This ain’t California – Perspektive 1

This ain’t California – Perspektive 1                                                                   Matteo Galli

“Perspektive deutsches Kino” è il nome della sezione dedicata alla nuove tendenze del cinema tedesco all’interno della Berlinale. La sezione esiste dal 2001 e raccoglie molti contributi provenienti dalle – nel frattempo – numerose scuole di cinema sparse per il territorio della Repubblica, talvolta anche solo corto- o mediometraggi, che poi sarebbero i saggi di terzo anno. Film di finzione e documentari.

Ho deciso di chiamare così la rubrica che terrò su Germanistica.net in questo mese berlinese presentando i film tedeschi che si vedono in giro per la città, cose nuove per lo più, ma anche qualche recupero che mi accadrà di vedere. E andiamo a cominciare.
E parto proprio da un documentario, anche se -come vedremo – la questione più interessante che pone questo film è proprio il suo statuto di genere. Diretto da Marten Persiel (nato nel 1974), primo film – come si dice – “abendfüllend” di un regista fin qui attivo nel campo dei corti (soprattutto) pubblicitari, This ain’t California racconta, servendosi di una struttura a cornice, la vita di Denis “Panik” Paracek, dai suoi primi anni delle scuole elementari fino a poche settimane prima della caduta del muro, quando finisce in carcere a Bautzen (i festeggiamenti del 9 novembre e dintorni gli giungeranno come una lontana eco nella sua cella). Dopodiché lo perdiamo completamente di vista. Per ritrovarlo più di vent’anni dopo in una bara, soldato morto reduce dall’Afghanistan. E il rimpatrio della bara e il suo funerale rappresentano un’occasione concreta, ancor più un’occasione narrativa, per una rimpatriata dei suoi amici, ormai sopra la quarantina, che cominciano a raccontare la vita del loro amico, la loro vita. Che cosa aveva di particolare la vita di Denis? Fin da ragazzino Denis – destinato dal padre a diventare nuotatore professionista – ha sviluppato una passione e un talento fuori del comune per lo skateboard. Ed è proprio quella “Szene”, di cui Denis rappresenta sicuramente la figura di maggiore spicco, ignota ai più, che il film illustra nei minimi particolari. Fin qui non l’ho detto, ma chi sa dov’è Bautzen, ha capito una cosa fondamentale: tutto quanto il film racconta accade nella DDR degli anni ’70 e soprattutto degli anni ’80. Fare lo skater nella DDR di quegli anni significava porsi in un atteggiamento di più o meno aperto contrasto con i valori dominanti di quella società, prova ne sia che – per esempio – nessuno dei componenti del gruppo sembra frequentare una scuola, un tirocinio, esercitare una professione, la vita pare essere costituita solo dalle giravolte in skateboard dapprima per la squallida periferia tutta “Plattenbauten” di Magdeburgo e poi, in seguito al trasferimento nella “Hauptstadt der DDR” fino al “centro” del potere, vale a dire proprio nella zona intorno alla torre della televisione di Alexanderplatz. Del resto, di superfici di cemento, di non luoghi desolati la DDR disponeva ad abundantiam. Inutile dire che l’atteggiamento ribellistico degli skater, soprattutto di Denis, ben presto soprannominato “Panik” per la sua spericolatezza, salta ben presto agli occhi vigili e onnipresenti della Stasi, anche perché lo skating diventa un’occasione di stringere rapporti internazionali che valicano idealmente le ancora rigide frontiere dei due blocchi. Un meeting praghese del 1988, ad esempio, produce una stretta relazione con un gruppo di skater della Germania occidentale, che poco dopo darà luogo a un ulteriore incontro, stavolta solo intertedesco, a Berlino est, tallonato in diretta dal MfS. In seguito al quale Denis verrà, come detto, arrestato. Il film alterna i racconti degli amici – soprattutto uno, Nico che parlando in un marcato accento berlinese, funge da narratore principale, spesso in voice off – con le immagini risalenti a quegli anni, sia materiale “ufficiale” (parate, il giuramento per la “Jugendweihe”), sia, soprattutto, materiale privato in super8, sgranato, sovraesposto, con i colori sbiaditi o troppo accesi, una quantità impressionante di materiale impressionato, il quale lascerebbe pensare che in DDR non si facesse altro che girare con la cinepresa in mano a riprendere e a riprendersi, immagini contro-culturali che sembrano fungere da contrappunto all’altrettanto spropositata messe di immagini raccolta dai funzionari della Stasi. E’ proprio sullo statuto di queste immagini, fortemente debitrici di un’estetica da videoclip (i trascorsi del regista vanno proprio in quella direzione) che lo spettatore costantemente s’interroga durante la visione del film. Sarà tutto materiale autentico? Qua e là sorge il sospetto che una parte (quanto?) di quel che vediamo sia stato girato dopo, al fine di adeguarsi al materiale “ufficiale” e “privato” (quanto?) preesistente, materiale dunque anticato ad arte, sgranato ad arte, sovraesposto ad arte. Il sospetto diventa una certezza andandosi a leggere, come ho fatto poco fa, una recensione sull’ultimo numero di “Zitty” e un’intervista al regista. Scopro infatti che il film, presentato quest’anno a Berlino nella sezione di cui facevo cenno all’inizio e risultato vincitore di quella sezione, ha dato luogo in un primo momento a grandi manifestazioni di giubilo e successivamente a un grande sbigottimento, proprio quando si è scoperto che molto del materiale non era autentico ma prodotto per l’occasione e che per selezionare gli attori che interpretano Denis e i suoi amici il regista ha organizzato elaboratissime sedute di casting anche via internet. L’intervistatore di “Zitty” giunge addirittura a chiedere al regista se Denis sia mai esistito. Persiel lo rassicura, è esistito, anche se appunto molto nel film è stato inventato. Quanto e che cosa non ce lo vuole dire. Credo che alla fine importi poco ripassare il film alla moviola per stabilire che cosa è autentico e che cosa non lo sia. Quel che importa è l’originalità del principio compositivo, il “coraggio” estetico del regista nell’emanciparsi dall’imperativo dell’autenticità (ma anche del “realismo”) che regna sovrano per tutto ciò che ha a che vedere con la DDR, nel giocare con l’orizzonte d’attesa dello spettatore, per esempio ricorrendo in alcuni casi a degli inserti animati, questi sì palesemente inventati, che sembrerebbero surrogare l’assenza di materiale documentario autentico e per converso indicare che tutto il resto inventato non è. Anche se, poi, le cose stanno in modo assai più complesso e intrecciato, come detto. In fondo l’operazione compiuta da Persiel non è molto distante da quella messa in atto da Denis Domaschke in Goodbye, Lenin! che fingeva di produrre una DDR autentica ad uso della madre di Alex. Ciò detto, il film è noioso e a tratti patetico, perché al di là della indiscutibile raffinatezza compositiva, la sua affermazione di fondo – gli skater erano dei ribelli contro il sistema, Denis il più ribelle di tutti – risulta chiara dopo pochi minuti e viene variata all’infinito. E anche l’estetica del videoclip dopo un po’ annoia. Un saggio di terzo anno, una ventina di minuti sarebbero bastati, novanta sono troppi. La cosa migliore del film è la colonna sonora. E se skateboard – in sala a Friedrichshain un gruppo di rumorosi skater adoranti – ha da essere, consiglio a tutti lo splendido Paranoid Park di Gus Van Sant.

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3 Responses to This ain’t California – Perspektive 1

  1. anna chiarloni says:

    Grazie per l’aggiornamneto. Ora che il cinema sul nazismo sembra esaurito si passa al repertorio DDR, magari d’invenzione. Certo che se i film prodotti sono poi mediocri…meglio lasciar perdere!

  2. Michele Sisto says:

    Lieto di vederti tornare anche quest’estate in veste di blogger, Matteo! Ho trovato il trailer del film: qui ci si può fare un’idea dell’estetica da videoclip e delle immagini di repertorio artefatte di cui parli: http://www.thisaintcalifornia.de/
    Il sito non è granché: non si riesce nemmeno ad avere qualche informazione sulla colonna sonora, che mi ha incuriosito. Se è davvero la cosa migliore del film…

  3. Piero, Torino says:

    Il film in generale mi è piaciuto; questi pazzi con lo skateboard fanno pensare alla bellezza e alla gioia della gioventù, che purtroppo il tempo cancella per sempre. Ottima la colonna sonora e le immagini di repertorio della DDR. Un dubbio mi ha accompagnato durante la visione di questo documentario: ma i ragazzi della DDR erano veramente così (?) liberi di fare i matti per strada con la videocamera?
    Buona serata

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