Dalla parte del torto

[Pubblico qui il discorso che ho tenuto in Friuli il 28 aprile 2012 per l’inaugurazione della mostra fotografica di Elena Ianni e Enrique Carrasco Affinché io non cada dal tuo cuore: la dignità ribelle del popolo tseltal, Chiapas, Messico, organizzata al Museo del territorio di San Daniele dal Circolo fotografico Ernesto Batticelli. Il discorso non ha molto a che fare con la letteratura tedesca, ma un po’ sì, perché tra le altre cose si parla di Adorno, degli esuli tedeschi negli Stati Uniti, e di Brecht, al quale ho rubato anche il titolo. La foto qui sopra è di Elena Ianni. M.S.]

Michele Sisto

Quando Elena mi ha chiesto di venire a San Daniele e di partecipare alla presentazione di questa mostra la prima domanda che mi sono posto è stata: a che titolo potrei parlare di fotografie? di Chiapas? di cose che conosco poco o non conosco affatto? Ma Elena non era per nulla preoccupata di questo. Le sue indicazioni erano chiare, e spiazzanti: tu non devi parlare delle fotografie, e neanche del Chiapas, a quello penso io. Parla di letteratura, parla di noi.

In effetti il mio mestiere, se così si può dire, è occuparmi di letteratura. Credo che qualcosa nel mio modo di occuparmene abbia fatto pensare a Elena, che qualche volta mi ha sentito parlare in pubblico e in privato, che un certo mio discorso, sul quale da tempo cerco di organizzare le idee, potesse essere adatto all’occasione. Questo discorso si può sintetizzare così: alcuni dei più grandi scrittori degli ultimi due secoli hanno fatto di tutto per impedire che il mondo diventasse così come lo conosciamo oggi. Detto altrimenti: uomini e donne come Leopardi, Tolstoj, Brecht, Pasolini o Christa Wolf (ma se ne potrebbero citare moltissimi) sono stati acerrimi nemici di quella cosa che a me sembra appropriato chiamare «modernità capitalistica». 

Dire che cosa sia la modernità capitalistica, definire le sue caratteristiche, sarebbe lungo e complesso, anche se non necessariamente noioso. Prenderò quindi una scorciatoia, partendo dalle foto esposte e da una piccola discussione che ho avuto con Elena a proposito di una di queste. È una foto che mostra un bambino piegato su una panca di legno, addormentato, vestito di abiti laceri, un grumo di muco tra le narici. Elena, che in Chiapas c’è stata, non avrebbe voluto esporre la foto, perché secondo lei «mette in mostra la miseria». Io, che in Chiapas non sono stato, ho osservato che anche le altre foto «mettono in mostra la miseria», che non vedo differenza. (E poi sia il bambino che la foto sono molto belli). Lo sguardo di Elena è senz’altro più vicino alla gente del Chiapas, ai tseltal; il mio è uno sguardo distante, che tende per forza di cose a generalizzare. Lasciando da parte la distinzione filosofica tra povertà e miseria, secondo la quale la prima è una condizione materiale e la seconda è una condizione dell’animo (anche i ricchi possono essere miseri), il mondo che appare ai miei occhi è un mondo povero. Anche nelle altre foto, che poi ho passato in rassegna, i miei occhi non ritrovano i segni familiari della modernità, il paesaggio che vedo dalla mia finestra, o quando cammino per le strade della mia città, in Italia: nelle foto del Chiapas i miei occhi non vedono case di dieci piani in cemento armato, non vedono strade asfaltate, manifesti pubblicitari, vetrine di negozi, telefoni cellulari, automobili, e nemmeno libri. Tutte queste cose in realtà ci sono, in Chiapas, solo in misura diversa e distribuite in modo diverso. Nelle foto si vedono cappelli da baseball, t-shirt stampate, scarpe di marca e orologi da polso. Ma il paesaggio, anche quello umano è, nel complesso, molto diverso. Assomiglia a paesaggi che in Italia erano ancora familiari una cinquantina d’anni fa.

Questo non vuol dire che in Chiapas la modernità capitalistica non si arrivata, che non ci sia. C’è eccome, e c’è stata da subito, come ricorda Giovanni Arrighi in un bellissimo libro che prova a raccontare com’è cambiata la storia del mondo da quando esiste capitalismo, ovvero quella particolare organizzazione della società per cui lo scopo ultimo del lavoro non è più produrre beni bensì produrre denaro, capitale. Arrighi dice che la conquista delle Americhe è stata fin dall’inizio una delle componenti – allo stesso tempo una con-causa e un effetto – della nascita del capitalismo, che peraltro è avvenuta in Italia, tra Firenze, Venezia e Genova, a partire dal XIV secolo, e quindi grossomodo insieme alla letteratura italiana, con Dante, Petrarca, Boccaccio. Il Messico dunque è parte del mondo capitalistico più o meno da quando esiste il capitalismo: semplicemente vi ha una posizione diversa dall’Italia, non dominante, ma dominata.

Nelle foto si vedono però altri elementi che suggeriscono un modo di vivere in parte vicino, in parte lontano dal nostro. Si vedono strade di terra battuta, abiti tessuti a mano, tavole e sgabelli di legno, maiali, strumenti musicali, fotografie di persone care, candele, e molti alberi, fiori, semi, frutta. Viene da chiedersi, come credo venga da fare a chiunque si trovi a vivere per qualche tempo in un paese, come si dice, della periferia del mondo, se siamo più felici noi o siano più felici loro. È la stessa domanda, peraltro, che si sono posti i viaggiatori provenienti da nazioni più sviluppate dell’Italia visitando il nostro paese, a partire da Goethe, Stendhal e Gogol’ fino agli americani negli anni ’60 del Novecento: gran parte di loro considerava gli italiani più felici, più spontanei, perché più vicini alla natura. Ma torniamo alla domanda: sono più felici i tseltal o siamo più felici noi?

Sull’«Unità» di qualche settimana fa è stato ripubblicato un articolo di Ernesto Balducci, del 1991, che inizia così:

È passato a trovarmi un giovane medico che è solito trascorrere sei mesi l’anno nelle tribù indie dell’Amazzonia, alcune delle quali ferme ancora all’età della pietra. Il loro destino è l’estinzione. Sopraffatte di anno in anno dall’avanzata della civiltà tecnologica cui non vogliono adattarsi perché è, ai loro occhi, una inaccettabile barbarie. L’amico aveva con sé una giovane india che invece ha tentato, senza infedeltà alla sua gente, la via della sopravvivenza: è studentessa all’Università di San Paolo. Le ho chiesto: che impressione le fa il nostro sistema di vita? Ha sorriso e ha detto: Siete tutti matti.

La civiltà capitalistica vista con gli occhi di un’altra civiltà, destinata a essere sopraffatta, appare come una follia. Ma anche a chi vi appartiene può apparire, se ha uno sguardo critico, come un inferno. È quello che succede a Bertolt Brecht quando, nel suo esilio dalla Germania nazionalsocialista, si trova a vivere nel centro della civiltà capitalistica di allora, e di oggi: gli Stati Uniti. Una delle Elegie di Hollywood, scritte nel 1941, si intitola appunto Meditando sull’inferno.

Meditando, mi dicono, sull’inferno
il fratel mio Shelley trovò ch’era un luogo
pressappoco simile alla città di Londra. Io
che non vivo a Londra, ma a Los Angeles,
trovo, meditando sull’inferno, che deve
ancor più somigliare a Los Angeles.
Anche all’inferno
ci sono, non ne dubito, questi giardini lussureggianti
con fiori grandi come alberi, che però appassiscono
senza indugio se non si innaffiano con acqua carissima. E mercati
con carrettate di frutta, che però
non ha odore né sapore. E interminabili file di auto
più leggere della loro ombra, più veloci
di stolti pensieri, veicoli luccicanti in cui
gente rosea, che non viene da nessuna parte, non va da nessuna parte.
E case, costruite per uomini felici, quindi vuote
anche se abitate.

Anche all’inferno le case non sono tutte brutte.
Ma la paura di essere gettati per strada
divora gli abitanti delle ville non meno
di quelli delle baracche.

Pochi mesi dopo, sempre a Los Angeles, Brecht è a casa del filosofo Adorno, che proprio durante il suo esilio negli Stati Uniti ha scritto uno dei libri più spietatamente critici sulla modernità capitalistica, Minima moralia. Ci sono, nel suo salotto, altri grandi critici del capitalismo, come Horkheimer, Marcuse o Günter Anders. Ma la discussione si avvita, come capita non di rado tra intellettuali, su alcune questioni oziose e false, come questa: se la cultura è nata dalla sofferenza, vuol dire allora che se si eliminerà la sofferenza si avrà la barbarie? Brecht, che con gli intellettuali ha il dente avvelenato, scalpita. Ma solo quando a prendere la parola è un economista, Friedrich Pollock, per ribadire il luogo comune del momento (che allora era invocare un maggior intervento dello Stato nell’economia, secondo la ricetta del New Deal rooseveltiano, mentre oggi, al contrario, è ‘meno Stato più mercato’), solo a quel punto Brecht e il suo amico Hanns Eisler perdono la pazienza: «‘ci mettiamo dalla parte del torto’ – annota Brecht nel suo Diario di lavoro –, in mancanza di un altro posto in cui metterci».

Dalla parte del torto. Ho scelto questa frase come titolo di questi mie riflessioni perché mi sembra che tenga insieme due cose. Dalla parte del torto finisce per mettersi, o per trovarsi, chi pensa in modo diverso rispetto al pensiero dominante: come Brecht, come Leopardi che ridicolizzava le «magnifiche sorti e progressive» del XIX secolo o Pasolini che accusava la modernità capitalistica del XX di essere un «nuovo fascismo», un «genocidio culturale». Chi si trova dalla parte del torto è o appare esagerato, allarmista, aggressivo: «anche l’odio contro la bassezza / stravolge il viso. / Anche l’ira per l’ingiustizia / fa roca la voce», scrive Brecht in A coloro che verranno. Ma dalla parte del torto si trovano anche i popoli che hanno fatto esperienza della modernità capitalistica non come occasione per conquistare il benessere materiale, bensì come violenza e discriminazione: quei popoli a cui questa modernità è stata imposta e che sono stati detti barbari, incivili, arretrati, pur avendo una propria cultura, una propria civiltà e magari essendo, per molti aspetti, ben più «avanti». Così i tseltales. Ma penso anche a noi stessi, agli italiani.

Quando la poesia di Brecht fu tradotta in italiano, nel 1965, Pasolini la notò subito (e la inserì in un libro pubblicato qualche anno dopo, La Divina Mimesis). Gli interessava perché si era accorto, e lo andava ripetendo in quasi tutti i suoi film, nelle poesie, sui giornali, che la modernità capitalistica stava sì portando in Italia il benessere, ma stava anche distruggendo qualcosa. Cito dagli Scritti corsari:

Ho detto, e lo ripeto, che l’acculturazione del Centro consumistico, ha distrutto le varie culture del Terzo Mondo (parlo ancora su scala mondiale, e mi riferisco dunque appunto anche alle culture del Terzo Mondo, cui le culture contadine italiane sono profondamente analoghe): il modello culturale offerto agli italiani (e a tutti gli uomini del globo, del resto) è unico. La conformazione a tale modello si ha prima di tutto nel vissuto, nell’esistenziale: e quindi nel corpo e nel comportamento. È qui che si vivono i valori, non ancora espressi, della nuova cultura della civiltà dei consumi, cioè del nuovo e del più repressivo totalitarismo che si sia mai visto.

Quello che negli Stati Uniti era evidente negli anni ’40, e saltava gli occhi di Brecht come di Adorno, lo stava diventando anche in Italia vent’anni dopo, perché solo negli anni ’60 l’Italia ha smesso di essere un paese fondamentalmente contadino e ha cominciato a essere un paese compiutamente industriale. Ad accorgersene non sono molti, perché la possibilità di conquistare finalmente il benessere materiale, l’abbondanza di beni, appariva irrinunciabile per un popolo che per secoli aveva conosciuto la fame, la fatica, la dipendenza. Ciò che veniva offerto – lavoro salariato, case, vita in città, elettrodomestici, diritti, istruzione, assistenza medica, tempo libero – era così indiscutibilmente positivo, coincideva così perfettamente con l’idea di progresso, che pochi si resero conto di ciò che stava andando perduto, e che il progresso avrebbe potuto essere perseguito in modo meno convulso, caotico e distruttivo.

Insieme a Pasolini se ne accorse, quasi per caso, Nuto Revelli. Nel dopoguerra Revelli girava per la provincia di Cuneo per intervistare i reduci di quell’«immenso massacro contadino» che era stata la seconda guerra mondiale e raccogliere le loro voci in un libro, che si sarebbe intitolato La strada del davai (1966). Percorrendo la pianura, la collina, la langa e la montagna Revelli si accorge che è in corso un altro massacro, una trasformazione economica e sociale distruttiva, che nell’introduzione a Il mondo dei vinti (1977) descrive con la stessa parola usata da Pasolini: genocidio.

Nelle nostre valli non sono in funzione le «camere a gas», così l’immagine del genocidio appare forse eccessiva alla folla dei «benpensanti», dei turisti distratti, dei gerarchi dispensatori di elemosine, dei colonialisti. […] È l’ultima volta che il problema della nostra montagna si ripresenta come scelta di civiltà: o lasciamo che tutto vada in rovina, «intanto gli anziani e vecchi muoiono»; oppure affrontiamo il problema con una volontà politica nuova, tentando di salvare il salvabile prima che il genocidio si compia.

Revelli non crede affatto, come non lo credeva Pasolini, che la società contadina fosse idilliaca. Dedica tutto il secondo capitolo della sua introduzione alla fame, alla condizione subordinata delle donne, ai matrimoni combinati per interesse, alle malattie, alla mortalità infantile, ai bambini dati in affitto, all’analfabetismo, al culto della forza e alla discriminazione dei deboli, alla litigiosità delle comunità, all’incomprensione per la politica, alla durezza del lavoro, all’emigrazione. Ma vede benissimo come la società contadina non è stata riscattata, bensì annientata: non c’è stata emancipazione, possibilità di scelta, ma svuotamento e cancellazione.

Nel breve arco di un decennio l’industria ha distribuito nel Cuneese un largo benessere, ha favorito l’esodo sacrosanto dalle zone più depresse. Ma ha preteso e pretende contropartite enormi. L’industria umilia e spreme il mondo contadino.

Nella Valle Bormida il fiume inquinato dalle industrie di Cengio è una serpe di melma schifosa che avvelena l’ambiente. La nebbia del Bormida si impasta col veleno, sale verso l’alto; dove arriva la nebbia arriva la peste. Il ricatto che i padroni impongono è spietato, crudele: «Volete i figli in fabbrica? Godetevi il veleno». […]

Nel Vallone del Piz il Pian della Regina era un paradiso terrestre, una conca incredibilmente ricca di polle d’acqua impetuose, prepotenti. L’Enel ha succhiato tutta l’acqua a monte, proprio tutta, anche l’acqua delle piccole sorgenti. Ora il Pian della Regina è una conca arida, morta, la sua acqua è nei canali di cemento.

Se un contadino arrabbiato, se una delle tante vittime dei padroni, del sistema, tagliasse un cavo della corrente elettrica bloccando per dieci minuti una delle tante industrie che rapinano, che inquinano, succederebbe il finimondo. È tutto qui il bilancio delle forze. I veleni di Cengio […] sono il prodotto della società che conta: le proteste timide del mondo contadino sono le litanie di una società che muore.

Il mondo dei vinti, appunto. Che sta dalla parte del torto.

Anche il popolo tseltal appartiene, in questo momento storico, alla schiera dei vinti: si trova ai margini di quella civiltà di cui noi, per ora, siamo prossimi al centro. Per la diversa posizione che occupiamo nel mondo e nella storia, è difficile per noi guardare ai tseltal, ai loro riti, ai loro modi di vita senza cadere in due errori opposti e complementari: quello di compatirli e quello di celebrarli.

Il primo atteggiamento presuppone uno sguardo inconsciamente coloniale, basato sulla certezza che noi siamo dalla parte della ragione (dei vincitori) e loro da quella del torto (dei vinti), e che dunque, se siamo egoisti, possiamo bellamente lasciarli al loro destino, mentre se siamo altruisti, ci sentiamo in dovere di soccorrerli, di far loro “recuperare il ritardo” (facendo, a volte, danni peggiori). Al secondo atteggiamento corrisponde invece uno sguardo inconsapevolmente esotizzante, nel quale si manifesta la coscienza infelice di chi, in fondo, si ritiene dalla parte del torto (pur restando tra i vincitori) e ritiene che i popoli del Terzo mondo (pur restando tra i vinti) siano dalla parte della ragione. Uno sguardo che si traduce in ammirazione per un popolo che ha mantenuto il contatto con la natura (ciò che  pensavano Goethe e Stendhal degli italiani?) e che con la guerriglia zapatista sta dando a tutto il mondo un esempio di resistenza e autodeterminazione.

Probabilmente è impossibile non proiettare su un popolo tanto lontano le proprie paure e i propri desideri, figurandoselo ora come una retroguardia (poverini!) ora come un’avanguardia (forza!). Però, forse, prendendo atto di queste proiezioni, si può tentare di farsene condizionare il meno possibile, e provare a ritrovare nei tseltal, in queste foto, ciò che ci è più familiare e che riguarda anche noi e la nostra storia. Può essere il primo passo per cogliere, poi, anche le differenze, le ricchezze nostre e loro.

Prima di concludere vorrei riprendere un’altra cosa che Elena mi ha raccontato. Nei suoi spostamenti da un villaggio all’altro era accompagnata da una guida di lingua spagnola che conosceva la lingua tseltal. Questo ragazzo non molto istruito, che prima di fare la guida si era guadagnato da vivere con traffici non propriamente legali, quando bisognava far passare il tempo in attesa che arrivasse una corriera, mentre Elena sferruzzava a maglia, si metteva a leggere. Una volta Elena gli ha chiesto che libro leggesse, e lui le ha mostrato la copertina: Tolstoj, Cuentos. «Son buenos», ha detto lui. Sono buoni.

Elena sa che amo Tolstoj: per questo me l’ha raccontato. Per me è stata la conferma che quel vecchio conte russo, convinto che il miglior sistema di vita fosse quello dei contadini di tutto il mondo, era riuscito a fare quello che aveva desiderato più di ogni cosa: scrivere non un grande romanzo per l’aristocrazia o la borghesia occidentale, come Guerra e pace o Anna Karenina, ma dei racconti – e anche dei libri di scuola, e delle raccolte di pensieri dei saggi di tutto il mondo – che potessero essere letti dalla gente di tutto il mondo, che fossero universali.

Tra i grandi critici della modernità capitalistica pochissimi si sono arrischiati a proporre un’alternativa, dando una risposta alla domanda delle domande: che fare? Tolstoj lo ha fatto, anzi, ha dedicato gli ultimi trent’anni della sua vita a questo compito, scrivendo una quantità di saggi nei quali affronta tutte le grandi questioni dell’esistenza: la fede, la politica, la guerra, la rivoluzione, l’alimentazione, l’ambiente. Tra l’altro, è uno dei primi e più incisivi sostenitori della nonviolenza, del vegetarianesimo, e di una religiosità che prescinde da qualsiasi chiesa. In uno di questi libri, intitolato La mia fede, si spinge fino a formulare quelle che secondo lui sono le cinque condizioni di felicità per tutti gli esseri umani.

Primo: una vita in cui non sia violato il legame dell’uomo con la natura, ossia una vita a cielo aperto, alla luce del sole, all’aria fresca, in comunione con la terra, le piante, gli animali.

Secondo: il lavoro, innanzitutto il lavoro libero e preferito, in secondo luogo la fatica fisica, che dà l’appetito e il sonno robusto e ristoratore.

Terzo: la famiglia.

Quarto: le relazioni libere e amorevoli con gli uomini di tutti i popoli della terra.

Quinto: la salute e una morte senza sofferenze.

Forse è a partire da qui, da questi principi, che possiamo guardare al modo di vivere del nostro e degli altri popoli senza farci velare lo sguardo da paure o desideri.

Michele Sisto

Libri di cui si è parlato:
Giovanni Arrighi, Il lungo XX secolo, Milano, Il Saggiatore, 1996
Ernesto Balducci, Siate ragionevoli, chiedete l’impossibile, Roma, Chiarelettere, 2012
Bertolt Brecht, Poesie II (1934-1956), Torino, Einaudi, 2005 (Biblioteca della Pléiade)
Theodor W. Adorno, Minima moralia, Torino, Einaudi, 1954
Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari, Milano, Garzanti, 1975
Nuto Revelli, Il mondo dei vinti. Testimonianze di vita contatina, Torino, Einaudi, 1977
Lev Tolstoj, Perché la gente si droga? Saggi su società, politica e religione, Milano, Mondadori, 1988
Lev Tolstoj, La mia fede, Milano, Editoriale Giorgio Mondadori, 1988

 

 

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