente in patria, in particolare nelle regioni un tempo appartenenti alla DDR, un pubblico di lettori che traggono dal coinvolgimento personale uno stimolo alla lettura dell’enorme romanzo.

L’acribia di Tellkamp, che cita con dovizia i nomi precisi di prodotti di consumo esistenti nella DDR, snocciola titoli di trasmissioni televisive, menziona istituzioni, eventi e celebrazioni che contrassegnavano la vita dei cittadini in quel Paese scomparso, si rivela, peraltro, in sintonia con il feticismo storicistico che anima il dibattito pubblico tedesco ogni qual volta si tratta di preservare o restaurare spazi e luoghi connessi alle tragedie del Novecento tedesco: si pensi alla recente ricostruzione della Frauenkirche di Dresda, distrutta dai bombardamenti, o agli affannosi progetti per una fedele ricostruzione del Castello degli Hohenzollern a Berlino, danneggiato dai bombardamenti e definitivamente abbattuto dalla furia antiprussiana e modernizzatrice del regime di Ulbricht.

La ricchezza informativa, di cui Tellkamp è prodigo, si rivela, del resto, un elemento di sicuro interesse anche per il lettore occidentale: dall’indottrinamento ideologico nelle scuole al dissesto del sistema sanitario, dall’editoria al servizio militare, dalle vacanze estive al lavoro nelle fabbriche, dalle difficoltà quotidiane nell’approvvigionamento delle merci alla coabitazione, dagli scontri con una burocrazia ottusa alla piccola corruzione, dai problemi ecologici all’attività dei dissidenti, dai ricatti della Stasi ai privilegi della nomenklatura, il romanzo di Tellkamp si rivela un vero e proprio repertorio della società tedesco-orientale, un elenco delle “1000 piccole cose” (cfr. p. 12) che popolavano la vita quotidiana degli abitanti di una “terra sprofondata”, come recita il sottotitolo del romanzo: Geschichte aus einem versunkenen Land (tradotto in italiano, con eccesso di interpretazione e di enfasi, con “Storia di una moderna Atlantide”).

Sotto il profilo letterario La torre si rivela, invece, un’opera piuttosto deludente, in cui spunti interessanti, idee stimolanti e metafore suggestive restano soffocate sotto l’eccesso di erudizione e il desiderio di affastellare un’enorme mole di materiale narrativo: il romanzo non è vivificato da quella felicità narrativa che anima la prosa dei grandi scrittori e risulta un’opera prolissa nei suoi numerosi e pedanti excursus naturalistici, peraltro irti di termini tecnici, irrisolta nella sua commistione di dati realistici e inserti fantastici, spesso noiosa nella sua sterile ossessione descrittiva e affollata di personaggi che restano scialbi, poiché mancano di profondità psicologica. Lo stile, mai ravvivato dall’ironia, scivola talora nell’enfasi e nella retorica (come testimoniano le stesse righe finali: «suonarono gli orologi, suonarono il 9 novembre, “Germania, patria unita”, suonarono alla Porta di Brandeburgo:», laddove i due punti sembrano alludere alla prosecuzione del romanzo preannunciata dall’autore), salvo piombare, altrove, in abissi di trivialità (un esempio per tutti: il dialogo tra Richard e la vicina di casa di Josta, pp. 521-522).

La narrazione, il cui arco temporale si stende tra il 4 dicembre 1982 e il 9 novembre 1989 ed è scandita dal ricorrente battito delle ore e dall’insistita presenza di orologi, pendole, campane, metronomi – evidente metafora del tempo che precipita inesorabile verso la dissoluzione del Paese – ruota attorno a una famiglia della borghesia colta di Dresda, gli Hoffmann, che abitano in ville liberty dai nomi fiabeschi (come “la Caravella” o la “Casa dei Mille Occhi”) ma ormai fatiscenti a causa delle incurie del governo. Il titolo del romanzo, che ammicca alla Società della Torre di goethiana memoria, allude sia alla posizione geografica sopraelevata rispetto al fiume e alla città del quartiere in cui gli Hoffmann e i loro parenti e amici abitano (benché non nominato, il quartiere è il Weißer Hirsch, sulle pendici nordorientali di Dresda), sia all’isolamento culturale e all’estraneità politica rispetto al regime in cui vivono questi rappresentanti del Bildungsbürgertum, amanti della musica e della letteratura, appassionati di botanica e zoologia.

Protagonisti del romanzo sono tre rappresentanti della famiglia Hoffmann: Richard, un chirurgo cinquantenne, ricattato dalla Stasi per una vecchia vicenda con un collega di ospedale e per una relazione extraconiugale; il figlio maggiore di Richard, Christian, adolescente timido e introverso, dall’indole intellettuale, che all’inizio del romanzo ha diciassette anni e che per ottenere un posto come studente alla facoltà di medicina si appresta a svolgere tre anni di servizio volontario nell’esercito, e lo zio materno del giovane, il redattore editoriale e zoologo di formazione Meno Rohde. Nato a Mosca in una famiglia dell’“aristocrazia rossa”, Meno ha preso le distanze dal regime nel 1968, quando la sua appartenenza alla comunità degli studenti evangelici gli ha di fatto precluso la prospettiva di una carriera universitaria. Alla Dresdner Edition, dove lavora, Meno si scontra quotidianamente con le difficoltà imposte dalla censura e grazie al suo personaggio il lettore viene a contatto tanto con figure di intellettuali “allineati”, come Eduard Eschschloraque o Paul Schade, quanto con scrittori avversi al regime, come la giovane e sfortunata Judith Schevola.

Attorno a Richard, Christian e Meno si muove una miriade di personaggi: mogli, amanti, parenti, vicini di casa, colleghi di lavoro, compagni di scuola, commilitoni di Christian, scrittori, studiosi, avvocati, rappresentanti del regime. Sebbene l’autore, con tono orgoglioso e un po’ civettuolo, precisi che i personaggi del romanzo “vivono nell’immaginazione e hanno in comune con gli uomini e le donne realmente esistenti tanto quanto l’argilla con la scultura”, è innegabile che molte figure ricalcano, persino nell’aspetto fisico, persone reali. Così, il Barone von Arbogast è un’evidente controfigura del fisico Manfred von Ardenne e l’economista ed erudito Jochen Londoner è la fotocopia dello studioso Jürgen Kuczynski. Modello per la figura di Georg Altberg è lo scrittore Franz Fühmann, mentre lo scrittore David Groth ricorda Stefan Heym, espulso dall’Unione degli scrittori della DDR in una celebre seduta del 7 giugno 1979.

La documentazione relativa a questa seduta, pubblicata da Rowohlt nel 1991, ha costituito verosimilmente per Tellkamp un materiale importante cui attingere per la stesura del capitolo 45, ove ha luogo, appunto, la seduta dell’“Associazione degli intellettuali” che delibera l’espulsione di Groth e di altri colleghi. Questa associazione, la cui dicitura originale, “Verband der Geistestätigen”, possiede un connotato ironico assente in traduzione (il termine Geistestätigen, “lavoratori dello spirito”, richiama, infatti, l’aggettivo werktätig, abusato nel linguaggio della DDR, ove indicava l’operaio, il rappresentante della classe dei lavoratori al potere nel Paese) è una libera invenzione dell’autore e a tal proposito vale la pena sollevare l’interrogativo circa l’irrisolta compresenza nel romanzo di puntiglio realistico ed elementi fantastici, surreali, persino vagamente fantascientifici (si veda il capitolo 34, relativo all’Isola degli Ascanidi). Nella DDR non c’era nessun “Verband der Geistestätigen” e non si capisce perché Tellkamp inventi un nome fittizio per un’istituzione le cui funzioni nel romanzo equivalgono in toto a quelle di un’associazione effettivamente esistente, ovvero lo Schriftstellerverband, l’Unione degli scrittori.

Frutto della fantasia dell’autore sono anche il quartiere di Bisanzio, dove risiede la nomenklatura (nell’originale si chiama “Ostrom”, “Roma dell’Est”), l’Isola del Carbone, che è il quartiere degli uffici e della burocrazia, e l’Isola degli Ascanidi, dove ha sede il Tribunale e dove “abitavano i discepoli di Justitia” (e non “i giovani della giustizia”, come si legge nella traduzione italiana, in cui si confonde “Jünger”, “discepoli”, con “Jungen”, “giovani”, e si opta per il più banale “giustizia”, anziché seguire fedelmente l’originale che propone il termine latino, più misterioso e solenne). Queste isole, che ricordano il mondo di Kafka e pure certe geografie fantastiche di Ernst Jünger, sono metafora di una società frammentata e ormai prossima alla disgregazione, divista in settori tra loro estranei e non comunicanti (in tal senso lo stesso autore ha suggerito a proposito del titolo del romanzo il riferimento alla torre di Babele) e richiamano pure quel fortunato termine, Nischengesellschaft, “società a nicchie”, coniato da Günter Gaus negli anni Ottanta per indicare la fuga nella sfera privata che connotava la società della DDR nel suo ultimo decennio di vita, e di cui risultano rappresentanti esemplari proprio gli abitanti della Torre: essi si sottraggono a un’ideologia onnipresente e totalitaria cercando rifugio in attività intellettuali dal chiaro connotato escapistico, quali l’ascolto di vecchi dischi, la lettura dei classici e la celebrazione dei fasti della vecchia Dresda. Tra l’altro, il verbo “türmen” significa pure “scappare”.

Tuttavia, la presenza di scenari e ambientazioni di fantasia costituisce un elemento problematico di un romanzo che ambisce a ricostruire la società della DDR nella sua totalità e nella sua autenticità e tale commistione risulterà tanto più problematica per i lettori delle future generazioni che, privi di memoria del passato, dovranno discernere da sé nel libro verità da fantasia.

La narrazione della trama vera e propria procede a rilento, affaticata da digressioni, lunghissime descrizioni e continui spostamenti da un filone della trama all’altro, cosicché ogni capitolo è suddiviso in numerosi paragrafi concernenti storie e personaggi diversi (il capitolo 69 affronta sei storie diverse nell’arco di dodici pagine!). Il romanzo è poi costellato dalle annotazioni di Meno, a cui si deve anche l’Ouverture del romanzo: con uno stile lirico e sognante, ma sempre animato dalla volontà di rigore descrittivo, Meno propone osservazioni e descrizioni che il lettore incontra in seguito nei pensieri e nei discorsi dei personaggi e si rivela dunque una sorta di secondo narratore.

A queste oggettive difficoltà di lettura si aggiunge per il lettore italiano l’inevitabile ignoranza in materia di vita nella DDR e deplorevole è in tal senso la scelta della traduttrice di ricorrere il meno possibile alle note a piè di pagina. Un apparato di note adeguato avrebbe appesantito in misura ininfluente un volume già di per sé assai corposo e si sarebbe rivelato uno strumento di consultazione prezioso per il comune lettore italiano, profano di cose della DDR. Si parte dunque dal presupposto che il lettore italiano sia in grado di comprendere una pletora di realia citati da Tellkamp, ad esempio, la “Jugendweihe” (un altro realia in lingua straniera, “subbotnik”, è invece spiegato in nota…), il “pioniere Thälmann”, la “Mitropa”, il “gruppo combattente” e via dicendo. Non vi sono note che spieghino che cosa sia la Charité o l’Auerbachs Keller, chi fossero Theo Lingen o Störtebeker, quale sia stato il significato nella vita culturale della DDR dell’Undicesimo Plenum (perché, allora, mettere una nota sul Bitterfelder Weg, peraltro posposta rispetto alla prima occorrenza, e non sull’XI Plenum?): si presuppone, poi, che il lettore abbia sentito parlare delle “barzellette di Radio Erevan” (perché poi lasciare “Sender Jerevan” e non tradurre?), capisca che con la criptica allusione a “Robert a Grünheide” ci si riferisce al dissidente Robert Havemann e con l’“aula 40” alle lezioni di Hans Mayer all’Università di Lipsia negli anni Cinquanta; si presume, inoltre, che sia a conoscenza del fatto che l’inno della SED è opera del poeta Louis Fürnberg, che conosca il significato di termini e locuzioni gergali in uso nella DDR, quali “Zona” (la DDR), “bonbon” (il distintivo del Partito), la “ditta” e “Guarda e ascolta” (entrambe indicavano la Stasi), che sappia che con il termine “Politecnico” si intende la scuola comune decennale in vigore nel sistema scolastico della DDR, ecc. ecc.

A complicare le cose si aggiungono i molti refusi, talora anche fuorvianti, l’errata trascrizione di nomi propri, le diverse traduzioni per indicare la stessa cosa (a p. 144 si parla del monumento ai “giusti combattenti”, a pag. 998 del “monumento agli Onesti Combattenti”), la mancata uniformazione di toponimi e titoli di riviste (ora in tedesco, ora in italiano), errori e discutibili scelte lessicali (ad esempio, “la luce sfottente”; il “socialismo dalle sembianze umane” anziché il ben noto “socialismo dal volto umano”; “sull’Hiddensee”, laddove sarebbe corretto “a Hiddensee”, giacché si parla di un’isola e non di un lago; gli “utopistici socialisti”, che sarebbero in realtà i “socialisti utopici”; “Losungen”, ovvero “slogan”, confuso con “Lösungen”, “soluzioni”), piccole ma significative imprecisioni (“il compagno ministro dell’Istruzione popolare”, anziché la “Compagna ministro”, giacché la carica in questione era occupata da Margot Honecker), l’incomprensibile mantenimento di alcuni termini in tedesco (perché, ad esempio, “cantava Marschallin” e non “cantava la Marescialla”  – si parla appunto del Cavaliere della Rosa –  e perché “Biblioteca Statale West”, anziché “Biblioteca Statale di Berlino Ovest”?); vi sono poi alcuni pesanti calchi dal tedesco, come “l’emerito superiore”, invece che “il capo (o il superiore) in pensione”, o “gli offrì di dissertare presso di lui”, invece che “gli offrì di laurearsi con lui” (corsivo mio) e un grave svarione, come la traduzione di “Frauenplan” con “piano femminile”, laddove si tratta, invece, di un toponimo: è, infatti, il nome della piazza di Weimar dove si trova la casa di Goethe.

Con ciò non si vuole criticare tanto l’operato della traduttrice, che ha svolto in tempi brevi un lavoro immane, quanto l’abitudine, invalsa in molte case editrici, di lesinare risorse sul delicato lavoro di revisione e correzione delle bozze, necessario per ogni traduzione e indispensabile per un romanzo fitto di riferimenti, che ambisce a rievocare una “moderna Atlantide” largamente sconosciuta al pubblico dei lettori italiani.

Paola Quadrelli

 

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