Nuove ‘Memorie dal sottosuolo’: Apostoloff di Sibylle Lewitscharoff

(immagine via tagesspiegel.de)

Nadia Centorbi

«Sono un uomo malato. Sono un uomo cattivo». Chi ha letto almeno una volta Memorie dal sottosuolo di Fëdor Dostoevskij non potrà certo dimenticare l’incipit di quelle confessioni febbrili, affidato all’apoditticità di un sillogismo conturbante, che si risolve in ultima istanza nell’ipertrofia psichica della vox loquens, dell’uomo del sottosuolo per l’appunto, perennemente in urto con ciò che vive al di fuori del suo io, preda di uno smanioso rovello cerebrale, prigioniero di quella tana angusta che è la coscienza svincolata da ogni legame con il mondo. Per l’uomo dostoevskijano, inchiodato come un insetto rancoroso nella sua tana interiore, «non solo l’eccesso di coscienza, ma addirittura qualsiasi coscienza è una malattia». E ciò in ragion del fatto che «l’uomo ipercosciente» è destinato a «invidiare con rancore bilioso» l’uomo «immediato», «normale», radicato sulla terra «come voleva vederlo la stessa tenera madre natura».

Anche in Apostoloff (Suhrkamp, 2009), il romanzo di Sibylle Lewitscharoff insignito nel 2009 del “Preis der Leipziger Buchmesse” e ora tradotto dalla talentuosa Paola Del Zoppo per Del Vecchio Editore, si potrà agevolmente rinvenire quella sonorità antropica del sottosuolo, intonata da una voce femminile che dal magma della sua ipercoscienza va eruttando per oltre duecento pagine sensazioni, ricordi, confessioni. La fiumana dei suoi pensieri non prorompe, tuttavia, dall’oscura staticità di un bugigattolo, bensì dal movimento, dall’esperienza di un viaggio in Bulgaria, nella quale giunge in compagnia della sorella per seppellire le spoglie del padre. Innescando vorticosi processi anamnestici, il viaggio catalizza il recupero di immagini legate al passato, destando la coscienza di colei che racconta. Raggomitolata sul sedile posteriore di una Daihatsu, in movimento per le strade della Bulgaria, la voce narrante è sollecitata al racconto dalle impressioni che ricava man mano lungo il percorso in una terra che rivitalizza ricordi lontani e con essi lontani rancori. Il livello omodiegetico della narrazione garantisce al lettore il confronto crudo e diretto non solo con l’ipersensibilità della voce narrante, ma anche con le impressioni di viaggio che procedono parallele alla narrazione. Un diario di bordo, si direbbe, nel quale però le varie tappe del viaggio disserrano vani della memoria, ingenerano confessioni, riaprono ferite mai cicatrizzate e soprattutto impongono uno scavo nelle profondità della coscienza, laddove i funambolismi difensivi dell’io sono destinati ad andare in frantumi. Primo fra tutti quello della rimozione. Un sordo dolore, non del tutto purificato dalla compassione, ma tragicamente sospeso tra il rancore e l’accusa, scorta le impressioni di viaggio della protagonista, che in Bulgaria arriva per seppellire il padre morto suicida quando lei era ancora una bambina. L’immagine del padre emerge gradatamente e si aggira tra le pagine del romanzo come uno spettro evocato con cautela; un inquietante «toc toc» ne annuncia nei diversi capitoli il suo ingresso in scena, un ingresso che non conduce alle vie del perdono o della pietà, ma solo a un odio sordo che trova espressione nella sintassi del sarcasmo.

Il pretesto del viaggio, inoltre, è tutt’altro che scontato. In età non più giovane, la protagonista, figlia di un medico bulgaro giunto in Germania nell’immediato dopoguerra, condivide con la sorella una vita spesa nell’intento di superare il lutto e la rabbia per il suicidio del genitore. A Degerloch-Stuttgart il padre era giunto poco dopo la fine della guerra, dove aveva continuato a svolgere la sua professione tra l’ammirazione generale della città e fino al sopraggiungere di una depressione che ne aveva logorato lentamente la fibra vitale, spingendolo al gesto estremo del suicidio. Voltate le spalle alla Bulgaria comunista, l’emigrante Kristo (questo il nome del padre della protagonista) non perde tuttavia i contatti con la piccola comunità bulgara raccolta a Degerloch. Dei venti bulgari che con Kristo avevano condiviso il destino dell’emigrazione in Germania sopravvive il solo Tabakoff, un ricco ottantenne dalle idee stravaganti, che decide di riportare in patria le spoglie dei diciannove compagni morti per dare loro sepoltura nel cimitero di Sofia – la sua idea, tuttavia, sembra germinare non già da spirito umanitario, ma dall’ambizione di mettere a punto il metodo della criotecnica, dal quale egli è affascinato in prospettiva di un nuovo business. All’idea di Tabakoff aderiscono non solo le sorelle al centro della vicenda, ma anche le famiglie dei bulgari defunti, che in un lungo viaggio attraverso l’Europa, affrontato in sontuose limousine e scandito da soste in hotel extralusso, raggiungono Sofia per dare sepoltura ai loro cari. Il corteo funebre che attraversa l’Europa in direzione dei Balcani rappresenta solo l’antefatto di quel viaggio che invece si colloca al centro del romanzo. Sepolto il padre, la protagonista e la sorella decidono di esplorare la Bulgaria prima di rientrare in Germania. A scortarle vi è Rumen Apostoloff, l’autista bulgaro al quale rimanda il titolo del romanzo, il «Mercurio» alato che «viaggia e nel viaggio trova la via, uno di quegli autisti bulgari disperati, che non hanno occhi per quello che crepa scivolando via dalla visuale ai lati della strada».

La sepoltura del padre, descritta senza pathos e con certa ironia, non conclude affatto un capitolo della vita della protagonista, dando l’abbrivo invece alla sua narrazione, destinata anche a profilarsi come un dialogo con i morti. La figura del padre prende corpo gradatamente, emergendo dagli squarci di un paesaggio bulgaro contagiato anch’esso da quel misto d’inguaribile decadenza e artificiosa vitalità in cui si esaurisce anche il suo ricordo. «Ridicola e brutta» è la Bulgaria agli occhi della viaggiatrice, perché ridicolo e brutto è il ricordo di quel padre sopraffatto dal mal di vivere: «la sola parola Bulgaria», confessa la narratrice, «basta, una parola d’ordine, mi causa un attacco che porta via in un secondo tutta la ragione. L’odio per il padre e l’odio per la terra si amalgamano e vengono tenuti a sobbollire a fuoco lento. Bulgaria? Padre? Un meccanismo a scatto». La «simbologia spiazzante» del nome paterno, Kristo, non annuncia alcuna redenzione né per le figlie, in modo diverso segnate dal suo suicidio, né per lui stesso, preda in vita di una malinconia destinata ad annientarlo. Se nel suicida Kristo «la via verso l’esterno era intasata», non meno intasata essa è per la voce narrante, che osserva quanto le accade attorno ora con distacco allucinato, ora con certo compiaciuto sarcasmo, carico di rancore per quella vita che le è già sfuggita di mano e continua a scivolarle via.

Il viaggio da Sofia fino al Mar Nero in compagnia di Apostoloff e della sorella, due figure non meno solitarie ma con la «via verso l’esterno» non intasata, tanto da essere presto sopraffatti dal sentimento dell’amore, si esaurisce per la protagonista in un continuo monologo: il paesaggio, le esperienze, i volti incontrati e gli stessi compagni di viaggio si assottigliano su uno sfondo appena percepibile, come corollari di quell’intimo profluvio di sensazioni scaturite dall’io narrante. Eppure, un’intima comunione spirituale aleggia tra le tre figure in viaggio per le strade desolate della Bulgaria, una comunione che non si espande fino alla reciproca interferenza del sentire, ma si effonde nei silenzi di tre destini accomunati solo dalla solitudine e dalla difficoltà di comunicare l’un l’altro i moti dell’anima.

I livelli del viaggio diventano in tal modo molteplici. Vi è in primo luogo un viaggio nei recessi della coscienza di colei che racconta, che dal viaggio fisico prende appena lo spunto per innescare un percorso à rebour alla ricerca di ciò che è stato sommerso dal tempo. Vi è un viaggio mitico, che innesca ora l’evocazione del genio poetico, di quell’Orfeo che tra le gole di Rodopi stese i famosi veli, ora il demonismo delle menadi cruente che lacerarono il mitico citaredo e il cui canto sembra ancora risuonare nei cori bulgari («non è Orfeo che risuona nei vostri cori, sono menadi, o comunque le loro ultime discendenti»). Le contraddizioni della Bulgaria, dalle quali non è esente neanche il mito, sembrano tuttavia placarsi solo nella dimensione mistica del viaggio, ovvero nell’incontro con la spiritualità ortodossa scoperta perlustrando chiese, monasteri e icone.

È in questo livello mistico del viaggio che Apostoloff (omen nomen si direbbe) acquista il suo ruolo di silente angelo custode, di guida nei recessi di una spiritualità che promette salvezza per le due compagne di viaggio condannate da un Kristo a rovescio ad un dolore che negli anni ne ha indurito la scorza, relegandole all’incomunicabilità, a quel ‘sottosuolo’ dalle vie verso l’esterno intasate. E se la muta epifania dell’oro delle icone in un monastero di campagna lungo la strada per Arbanassi riesce a scuotere la tettonica della cinica osservatrice, anche il silenzio nell’abitacolo della Daihatsu sconfina gradatamente nell’ascesi, nella vocazione alla purificazione; una purificazione che tuttavia resta solo annunciata, promessa, ma inabile a raggiungere il cemento armato di quella coscienza da sottosuolo: «quando parliamo così poco, forse in segreto ci dedichiamo a una forma di ascesi. Io però non riesco a riconoscere che porti a quell’ampliamento dell’anima che descrivono i maestri dell’ascesi […] Non trovo in me nulla di dolce o sospeso, mi sento piena di cemento armato fino all’orlo».

Salutato come un successo, il terzo romanzo della Lewitscharoff non si presta a definizioni univoche. Familienroman da un canto, diario di viaggio dall’altro, Apostoloff seduce per il ductus nervoso, per la sensibilità biliosa e al contempo poetica della voce narrante che con l’autrice condivide non poco. Lewitscharoff (classe 1954), da oltre dieci anni nota al pubblico tedesco (il suo esordio avviene nel 1998 con il conferimento del prestigioso Ingeborg-Bachmann-Preis per il racconto Pong), ha al suo attivo diversi racconti, saggi, pezzi teatrali e quattro romanzi (Montgomery, 2003; Consummatus 2006; Apostoloff, 2009; Blumenberg, 2011). Con la figura del romanzo Apostoloff l’autrice condivide non poco: le origini bulgare del padre, un accademico stimato e poi suicida, e l’infanzia a Stoccarda. Il Familienroman e l’autobiografia cedono il posto ad un percorso di scrittura affascinante, nel quale a dettar legge è una parola che si abbandona volentieri alla malia di tutte le sonorità possibili dell’animo umano, scavando voluttuosamente nei recessi della coscienza per farne vibrare le corde con ogni timbro.

Encomiabile, certamente, il lavoro della traduttrice italiana, che ha creato sullo stile personalissimo della Lewitscharoff (si pensi alla sentenza ormai proverbiale del popolare critico letterario Denis Scheck: “Diese Frau kann Sätze schreiben, die wie Schiffschaukelfahren sind!”), caratterizzato da un ductus altamente evocativo, nel quale l’humour amaro da sottosuolo va mescendosi in modo calibrato con la lievità di timbri poetici, uno stile autonomo. Ciò che rende affascinante la traduzione della Del Zoppo è, per l’appunto, la messa in atto di uno stile altrettanto personale: il confronto con la versione originale di alcuni passaggi testuali induce a riflettere sulle scelte di una traduttrice che ha dovuto convertire, talora con certa ammirevole audacia, la piattezza di una traduzione letterale in una riscrittura che si segnala per levità linguistica e uniformità stilistica.

Nadia Centorbi

Sybille Lewitscharoff, Apostoloff. Trad. it. di Paola Del Zoppo, Del Vecchio Editore, Roma 2012, pp. 240, € 14,00

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