Die Wohnung – Perspektive 2

Die Wohnung – Perspektive 2                                                                             Matteo Galli

Sarà perché il regista di cognome si chiama Goldfinger, fatto sta che il film che ho visto ieri sera è uno dei più avvincenti che mi è capitato di vedere da tempo. E dire che è tutto tranne che un film di genere, niente thriller o action movie, ma un solidissimo documentario che ha già raccolto un bel po’ di premi ovunque è stato presentato in giro per il mondo.

Che film di questa qualità non arrivino in Italia e che anche in giro per la Germania godano di una distribuzione a macchia di leopardo, non può che dispiacere. Scarsa distribuzione, a parte Berlino, ovviamente, dove in queste settimane il film è visibile in nove cinema diversi, distribuiti in tutti i quartieri della città. Io l’ho visto al “Krokodil”, il meraviglioso cinemino di Prenzlauer Berg di cui già parlai l’anno scorso.

Ma veniamo al tema. Siamo a Tel Aviv e a 98 anni muore Gerda Tuchler, la nonna del regista. Una considerevole parte della numerosissima famiglia si ritrova nell’appartamento ai piani alti di un anonimo condominio della capitale israeliana. Si alzano le tapparelle e si spalanca un mondo, il deposito di una vita: capi di vestiario (un’imprecisata quantità di guanti, colli di pelliccia, scarpe), un’intera biblioteca in lingua tedesca, valanghe di documenti conservati con meticoloso disordine. La gran parte dei presenti, in testa la madre del regista, vorrebbe semplicemente riempire sacchi di immondizia e gettare via, gettare via, gettare via. Il regista, sulla quarantina, si ferma invece a guardare, incuriosito dai quadri a olio del nonno e della nonna che lo scrutano dalla parete, da quella biblioteca impolverata (che ci fanno tutti questi libri in tedesco in una casa di Tel Aviv?). Intervista tutti i parenti, giovani e meno giovani, alla ricerca di informazioni sul conto dei nonni: data di nascita, momenti chiave della loro biografia, ma nessuno sa niente di niente. I coniugi Assmann oppure Harald Welzer si metterebbero le mani nei capelli, in casa Tuchler/Goldfinger la memoria comunicativa non sanno neppur lontanamente che cos’è.

E allora Arnon si rimbocca le maniche e comincia a scavare e scopre, via via, un impressionante numero di tracce che lo portano in giro per Tel Aviv e per il nord del paese ad intervistare gli ultimi sopravvissuti, fin quando la vicenda si sposta in Germania: dapprima Wuppertal e poi, a più riprese, Berlino. Viene così ad essere ricostruita una vicenda che ben presto travalica i confini dei “family frames” post-memoriali di cui ha scritto Marianne Hirsch per diventare un significativo e assai dialettico spaccato della storia ebraico-tedesca. Il centro nodale e sicuramente traumatico del film è il seguente. Kurt e Gerda Tuchler, ebrei colti e benestanti, emigrano in Palestina nel 1936, non senza aver fatto prima un “comodo” viaggio di ricognizione con un’altra coppia, composta dal Barone Leopold von Mildenstein e consorte. Mildenstein, nazista della prima ora, ricoprì dalla presa del potere di Hitler fino a quello stesso 1936 il ruolo di “Judenreferent” presso il ministero degli interni. A tal scopo compì appunto un certo numero di viaggi in Palestina, poi documentati in una serie di articoli pubblicata sul nazistissimo “Der Angriff”, dal titolo “Un nazista viaggia in Palestina” e che diede luogo anche al conio di un’apposita moneta: sul recto la croce uncinata, sul verso la stella di David. Mildenstein era assai ben disposto nei confronti del movimento sionista, per lui la “Judenfrage” la si poteva risolvere anche così, con emigrazioni di massa. Come detto, Mildenstein e Tuchler, nonché le rispettive consorti, intrattennero stretti rapporti d’amicizia durante gli anni ’30, fino all’emigrazione dei Tuchler. E poi? Già, e poi? E’ qui che si spalanca l’abisso. Innanzitutto si viene a sapere che Mildenstein non si è affatto ritirato a vita privata, essendo risultata -diciamo così – minoritaria la sua posizione in merito alla soluzione della questione ebraica, ma ha continuato a lavorare per il governo, segnatamente alle dipendenze di Goebbels; dopodiché apprendiamo che la madre di Gerda Tuchler e con lei molti altri parenti dei Tuchler sono morti nei campi di concentramento, per lo più a Theresienstadt (un lontano cugino, a Berlino, ha compiuto qualche ricerca e quanto meno ha fatto incastonare nel selciato davanti alla casa dove abitava la nonna uno “Stolperstein”). Ma la cosa più agghiacciante che apprendiamo – frutto dei viaggi compiuti dal regista alla volta di Wuppertal – è che dopo la guerra i rapporti fra i Tuchler e i Mildenstein sono continuati immutati, all’insegna di un continuo, affettuoso carteggio e numerose, affettuose visite di cortesia dei coniugi Tuchler alla villetta in collina dei Mildenstein. Come se nulla fosse accaduto.

Da un certo punto in avanti il film diventa così una tenace ma al tempo stesso leggera marcia a tappe forzate alla ricerca della verità. Una verità, malgrado tutto. Malgrado il silenzio di decenni, malgrado il disinteresse misto a scetticismo della madre del regista, malgrado il cortese gelo della figlia dei Mildenstein, ciò che crea una paradossale ma alla fine veridica omologia fra gli esponenti della seconda generazione, figli di nazisti o figli di sopravvissuti alla shoah, tedeschi o israeliani, l’omologia del silenzio e della rimozione. E’ la terza generazione che comincia ad aprire gli archivi familiari. Non sarà possibile addivenire ad una verità definitiva, ma quanto meno si getta uno squarcio su quelle tapparelle abbassate, l’ultima inquadratura del film è splendida: il gioco di chiaroscuro sulla parete di fronte alla finestra, non c’è più il buio dell’inizio, ma neanche il sole pieno.

Il film è una produzione tedesco-israeliana, girata direttamente in digitale. Il regista non parla tedesco, qualcosina capisce, ma parla solo ebraico e inglese. Una voce off/over, nella versione che circola in Germania, lo doppia in tedesco, dicendo io, parlando cioè in prima persona, la cosa crea un buffo effetto di straniamento, perché il regista viene spesso inquadrato durante il film mentre, appunto, parla solo l’inglese.

P.S. Sapete che fine fa Mildenstein negli anni ’50? Diventa responsabile dell’ufficio stampa della Coca-Cola, il ragazzo di ufficio stampa se ne intendeva. Se la cosa non fosse agghiacciante, verrebbe da ridere e da pensare a James Cagney alias Mr. McNamara e al suo assistente Schlemmer che ancora all’inizio degli anni ’60 non si era disabituato a scattare sull’attenti, a battere i tacchi.

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