Kathrin Schmidt, Tu non morirai

Sven Marquardt, aus der Serie Berliner Traum (1986)
dalla mostra “Geschlossene Gesellschaft – künstlerische Fotografie in der DDR” (via zalando.de)

Anna Ruchat

Tra il primo romanzo di Kathrin Schmidt – Die Gunnar Lennefsen Expedition (tradotto in italiano con il titolo A nord dei ricordi, Einaudi 2003) che in Germania ebbe un grande successo di critica e fu paragonato per la potenza barocca del linguaggio e per la capacità di combinare le storie personali e la grande Storia, al Tamburo di latta di Günter Grass – e quest’ultimo ce ne sono altri due, nonché diverse raccolte di poesia. Soprattutto però c’è un evento traumatico nella vita della scrittrice, quello che fa da sfondo al romanzo e che colpisce proprio la lingua, la parola: un aneurisma cerebrale nell’estate del 2002 (2004 nel romanzo).

Tu non morirai, pubblicato ora in italiano dal coraggioso editore Keller [naviga tra le pagine del libro], è un «racconto, aperto alle due estremità, che somiglia a un fascio di nervi scoperti: sezionato con precisione, vi si descrive ciò che si vede», così scrive la Schmidt alla fine del romanzo a proposito del Lenz di Büchner. Un’affermazione che appunto calza perfettamente anche per quest’opera spalancata alla fine come all’inizio su domande che sono sempre specifiche, parole che la protagonista-scrittrice non trova, ma che investono, sul confine tra scrittura e vita, i nervi stessi della sua storia (e della recente Storia tedesca), allargandosi in zone via via sempre più ampie, a macchia d’olio.

All’inizio del romanzo l’esistenza della protagonista (come l’autrice scrittrice e psicologa) pare cancellata dalla memoria perché cancellata è la relazione tra le parole, i nomi e le cose, le persone. Con un lento lavoro di ricucitura, soggetto a continue fughe in avanti e battute d’arresto, incertezze (grazie all’assidua presenza di familiari ed amici nonché alle innumerevoli terapie che la sostengono) la protagonista si riappropria anche delle fasi più incerte della vita che ha vissuto, nonché molto lentamente dell’uso del suo lato destro colpito dalla paralisi: Un io che si è perso, poco prima dell’aneurisma, si cerca e si ritrova anche grazie alle zone grige che rimangono al di là di una “guarigione”; macchie di sospensione che allentano tessuto fitto dell’esistenza.

Il romanzo è costruito come una sorta di diario della percezione che riguarda i primi cinque mesi successivi al risveglio della protagonista dal coma. Tra la parola mancante e la stesura del breve saggio introduttivo a una rappresentazione del Lenz di Büchner (che sancisce anche la dimissione della protagonista dal centro di riabilitazione), c’è un tempo sincopato in cui singole parole – chiamate o improvvise – si ripresentano alla memoria riportando a galla interi frammenti di vissuto. E così nella nebbia del primo risveglio compare prima di tutto la madre poi il padre, voci che lei colloca in un contesto di rumori. I rumori (come «di posate d’argento in un contenitore di latta») le riportano alla mente il matrimonio di sua sorella. Chi si sposa? È la prima domanda. Poi sente la figlia (ma non doveva essere in Inghilterra per il corso di inglese?). Il marito. I due figli maschi, adulti di cui non ricorda i nomi. Occhi chiusi, poi un occhio aperto, occhi aperti non distinguono; le persone intorno le parlano ma lei non può rispondere, pensa di sorridere gli altri vedono una smorfia. Ancora nel reparto di cure intense le viene in mente la parola afasia ma non ne ricorda il significato.

Il lettore, inchiodato al suo punto di vista, segue la protagonista nella ricerca dei nessi e con lei si sorprende e si entusiasma per le ritrovate isole di senso. Mano a mano viene a sapere che Helene Wesendahl ha cinque figli, tre femmine con il marito, due maschi, i primi, avuti da uomini diversi e assenti, nella DDR dei primi anni ottanta (ogni volta si aprono finestre sui singoli contesti, ogni volta la parola porta a evocare un frammento di mondo).

Nell’83 Helene conosce il marito Matthes che a sua volta ha due figli e che lascia la moglie per andare a vivere con lei e i suoi bambini in una casa protetta per ragazze madri. In quegli anni Helene lavora come psicologa in una struttura dello stato (si aprono anche qui finestre su asili d’infanzia o altre strutture pubbliche della ex DDR, quella della Tagesmutter ad esempio, la madre di giorno che tiene i bambini piccolissimi in mancanza di asili nido). La famiglia cambia casa più volte prima di comprare un terreno in un quartiere periferico di Berlino e costruire lì la casa in cui Helene viene portata dal marito un pomeriggio, tre settimane dopo il risveglio dal coma, quando ancora parla solo con soggetto verbo e predicato e non cammina, perché riveda la casa, i figli tutti: «Helene vede i suoi figli, tutti, e non riesce a credere che dentro di lei possa aver trovato posto tanta carne.». E dopo il pranzo preparato con cura da tutti i componenti della famiglia il marito spedisce i ragazzi a spasso e la porta a letto. Lui la penetra, lei piange. Sicuramente lui crede che sia felice, pensa lei. Helene invece sa che nell’ultimo anno è successo qualcosa che l’ha allontanata dal marito, ma non sa più cosa sia stato. Ricorda che stava per andarsene di casa, ma perché?

Mentre lei cerca nella memoria, cambia la quotidianità, dell’ospedale prima, dell’istituto di riabilitazione poi, mano a mano Helene comincia a controllare anche il suo lato destro. Sempre meno cade la saliva dall’angolo della bocca quando parla o mangia, sempre più la mano destra appoggia, stringe sulla sedia a rotelle, sempre più le parole che arrivano sono quelle giuste, precise. Il caso porta a galla altri ricordi e gli affetti che ogni giorno si ripresentano e si confermano, che si arricchiscono di nuove forme di condivisione e di intimità (anche umilianti e tristi, ma proprio per questo potenti) a formare un tessuto che nonostante il momentaneo esilio la va riassorbendo e rinsaldando. Intanto un giorno finalmente Helene ricorda un nome: Viola. È da quel nome che si diffonde una luce di incertezza su tutto l’ultimo anno di vita di Helene: vergogna e colpa agganciate dall’erotismo. Helene ha incontrato Viola in un pomeriggio di novembre del 2003 per un’inchiesta che sta facendo sulle ragioni del fallimento dei matrimoni nella sua generazione.

Viola (anche lui/lei cresciuto nella DDR, ma di origini russe) era un uomo, sposato con due figli gemelli. La sua natura femminile si era imposta prepotentemente dopo dieci anni di matrimonio lacerando quello che era stato (per ammissione della stessa Viola) un autentico rapporto d’amore. La moglie aveva tentato fino all’ultimo una mediazione ma poi, da quando lui/lei aveva deciso di farsi operare, le aveva impedito di rivedere i figli. Con una voce rimasta maschile, ormoni da prendere quotidianamente e nonostante questo le costose depilazioni (passate in un primo tempo dalla mutua), con il fard usato pesantemente per coprire i pori della barba, Viola continuava ad essere «una donna prigioniera in un corpo di uomo».

L’attrazione tra Viola ed Helene era stata immediata e reciproca. Dopo un primo incontro al mare del Nord, Helene aveva invitato Viola a casa sua, l’aveva presentata ai ragazzi e a Matthes. Lei era arrivata con un tailleur elegante, il trucco impeccabile, ma le figlie avevano reagito con diffidenza alla palese ambiguità che emanava dalla sua persona e anche l’intimità non forzata che si era ripetutamente mostrata nel corso della giornata tra Matthes e Helene, la resistenza stessa di Helene a uscire da quel suo tessuto di relazioni così compatto e sicuro, avevano spinto Viola alla ritirata. Questo, non più di questo emerge dagli esercizi di memoria, da qualche mail conservata nel computer o su un dischetto.

Molte domande si aprono ma alla fine rimane comunque una patina d’incertezza sugli ultimi mesi della vita di Helene e della sua famiglia prima dell’aneurisma: solo la sospensione del giudizio e una forma di indulgenza pietosa nei confronti del maschile come del femminile, nonché di quell’ibrido che è esplorazione dei confini tra i due, permetteranno a Helene di riprendere in mano la propria vita. Così ogni cosa riesce ad avere un suo posto, nel racconto come nella realtà, «tra l’occhio di Dio e quello razionalistico-realista» dell’uomo occidentale.

Meno barocco rispetto a quello del romanzo precedente, il linguaggio di questo libro risponde a una sorta di ritrovata ingenuità e presenta però, come già era nell’altro, continui salti sintattici, scarti temporali, cambiamenti di prospettiva che il traduttore Franco Filice riesce a rendere in italiano con profonda aderenza all’originale, senza temere nemmeno quegli sbalzi di registro che di Kathrin Schimdt sono la cifra. Se nel primo romanzo della Schmidt i confini esplorati e continuamente valicati erano quelli tra il reale e il fantastico, tra il concreto e l’onirico, sul filo di una fisicità straripante, di un erotismo pervasivo e quasi aggressivo che la lingua magistralmente rispecchiava e amplificava, in questo nuovo racconto, che fin dal titolo annuncia di aver scelto di muoversi sul limite tra la vita e la morte, tra il silenzio e la scrittura, la parola (precisa, puntuale) sembra davvero essere il coltello che separa quanto ancora è vitale da ciò che alla vita è ormai estraneo.

Anna Ruchat

Kathrin Schmidt, Tu non morirai, traduzione dal tedesco di Franco Filice, Rovereto, Keller, 2012, pp. 366

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