Dell’inutilità di Kafka

Pierre Bourdieu (via www.lesinrocks.com)

[Un vecchio testo, uscito sulla rivista Il funambolo di Trento, n. 8, dicembre 2008. M.S.]

Michele Sisto

Kafka non serve, non aiuta. È questa la sentenza pronunciata dal filosofo Günther Anders a conclusione del suo saggio-processo del 1951, Kafka: pro e contro. A noi, che oggi riconosciamo l’opera di Kafka come uno dei culmini della letteratura universale, il verdetto di Anders appare spropositato, sconcertante; ma quando fu pronunciato non appariva tale, era anzi condiviso da molti, e non solo nell’ambito della critica di ispirazione marxista. Vediamo i principali capi d’accusa.

Pur avendo il merito straordinario di averci dato, insieme a Marx, la più compiuta rappresentazione di un mondo totalmente alienato – argomenta Anders – Kafka è «un autore filosoficamente e moralmente inutilizzabile», perché dà per scontato che quel mondo abbia sempre ragione e chi ne è escluso sia sempre nel torto. Il suo messaggio morale è, in ultima istanza, «sacrificium intellectus» e il suo messaggio politico «mortificazione di se stessi». Anche il linguaggio di Kafka, un «tedesco burocratico trasfigurato», non è altro che «la lingua di chi non si sente legittimato a parlare in modo diverso dal postulante davanti allo sportello dell’autorità». In estrema sintesi: l’imputato, Franz Kafka, è accusato di non criticare mai lo stato di cose esistente; anzi, di più, di contribuire a legittimarlo, con il suo ostinato desiderio di essere ammesso in un mondo che pur presenta come assurdo.

Sono accuse pesanti, quelle di Anders, che appaiono sproporzionate per le spalle di quello che in fondo è solo uno scrittore, e che per di più un’oleografia ormai consolidata presenta come un ometto pallido e macilento, un «amico fragile» incapace della più timida ribellione. Ma nel dopoguerra il paesaggio di un’Europa messa a ferro e fuoco dalla furia nazionalsocialista dava agli argomenti del filosofo la persuasività dell’evidenza, e ancora nel 1983 Primo Levi confermava indirettamente quel verdetto, definendo Il processo, che stava traducendo in italiano, un libro «patogeno».

E tuttavia Anders non propone, come aveva fatto provocatoriamente nel 1946 la rivista del Partito comunista francese «Action», di «bruciare Kafka». Concludendo il suo processo-saggio invita invece a leggere Kafka in negativo, a farsene un monito: «Il disegno, da lui eseguito, del mondo come non dovrebbe essere; il disegno degli atteggiamenti che non possono essere i nostri – questi abbozzi, posti nelle nostre anime come segnali di pericolo, saranno utili». Non serve a nulla bruciare Kafka, scrive Anders, occorre invece imparare a «comprenderlo a morte».

Sembra raccogliere questo invito, a distanza di decenni, il sociologo francese Pierre Bourdieu, nelle sue Meditazioni pascaliane. Il primo passo per «comprendere» fino in fondo Kafka, osserva Bourdieu, sta nel riconoscere il realismo delle sue opere: «Dietro il suo apparente carattere di stra-ordinarietà, il mondo sociale evocato dal Processo potrebbe rappresentare solo il limite di molti stati ordinari del mondo sociale ordinario». Il punto è capire perché gli individui non si sottraggano a questa condizione di arbitrio assoluto, come K. non si sottrae al processo né l’agrimensore alla burocrazia del castello.

In questo sta l’utilità di Kafka: egli ha capito e descritto come nessun altro il «terribile gioco di società in cui si elabora il verdetto del mondo sociale, questo inesorabile prodotto del giudizio innumerevole degli altri». K. e l’agrimensore stanno al gioco, noi tutti stiamo al gioco, perché attraverso «l’investimento in esso e il riconoscimento che può dare la competizione cooperativa con gli altri, il mondo sociale offre agli umani ciò di cui sono più completamente sprovvisti: una giustificazione per esistere». La ricompensa, quale che sia l’esito del processo, consiste nell’uscire dall’indifferenza: «essere attesi, sollecitati, oppressi da obblighi e impegni non significa soltanto essere strappati alla solitudine o all’insignificanza, bensì anche provare, nel modo più continuo e concreto, il sentimento di contare per gli altri, di essere importanti per loro, quindi in sé, e trovare in quella sorta di plebiscito permanente che sono le testimonianze incessanti di interesse – richieste, attese, inviti – una sorta di giustificazione continuata di esistere».

Kafka è terribilmente utile, perché ci svela una volta per tutte che a dare senso e significato alla vita dell’uomo non è Dio, o qualche istanza metafisica, ma la società. Quando però sembra suggerirci che le regole del gioco sociale sono immutabili e vanno accettate così come sono, allora rischia di diventare «inutilizzabile», come sentenzia Anders, o «patogeno», come testimonia Levi. Sta a noi dunque fare un passo ulteriore, integrando la verità che l’opera kafkiana ci consegna. Non soltanto, infatti, è vero che il singolo ha bisogno del riconoscimento del mondo, ma è vero anche il reciproco: che il mondo ha bisogno del riconoscimento del singolo. Il castello esiste anche perché l’agrimensore, scegliendo di rispondere alla chiamata, ha accettato di entrarvi; se mai decidesse tornare sui suoi passi, di andarsene, l’intera rocca crollerebbe alle sue spalle. Ciascuno di noi – questa è la lezione di Bourdieu – è un componente del mondo sociale e può dunque, in una certa misura, deciderne le regole. Chi partecipa a legittimare il mondo, ha anche il potere di trasformarlo.

Michele Sisto

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10 Responses to Dell’inutilità di Kafka

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  2. cacioman says:

    Non ha molto senso porsi il problema se un’opera artistica sia utile o meno (come non lo ha per tante altre cose; es. un paesaggio; un paesaggio è utile? né no né sì, sta lì e ci suscita qualcosa).
    Se uno proprio uno deve esprimersi, direi che Kafka (o la poesia o anche un cinepanettone) è totalmente inutile ma è proprio questo a renderlo utilissimo.

  3. La condizione naturale di Kafka è l’esilio: fuori dal mondo, fuori dalla fertile Canaan. Lui appartiene semmai alla famiglia degli anacoreti che abitano il deserto, soprattutto il deserto della Parola. Se scrivere è un modo di pregare, allora la parola di Kafka non descrive, e neppure edifica, ma brucia. La domanda del settimanale ‘Action’ (Dobbiamo
    bruciare Kafka?), per quanto provocatoria, era in fin dei conti pertinente: le pagine di K. sono già il turibolo in cui si consuma ogni struttura fattuale, il mondo, il tempo, l’identità. E il rogo, un contrappasso analogico.

  4. Carlo says:

    consiglio di associare questo pezzo a quest’altro http://www.minimaetmoralia.it/?p=9456 . credo che la conclusione di Michele Sisto sia abbastanza kafkiana, nel senso in cui l’intende Giorgio Fontana nel pezzo appena indicato. io leggo provocazione estrema dove altri vedono moralismo. Giorgio Fontana dice bene, lui lo scarafaggio, non finge di esserlo. In questo l’elemento sacrificale è un macigno irremovibile nella sua letteratura. Molto riporta all’assurdo di Camus.

  5. michele sisto says:

    Ach. Nel pezzo qui sopra avevo scritto che Levi nell’83 traduce “La metamorfosi”, mentre in realtà traduce “Il processo”. Ho corretto il lapsus. Grazie a Anna Baldini per avermelo segnalato.

  6. Daniel says:

    il dibattito culturale intorno all’utilità della letteratura (in tutte le sue essenze: poesia, prosa, saggio, romanzo, novelle ecc) è un tema molto dibattuto. Nell’ormai interminabile diatriba letterati VS scienziati si è sempre cercato di screditare l’ “altro” con tesi ed idee che poi, ad uno sguardo più attento, risultano vuote e banali. Personalmente non ritengo un tale dibattito legittimo, in quanto sia la poesia che la scienza offrono preziosi strumenti per guardare e comprendere meglio il mondo. In tale ottica, però, penso che la letteratura (e chiunque ne usufruisca) abbia un vantaggio non da poco: lo scrittore, il poeta, il “Bücherwurm” ha un’immagine del mondo mitigata e plasmata dalla propria interiorità e dunque sa comprendere il mondo e il posto che egli stesso ha nell’universo (sa quindi entrare in contatto con la sua Weltanschauung). Tale capacità universalizzante di unificare l’esterno (il mondo) con l’interno (sé stessi) la scienza, finora, non è stata in grado di donarla

    Tutto questo preambolo per dire che secondo me la letteratura è utile, anzi INDISPENSABILE, per comprendere noi stessi e il mondo che ci circonda. Chiunque legga il processo riuscendo ad immergersi nelle particolari condizioni storico/sociali dal quale è scaturito, può comprendere e venire in contatto con l’interiorità del signor K., con le sue paure e le sue angosce. Una volta che si è riusciti a comprendere il signor K., dunque, si comprende benissimo anche noi stessi. Grazie ad un’opera letteraria riusciamo a comprendere meglio noi stessi, qui sta la grande utilità di Kafka e della letteratura in generale. Non in ultimo reputo indispensabile la letteratura in virtù della sua spontanea abilità di unire e rendere tutti fraternamente uguali, sullo stesso piano. La sensibilità che scaturisce dalla letteratura investe tutti coloro che la praticano o anche soltanto chi la ama; Qui sta un’altra fondamentale virtù della letteratura. Per spiegare meglio ciò che intendo cito l’incipit del Gespräch über die Poesie di F. Schlegel che mi pare esplichi in pieno tale forza

    “La poesia rende amici e unisce con legami indissolubili tutti gli animi che la amano. Cerchino pure nella vita le cose più diverse, disprezzi l’uno ciò che l’altro ha di più sacro […]: in questa regione sono, malgrado tutto, uniti e in pace grazie ad una superiore forza magica. Ogni musa cerca e trova l’altra, e tutte le correnti della poesia sfociano insieme nel grande mare comune”

    DANIEL

  7. antonio campitelli says:

    La discussione sull’utilità della letteratura così come della poesia potrebbe essere pericolosamente estesa a tutte le espressioni artistiche. La corsa verso la cosiddetta “modernizzazione” della società in nome di un presunto “progresso” attraverso le varie tappe che vanno dall’industrializzazione del XVIII secolo, attraversando il capitalismo, fino al virulento consumismo di oggi hanno sempre più relegato l’arte al ruolo di oggetto, di prodotto utile o meno alle istanze sociali. Il catalizzatore sociale di questo processo è stata la borghesia che è vissuta nella insuperabile contraddizione tra il realismo del quotidiano “oggettivo” e l’altrettanto suo legittimo desiderio di produrre arte. Proporre questo quesito è certamente attuale ma insano e fuorviante. La letteratura non può essere utile anzi sarebbe sospetta se lo diventasse. Il desiderio in senso pasoliniano costringe l’autore a scrivere, se questo desiderio sia esattamente il nostro o interpreti “utilmente” le nostre istanze è assolutamente secondario.

  8. Valerio Gigliotti says:

    Theodor Adorno, in uno dei suoi più usati – e spesso abusati – ‘Maxima’ Moralia, scriveva, tra l’altro, «Kunst ist Magie, befreit von der Lüge, Wahrheit zu sein» (Minima Moralia, 143, In nuce). L’aforisma che introduce una celebre riflessione estetica del filosofo è noto, e già per sé solo sarebbe sufficiente a corroborare i dubbi di chi continua a chiedersi se la letteratura possa o meno definirsi ‘utile’ nel Real-Welt. Ma anche a coloro che ne riconoscessero la privilegiata funzione ermeneutica per una lettura (soggettiva, prospettica, performativa? Non importa, in questa sede…) della realtà, l’affermazione di Adorno – se decontestualizzata – potrebbe far storcere il naso su alcuni esempi di ‘accanimento critico’ che esperimenti come quelli ricordati nell’articolo di Michele Sisto che apre questo forum talora suscitano. Dunque forse non inutile Kafka, ma certamente inutili Anders, Levi, Bourdieu e il loro acuto recensore.
    Meno nota è invece la conclusione del discorso di Adorno, che rimette in gioco – e alla grande – la legittimità delle considerazioni dei nostri quattro ‘giudici’ in questo ‘metaprocesso’ di sapore kafkiano, come qualcuno ha già notato:

    «Das Tröstliche der großen Kunstwerke liegt weniger in dem, was sie aussprechen, als
    darin, daß es ihnen gelang, dem Dasein sich abzutrotzen. Hoffnung ist am ehesten bei
    den trostlosen.
    Kafka: der Solipsist ohne ipse.
    Kafka war ein eifriger Leser Kierkegaards, aber er hängt mit der
    Existentialphilosophie nur so weit zusammen, wie man von »vernichteten Existenzen« spricht.
    Der Surrealismus bricht die promesse du bonheur. Er opfert den Schein des Glücks,
    den jegliche integrale Form vermittelt, dem Gedanken an dessen Wahrheit auf». (Ibidem, corsivo mio).

    Tralasciando le implicazioni di questo passaggio sul più ampio dibattito circa l’utilità o speculatività della letteratura, improprie in questa sede, vorrei soltanto annotare qualche riflessione che mi viene suggerita in margine alla recensione di Michele Sisto.

    Non è un caso che Adorno, a un quarto di secolo di distanza dalla pubblicazione del Processo e del Castello, ricordi Kafka a paradigma di coloro «che sono riusciti a sfidare l’esistenza (il Dasein)»: ma perché la risposta alla determinazione dell’essere in rapporto all’arte (che è l’altra faccia della medaglia della domanda di Anders) è affidata, con un paradosso solo apparente, allo pseudo-kierkegaardiano «solipsista senza ipse»?
    Non credo sia tanto per il suo essere narratore di «esistenze annichilite», quanto piuttosto perché nella sua letteratura si evidenzia come «Hoffnung ist am ehesten bei den trostlosen». Ed è su questo accento che mi permetto di chiosare la conclusione di Sisto, nel momento stesso in cui ne sottoscrivo e accolgo – sia pure solo in parte – le premesse bourdieusiane.

    Sì, Kafka è «terribilmente utile»: utile perché ci illustra « il terribile gioco di società in cui si elabora il verdetto del mondo sociale», utile perché «dietro il suo apparente carattere di stra-ordinarietà», il mondo sociale che viene descritto nella sua prosa «potrebbe rappresentare solo il limite di molti stati ordinari del mondo sociale ordinario». Meno utile trovo invece leggere in questo “gioco della società” che ha come premio «il riconoscimento che può dare la competizione cooperativa con gli altri» una «giustificazione per esistere» che altrimenti – si lascia intendere – non si troverebbe.

    Se questa immagine autoreferenziale del mondo kafkiano, fatto di regole sociali convenzionali e immutabili, assolutamente coerente nella sua postmodernità, può essere letta nel Processo o nel Castello o nelle Metamorfosi, non di meno se ne distanzia in parte nel primitivo Kafka del Der Verschollene (pubblicato da Max Brod col titolo Amerika), composto tra il 1911 e il ‘14 e rimasto, come gli altri, incompiuto. Anche qui le date sono significative: sono gli anni in cui vengono composti parallelamente le Metamorfosi (1912) e Der Prozess (1914), quindi siamo al di sopra di ogni sospetto di ingenuità, eppure il protagonista, un altro “K”, il sedicenne Karl Rossmann, sembra essere l’Ur-Gestalt innocente e idealista dei futuri Josef K. e K., e di altri personaggi, solo più attempati e ‘borghesi’. Non si può certo dire che Amerika sia privo del riferimento sociale realista, nel suo affresco lucidissimo e profetico – ma al contempo ironico – della deriva del capitalismo statunitense; ritroviamo in esso tutti i topoi kafkiani: dal labirinto ansiogeno della nave, al tema dell’Esodo ebraico dell’emigrante, alla sopraffazione dell’incalzare degli eventi rovinosi e tragici. Eppure Karl ha una freschezza tutta orientata ai grandi ‘ideali’ di giustizia (La Statua della Libertà impugna una spada, in luogo della fiaccola…), di impegno, di bontà che non ci consegnano certo un personaggio oleografico, ma combattivo e titanico che forse, proprio per questa sua purezza consapevole, venata già di consapevolezza (come il fantasma-bambino del racconto Essere infelici, della coeva raccolta Betrachtung), ci lascia ancora più con l’amaro in bocca quando – come di consueto – lo vedremo fallire, ostacolato e frustrato in tutte le proprie aspirazioni al bene. Fa rabbrividire per la sua attualità uno dei dialoghi finali tra Karl e un giovane studente lavoratore, che lo disilluderà sul ‘dream’ americano:

    «Anch’io volevo studiare» disse Karl […]
    «Ah, sì?» disse lo studente, e non si capiva bene se si fosse rimesso a leggere o se fissasse distratto il libro, «può esser contento di aver abbandonato gli studi. Io stesso già da anni studio solo per coerenza. Di soddisfazioni ne ricevo poche, e di prospettive per il futuro ancora meno. E che prospettive dovrei avere? L’America è piena di dottori cialtroni».

    Eppure in Karl, ma a ben leggere anche in Josef e K. la risposta all’ingiustizia è meta-sociale, è una risposta di valore trascendente, che svincola, in fondo, tutti gli uomini dal determinismo – solo apparente – del ‘gioco sociale’, giocato su regole immutabili che tendono ad escluderli. È la verità che sacrifica, nella letteratura surrealista – ce lo ricorda Adorno – la felicità.

    Ed è qui che l’analisi di Bourdieu, riportata nella recensione, mi pare insufficiente, regressiva:

    «essere attesi, sollecitati, oppressi da obblighi e impegni non significa soltanto essere strappati alla solitudine o all’insignificanza, bensì anche provare, nel modo più continuo e concreto, il sentimento di contare per gli altri, di essere importanti per loro, quindi in sé, e trovare in quella sorta di plebiscito permanente che sono le testimonianze incessanti di interesse – richieste, attese, inviti – una sorta di giustificazione continuata di esistere».

    La tradizione, peraltro non originalissima, che va da John Donne («No man is an island, entire of itself; / Every man is a piece of the Continent») a Shopenhauer («Was die Menschen gesellig macht, ist ihre Unfähigkeit, die Einsamkeit, und in dieser sich selbst zu ertragen»), della «social catena» che dà un significato all’uomo nel momento in cui, riconoscendone la legittimità, quasi lo porta ad esistenza, non può, a parer mio, prescindere dal contenuto di quel significato; in altri, termini, cioè, non può sottrarsi al rimandare all’orizzonte metafisico, alla trascendenza, sia pure sotto forma di semplice tensione all’oltre. E in questo la letteratura è utile, eccome («Künstlerische Produktivität ist das Vermögen der Willkür im Unwillkürlichen», esordisce Adorno!). Ma leggiamo ancora il primo Kafka, eloquentissimo:

    «Ma chi vive abbandonato e pur vorrebbe ogni tanto mantenere in qualche modo un rapporto col prossimo, chi, tenendo presente i mutamenti della giornata, del tempo, delle relazioni professionali e d’altre simili cose vuol veder comunque un qualsiasi braccio, a cui potersi attaccare – non potrà fare a meno, per molto tempo, di una finestrina. E anche se proprio non cercasse nulla e si avviasse verso il davanzale soltanto come un uomo stanco che leva continuamente gli occhi dal pubblico al cielo, e non volesse e se ne stesse con la testa un po’ spostata indietro, pure giù i cavalli lo trascinerebbero con sé nella sequenza delle vetture e del fracasso e così finalmente verso la concordia umana» (La finestrina, 1906-1909).

    È nelle secche di questo orizzonte di ‘gioco sociale’ senza scopo – cioè senza contenuti – ma di sole regole – cioè di convenzioni di riconoscimento – che la società di Kafka, come la nostra, rischia di perdersi, o si è già perduta.

    Quel che conclude Michele Sisto – «Non soltanto, infatti, è vero che il singolo ha bisogno del riconoscimento del mondo, ma è vero anche il reciproco: che il mondo ha bisogno del riconoscimento del singolo» – è quindi vero, ma si fonda sul presupposto che le regole del gioco giocato siano condivise, non esclusive, come era in Kafka, come purtroppo è ancor di più oggi. Chi si oppone alle regole sociali riconosciute dalla maggioranza proponendone altre fallisce, perché rimane solo. Ma è anche vero che «Man ist allein mit allem, was man liebt» (Novalis). E forse è proprio questo il «passo ulteriore» che Sisto suggerisce.

    Valerio Gigliotti

  9. Michele Sisto says:

    Caro Valerio, mi preme risponderti subito (sulle interessanti considerazioni di altri vorrei tornare più avanti), perché hai individuato con estrema precisione l’elemento più problematico della posizione sociologica (e filosofica) di Bourdieu, non solo della sua interpretazione di Kafka. E te ne sono molto grato.

    Bourdieu ci descrive il funzionamento di una società senza Dio, o meglio della società “al netto” di ogni metafisica, di quelli che tu chiami «grandi ‘ideali’ di giustizia, di impegno, di bontà» (a proposito di Karl Rossmann), oppure «aspirazioni al bene», «tensione all’oltre», o ancora, citando Novalis, «tutto ciò che si ama». È vero: nella sua descrizione del mondo sociale Bourdieu lascia da parte ogni riferimento a “valori”, “ideali” o anche semplicemente a una “visione del mondo positiva” in grado di dare, soggettivamente, un senso alla vita. Ciò che gli interessa mettere in luce non è una verità metafisica, ma la verità del gioco sociale e del suo funzionamento. E il gioco sociale è, secondo Bourdieu, una perpetua lotta la cui posta in gioco sono le stesse regole del gioco. Ciascuno di noi – ciascun attore sociale –, per affermare se stesso, tende a cambiare le regole a proprio favore, a trasformare il mondo a propria immagine. Se Bourdieu non propone una propria “visione del mondo positiva”, un proprio “credo” (ma si veda la sua proposta di un «corporativismo dell’universale», alla fine delle Regole dell’arte), non è perché non l’abbia, bensì perché non gli interessa tanto affermare il proprio “credo” quanto mostrare come funziona la negoziazione sociale tra i diversi “credo” in concorrenza tra loro. Gli interessa mostrare che ciascuno di noi – ciascun attore sociale – ha più potere di quanto in genere non immagini: un potere circoscritto, limitato, condizionato da contesti, da discorsi, dal dominio che abbiamo incorporato, ma pur sempre un potere.

    Trovo che questa sua visione non sia «insufficiente» o «regressiva». Certo è parziale, nel senso che programmaticamente, ma in modo del tutto consapevole, non contempla l‘aspetto “religioso” del problema, la domanda se il senso della vita non venga da qualcosa di intrinseco alla vita stessa (un’energia divina, una legge naturale, ecc.). Come Marx, Bourdieu non prende posizione né a favore né contro; semplicemente, si pone un altro problema: capire come funziona la storia, la società, quali sono (se ci sono) le leggi e le possibilità del cambiamento. E ci dice che ci sono. Il che è molto liberante e «progressivo».

    Kafka dunque, potremmo dire, ci mostra il gioco sociale e le sue regole, ma non ci mostra il potere che pure ciascuno ha e può esercitare, anche i suoi personaggi. Se Josef K., quando i due messi giudiziari lo vengono a prendere nella sua stanza, anziché vestirsi e seguirli, saltasse dalla finestra, avremmo una storia diversa (probabilmente una storia kitsch fatta di fughe rocambolesche e avventurosi inseguimenti, ma una storia altrettanto legittima e ricca di potenziale di identificazione, come insegna il cinema hollywoodiano). Quello che è affascinante e perturbante dei testi di Kafka è proprio che i suoi personaggi non saltano dalla finestra, non si sottraggono, stanno al gioco e, standoci, consentono di rivelare i meccanismi più segreti del gioco stesso. Che Karl, K., Josef K. e gli altri lo facciano in nome di un proprio “credo” è secondario, non solo per Bourdieu, ma anche per lo stesso Kafka. Il quale altrimenti si sarebbe preoccupato, piuttosto, di formulare in termini positivi questo “credo”, come fanno Tolstoj, Brecht e molti altri non meno “grandi” di lui. Foss’anche, questo “credo”, il walseriano starsene ai margini, opponendo resistenza proprio col non opporre alcuna resistenza: un “credo” della marginalità o dell’auto-negazione che boicotta il gioco del mondo rifiutandosi di partecipare a quella perpetua lotta che Bourdieu ci descrive. Ciascuno di noi può avere un ideale, una tensione metafisica, un Dio, che dà un significato alla sua esistenza; ma, ci dice Bourdieu, la società non ha Dio, la società è Dio: un dio spinoziano, un dio che è in ciascuno di noi. Non c’è dunque opposizione tra singolo e società, ma partecipazione. La visione romantica di un Novalis, che invece insiste su questa opposizione e sull’aristocratico isolamento del singolo, mi sembra da rifiutare: non solo perché non regge alla verifica dei fatti, ma perché, nell’esaltare l’isolamento, lo produce.

    «Chi si oppone alle regole sociali riconosciute dalla maggioranza proponendone altre fallisce, perché rimane solo», scrivi. È vero, in parte, ed è anche un grande tema della letteratura, da Stendhal a Thomas Bernhard; ma non è necessario. Non viviamo (ancora) in un mondo distopico alla 1984. Chi si oppone alle regole dominanti rischia certo la marginalità, la solitudine, la nevrosi. Ma rischia anche di cambiarle, le regole. Anche attraverso (o nonostante) gli errori e i fallimenti. È stato fatto in passato, continua a essere fatto oggi, da tutti coloro che non si arrendono all’alienazione, all’individualismo, al cinismo, all’economicizzazione di ogni aspetto della vita. Continua ad essere fatto da molti, nelle loro diverse “postazioni” sociali, nei diversi ambiti della vita di ciascuno: dalla famiglia all’università, dal parlamento agli ospedali, dalle aziende ai movimenti sociali, ovunque. Bourdieu ci dice, in sostanza, che vale la pena continuare a farlo, che abbiamo delle chance, soprattutto se sappiamo allearci, sostenerci vicendevolmente. E se a sostenerci in questa tensione c’è anche un Dio o un ideale, la natura o perfino la letteratura, tanto meglio: significa che le fonti da cui la nostra esistenza trae significato sono molteplici. Ma nessuna sarebbe sufficiente a tenerci al mondo se fossimo davvero soli, e privi del riconoscimento degli altri, magari pochi, gli happy – o unhappy – few. Questo neanche Kafka lo nega ai suoi personaggi.

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