Renate Lunzer, Redenti irredenti

[Dal “Corriere della Sera” del 10 gennaio 2010. M.S.]

Claudio Magris

«Una d’arme, di lingua e d’altare, di memorie, di sangue e di cor». Nessuno pretende che nel 2011 si celebrino i centocinquant’anni dell’unità d’Italia con questi versi del marzo 1821 di Manzoni, il nostro scrittore nazionale per eccellenza. Nell’attesa della ricorrenza, l’anno prossimo vedrà presumibilmente, oltre alle discussioni sulle iniziative e i progetti di festeggiamenti e sui loro meriti o carenze, soprattutto polemiche su quell’«una» e sulle contraddizioni ed errori impliciti nel processo che ha portato all’unità d’Italia. Indubbiamente quei versi manzoniani sono messi in difficoltà dal crescente divario – non solo economico e sociale, ma anche politico, pure all’interno della coalizione che governa il Paese – fra Nord e Sud, dalle spinte verso autonomie e localismi sempre più accentuati, dalle rivendicazioni di identità etniche e linguistiche talora contrapposte al senso stesso dell’Italia unita, dalla presenza e dall’arrivo di immigrati dai più diversi paesi e dalle più diverse culture, con le contrastanti reazioni che tutto ciò suscita. Spesso parlare dell’unità d’Italia diviene un’arringa d’accusa al processo che l’ha realizzata. Se nel 1961, nella ricorrenza del centenario, prevaleva un senso forte del Paese e della Patria che poteva facilmente scadere nella retorica, ora prevale un’antiretorica nazionale, altrettanto scontata ed enfatica.

Molte critiche al processo di unificazione sono più che giustificate, purché non vengano avanzate con la supponenza di chi ignorantemente scopre l’acqua calda. La denuncia della non risolta questione meridionale – lacerazione fondamentale del nostro Paese e della sua storia – è più che giusta, ma non è una novità. Il romanzo L’alfiere di Alianello, che racconta l’impresa dei Mille dal punto di vista dei borbonici vinti, è del 1943; il cancro del trasformismo italiano, denunciato nel Gattopardo uscito nel 1958, è già presente nel capolavoro che l’ha ispirato e che è ancora più grande, I Viceré di Federico De Roberto, pubblicato nel 1894. Le prime inchieste dei grandi meridionalisti che mettono a nudo le piaghe del Sud e la sua separatezza, quelle di Franchetti e Sonnino, sono del 1875 e 1876 e il grande libro di Massimo Salvadori sul mito del buon governo e la questione meridionale è del 1960. Come ha scritto di recente in un forte libro Giorgio Ruffolo, c’è stato un Risorgimento caldo, ma anche un Risorgimento freddo. Riprendere quei temi già studiati è utile, purché lo si faccia senza superbia intellettuale e senza acredine, con quella critica al proprio Paese che dev’essere talora patriotticamente dura, ma appunto patriottica.

Tutti i governi, e quello attuale in particolare, accusano falsamente di anti-italianità chi li critica, ma la critica, per non meritare questa accusa di comodo, deve nascere dall’amore, come l’ira di Dante per la «serva Italia, di dolore ostello». In particolare, è scorretto fare un uso politico della Storia, servirsi di Garibaldi o del brigantaggio meridionale per la politica del momento. Certamente esiste un supponente dileggio dell’Italia che merita a chi se ne compiace l’accusa di «anti-italiano»; per esempio a chi, magari solo per aver trascorso un periodo in qualche università americana – cosa che ormai capita a quasi ogni studioso – credendosi perciò chissà chi, gioisce di sputare sull’università italiana. Ma anche in questo caso non si tratta solo di mancanza di carità e di rispetto, bensì, come del resto sempre ove mancano carità e rispetto, di deficit d’intelligenza. Il rapporto fra Nord e Sud è forse il più vistoso, ma non certo l’unico nodo irrisolto della storia d’Italia. Innumerevoli problemi politici, economici, sociali, religiosi si intrecciano, nel bene e nel male, alle vicende di questi centocinquant’anni e non è possibile nemmeno alludervi.

Un altro nodo, che sarà centrale nelle discussioni, è rappresentato dalla guerra civile del ‘43-45 e dallo scontro fra chi vede nella Resistenza la morte della Patria e chi invece vi vede una sostanziale ancorché contraddittoria ma liberatrice rinascita. Anche in questo caso, il mito retoricamente celebrativo della Resistenza dominante per molti anni – che, come ogni mito preso alla lettera o usato politicamente, rimuove e mistifica le contraddizioni reali – è in parte responsabile di tante denigrazioni odierne, anch’esse spesso strumentali e faziose, settariamente – e dunque retoricamente – concentrate solo sugli aspetti negativi. Talora le stesse persone che, ormai parecchi anni fa, militando in formazioni di estrema sinistra, sottacevano i crimini commessi in nome della Resistenza, ora, voltata gabbana, prosperano additando solo quei crimini. Nemmeno i partigiani erano un popolo di santi, eroi e navigatori, come il duce pretendeva fossero gli italiani, e dalla loro vittoria non è nato, come alcuni pateticamente credevano, un mondo perfetto di giustizia e di pace. Ma è nata – non solo grazie ad essi, ma anche grazie ad essi – un’Italia democratica, ed è già molto.

La Resistenza fa parte del Dna della nostra storia e non si potrà celebrare l’Italia rimuovendo o negando il ruolo che essa ha avuto nel suo destino. Per capire più a fondo il complesso retaggio che ci costituisce e le contraddizioni dell’Italia e del patriottismo, è ancor più necessario riandare a un momento tragico, rivelatore e costitutivo del sentimento di italianità: alla prima guerra mondiale o meglio alla passione patriottica con la quale gli irredentisti triestini e giuliani, allora sudditi dell’impero absburgico, hanno vissuto – in modi diversi, nazionalisti e imperialisti o democratici ed europeisti – l’attesa del congiungimento all’Italia, l’apocalissi della guerra e la gioia – presto divenuta sofferta, polemica, ma pur sempre amorosa delusione – di essere divenuti italiani.

Questo amore fedele e severo è un lievito fondamentale dell’unità nazionale. Ne ha scritto di recente – in un libro eccellente nella ricostruzione storica, nell’interpretazione etico-culturale e nell’esposizione puntuale ed ariosa, che si legge come un racconto – Renate Lunzer, una studiosa austriaca. Irredenti redenti. Intellettuali giuliani del ’900 s’intitola la traduzione italiana di Federica Marzi, introdotta da un chiarificatore saggio di Mario Isnenghi (edizioni Lint). Il libro di Renate Lunzer costituisce un affresco originale di quella grande stagione culturale triestina, attraverso ritratti nuovi e approfonditi delle sue figure più e meno note – Svevo e Saba, Slataper e Stuparich, Spaini e Bazlen, Marin e Voghera o Enrico Rocca e altri ancora – inserite nel vibrante contesto storico dell’anteguerra, della guerra e del dopoguerra.

Ma, oltre e più che una galleria di maggiori e minori protagonisti e un vivacissimo panorama storico-letterario, Irredenti redenti è un contributo essenziale alla comprensione di un momento chiave e pressoché conclusivo di quel processo di unificazione dell’Italia che ci si prepara a ricordare. Se la Grande Guerra segna per così dire la conclusione del Risorgimento – poi regredito e in parte ricompiuto alla fine della seconda guerra mondiale – è l’irredentismo a costituire, nelle sue drammatiche contraddizioni, il lievito che porta a quella conclusione e il momento fondamentale cui tornare per capire lo sviluppo della coscienza nazionale. Renate Lunzer mette in luce le due opposte anime dell’irredentismo, o meglio i due irredentismi, radicalmente diversi: quello nazionalista-imperialista, aggressivo verso le altre nazionalità e specialmente verso gli slavi, e quello mazziniano, europeista, che sogna un’Europa fraterna e democratica.

A quest’ultimo appartengono i più grandi scrittori e intellettuali giuliani, i quali combatteranno sui campi di battaglia l’impero absburgico, ma si faranno mediatori della grande cultura di quel mondo che contribuiscono a distruggere, transfrontalieri dello spirito che operano per il superamento di tutte le frontiere e si trovano a costruire le sanguinose trincee della spaventosa guerra sul Carso. La tragedia è che l’irredentismo nazionalista, culturalmente rozzo, uscirà vincitore dal grande massacro che creerà un’Europa dilaniata, feroce e sempre più fratricida. Gli irredentisti democratici sopravvissuti scopriranno, alla fine del conflitto, un’Italia ben diversa da quella che avevano sognato.

Biagio Marin, ad esempio, scopre «il solco» tra la Venezia Giulia divenuta italiana e l’Italia e la sua delusione giunge al punto di chiedersi, in una lettera a Prezzolini, «se ho ancora una patria». Si potrebbero citare molte testimonianze di questi italiani delusi, i migliori patrioti destinati a scoprire che la Grande Guerra – vissuta quale mito di fondazione e rinascita della stirpe italica, come ha scritto in un ottimo saggio Giorgio Negrelli – ha creato un’Europa terribile. Non solo gli italiani, come ha scritto Walter Chiereghin, ma gli europei in generale si risveglieranno, da questo sogno, in un incubo. Anni fa Giano Accame – già direttore del «Secolo d’Italia» e dunque ideologicamente da me lontanissimo, persona la cui civile e schietta umanità sono lieto di aver conosciuto – mi diceva, parlando della Grande Guerra, che, se allora egli fosse stato giovane, certamente vi avrebbe partecipato con entusiasmo, ma che ora – quando me lo diceva – non era affatto sicuro che fosse una scelta giusta e anzi ne dubitava fortemente.

Pure l’irredentismo democratico – l’Italia migliore – è stato vittima (e forse non poteva allora non esserlo) di quel sogno, allora comune a tutte le nazioni in conflitto, di un’Europa libera e pacifica che sarebbe nata da quella guerra che si credeva l’ultima e dalla quale si credeva sarebbe nato un uomo nuovo e fraterno. «Se sarà un maschio, chiamalo Adam – disse alla moglie incinta, partendo per il fronte, il padre del futuro storico austriaco Wandruszka – perché da questa guerra nascerà l’uomo nuovo». Come ha scritto Bettiza, la Grande Guerra è stata la catarsi di questo dramma. I volontari triestini democratici l’hanno vissuta con una coscienza progressivamente sempre più sofferta; come «cognizione del dolore», scrive Renate Lunzer.

Molti di quelli che sono tornati hanno continuato a battersi per la libertà e per la democrazia, come Giani Stuparich, persuaso di «dover rendere conto a tutti di essere rimasto vivo», esempio di limpida resistenza morale e di antifascismo. Il suo romanzo patriottico – forse fin troppo – e risorgimentale Ritorneranno fu definito, ignobilmente, dall’ex irredentista fascista Federico Pagnacco «disfattista e anti-italiano», vizi dovuti alla sua «razza non italiana» in quanto figlio di madre ebrea. Così il fascismo – esso sì anti-italiano e distruttore della Patria – ricompensa le medaglie d’oro come Giani Stuparich, fratello di un’altra medaglia d’oro, Carlo, non più tornato. «L’infelice incontro con la Storia» – come scrive commossa Renate Lunzer – ha spinto questi figli di un’Italia migliore – che, scrive Marin, era forse solo una loro esigenza morale – ad amare l’Italia «nonostante», sferzandone i lati peggiori per renderla più degna, attirandosi così l’accusa di «anti-italiani», mossa sempre dagli ipocriti ai puri. Essi hanno continuato a farsi mediatori di cultura e di legame fra i popoli, a trasmettere all’Italia la grande letteratura della Mitteleuropa distrutta.

Vent’anni più tardi, molti di essi si sono trovati ad affrontare un orrore più grande, come Ercole Miani, volontario più volte decorato nella prima guerra mondiale, vice di d’Annunzio a Fiume, irriducibile militante della Resistenza, che fu torturato dall’infame banda nazista Collotti, durante l’occupazione tedesca, senza cedere. L’incisivo, bellissimo libro di Renate Lunzer dovrebbe forse capovolgere il suo titolo, non Irredenti redenti bensì redenti irredenti, ossia tutt’altro che salvati dalla vittoria della causa per la quale avevano combattuto nel ‘15-18, ma ostinati a continuare a credere in un’altra Italia, sentendosi non solo italiani ma qualcosa di più. Sono forse loro i numi tutelari di questi nostri centocinquant’anni di storia.

Claudio Magris

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