Torino e il transfer di cultura tedesca in Italia: traduzioni e relazioni della casa editrice Einaudi (1948-1968)

[Pubblico qui il testo di una relazione tenuta al convegno Transnational Italy: National Identity and the World Atlas (Reading, 13-14 luglio 2012) organizzato da Francesca Billiani, Federico Faloppa, Daniela La Penna e Paola Nasti, all’interno del panel The Circulation of Culture in 20th-Century Turin, a cui hanno partecipato anche Francesca Congiu e Anna Baldini. M.S.]

Michele Sisto

In questi 20 minuti parlerò della casa editrice Einaudi, e di Torino, da una prospettiva un po’ obliqua: quella del transfer di letteratura tedesca. Le osservazioni e proposte che seguono fanno infatti parte di una riflessione più ampia, di un progetto di ricerca dal titolo Storia della letteratura tedesca in Italia nel Novecento, al quale sto lavorando da tempo. Mi occuperò di come l’Einaudi abbia contribuito a modificare l’identità culturale italiana del dopoguerra introducendovi nuovi elementi (non solo e non necessariamente testi) importati dall’area culturale tedesca. In particolare prenderò in considerazione tre casi, ovvero tre libri: la traduzione dei Minima moralia di Adorno pubblicata da Renato Solmi nel 1954, la traduzione delle Poesie e canzoni di Brecht curata da Franco Fortini nel 1959 e l’edizione del Faust di Goethe introdotta da Cesare Cases nel 1965. Questi tre casi, scelti per brevità tra i molti altri possibili, mi paiono utili a mettere in luce altrettante linee di trasformazione dell’identità culturale italiana evidenziatesi nel periodo che va dalla fine del «Politecnico» di Vittorini, nel 1948 (e più in generale del quinquennio 1943-48, che storicamente va trattato come un periodo a sé), ai movimenti sociali del 1968, che determinano una nuova, brusca trasformazione del campo culturale. In questi vent’anni l’esigenza di dare all’Italia una «nuova cultura», per riprendere una nota formulazione usata dallo stesso Vittorini sul «Politecnico», trova espressione – tra l’altro – nell’attività degli intellettuali che fanno capo all’Einaudi, e in particolare, come qui vorrei mostrare, in quella di alcuni giovani intellettuali nella cui formazione ha un ruolo di tutto rilievo la cultura tedesca.

Le linee di trasformazione a cui ho accennato sono, molto sommariamente, le seguenti:

1) l’importazione di quello che potremmo definire un “marxismo non ortodosso o critico” (Lukács, Adorno, Horkheimer, Anders, Benjamin, Marcuse);

2) il consolidamento dell’egemonia simbolica dello scrittore inteso come public intellectual, che – nella seconda delle accezioni discusse ieri da Gisèle Sapiro – prende posizione pubblicamente sul mondo sociale e politico (Brecht);

3) la ridefinizione e reinterpretazione del repertorio letterario (della tradizione) in senso marxista e materialista (vedremo il caso tedesco del Faust, ma il fenomeno riguarda tutte le letterature).

Ricostruirò dunque brevemente i percorsi che hanno portato alla pubblicazione presso Einaudi dei tre libri citati, il significato della loro pubblicazione all’interno del campo culturale italiano e i mutamenti, più o meno diretti, che questi libri hanno introdotto nell’identità culturale italiana. Cercherò, in particolare, di pensare a queste operazioni editoriali non tanto come semplici traduzioni o mediazioni o interpretazioni, quanto come «prese di posizione nello spazio dei possibili», una definizione, questa, che Pierre Bourdieu adopera per designare le opere d’arte in genere.[1] Concluderò proponendo alla discussione alcune ipotesi relative a una possibile impostazione dello studio del transfer culturale e – udite, udite! – della storia letteraria italiana.

Ma cominciamo.

Quando il venticinquenne Renato Solmi, classe 1927, redattore einaudiano dal 1951, si imbatte nei Minima moralia, la situazione del campo culturale italiano non potrebbe essere più sfavorevole alla sua traduzione: il libro, pubblicato in Germania nel 1951 da una piccola casa editrice fondata l’anno prima, Suhrkamp, è politicamente eterodosso, del tutto incompatibile con il marxismo dominante in Italia e rappresentato soprattutto dagli intellettuali organici al Pci; la complessità dello stile e del lessico filosofico lo rende quasi intraducibile, almeno per i parametri del tempo; il contenuto, poi, le “riflessioni sulla vita offesa”, basate sull’esperienza che l’esule Adorno aveva fatto del capitalismo avanzato negli Stati Uniti, non può che apparire del tutto astratto in un’Italia ancora largamente rurale, nella quale il miracolo economico deve ancora arrivare. Infine: l’autore e l’editore sono quasi del tutto sconosciuti in Italia. Solmi deve sostenere una lotta all’interno della casa editrice, tra l’altro contro il parere negativo di uno dei consulenti più autorevoli, Delio Cantimori, per avere l’assenso del Consiglio editoriale. Ottenutolo, non solo traduce il libro, ma lo modifica in modo sostanziale: lo riduce di un terzo (cosa che negli anni ’70 susciterà una rozza polemica che non tiene conto delle reali condizioni di possibilità della traduzione nel ’54), sopprime il sottotitolo, e aggiunge una lunga introduzione nella quale, oltre a mettere il libro di Adorno in relazione con altri autori già noti al pubblico – non solo Hegel, Marx e Nietzsche, ma anche Thomas Mann, Gramsci e De Martino – cerca di “sincronizzarlo” con quella che Bourdieu chiamerebbe la «problematica» ovvero lo «spazio dei possibili» del campo politico-culturale italiano del tempo.

L’atto stesso di pubblicare il libro costituisce una «presa di posizione», di Solmi e dell’Einaudi. Tradurre Adorno significa, nel 1954, mettere in discussione il marxismo dominante non da posizioni anti-comuniste, cosa consueta nella logica della guerra fredda, ma da una posizione interna al marxismo stesso, e in dialogo, sebbene conflittuale, con lo stesso Partito comunista italiano.[2] La pubblicazione nei Saggi Einaudi – la principale collana della più prestigiosa casa editrice del paese, in quel momento – conferisce alla traduzione italiana di Minima moralia (la prima al mondo: quella inglese è del ’74, quella francese del 1980, se non sbaglio) un capitale simbolico perfino più alto di quello che il libro possedeva in Germania: fa sì che il libro venga riconosciuto (magari avversato, ma pur sempre riconosciuto) come una presa di posizione legittima all’interno del campo culturale. La pubblicazione di Minima moralia costituisce dunque uno dei primi atti di un processo di elaborazione che – attraverso la successiva pubblicazione della Dialettica dell’Illuminismo (sempre a cura di Solmi, nel ’66) e di alcune opere chiave (altrettanto accuratamente selezionate e legittimate) di Lukács, Benjamin, Horkheimer, Anders e Marcuse (in gran parte edite da Einaudi) – porterà alla nascita della Nuova sinistra.

Secondo caso.

Di Franco Fortini mi limito a ripercorrere la traiettoria per sommi capi: classe 1917, esordisce come poeta con Foglio di via e altri versi, pubblicato nel ’46 da Einaudi, con cui negli anni seguenti collabora traducendo Eluard, Döblin, Proust e Gide. Conosce l’opera di Brecht almeno dai tempi del «Politecnico»: sue (e della moglie Ruth Leiser) sono le prime traduzioni di Brecht che escono per Einaudi: Santa Giovanna dei macelli e Madre Coraggio e i suoi figli, entrambe del 1951. La sua traduzione-appropriazione delle Poesie e canzoni di Brecht, pubblicata nel 1959 nei Millenni – la principale e più consacrante collana letteraria einaudiana – è una «presa di posizione» comprensibile solo all’interno della problematica del campo letterario italiano, come ha mostrato in modo puntuale Riccardo Bonavita in un saggio del 2006. Nell’introduzione e, ancor più, nelle scelte di traduzione, che inventano una lingua poetica allora non disponibile in Italia, Fortini propone Brecht come possibile alternativa alle tre principali posizioni allora concorrenti: la poesia politica, intesa – in una logica sostanzialmente eteronoma – come strumento di lotta ideologica, e come tale promossa dai partiti politici (la prima antologia poetica brechtiana esce nel 1956 per le Edizioni dell’Avanti); la poesia dei nuovi entranti in cerca di consacrazione, la neoavanguardia, allora raggruppata soprattutto intorno alla rivista «il verri» e più tardi nel Gruppo 63; ma soprattutto la poesia di Montale, allora dominante al polo della produzione autonoma. Si tratta dunque in primo luogo di insidiare e incrinare l’egemonia simbolica di Montale e della concezione di poesia associata alla sua opera e alla sua posizione nel campo, impresa tutt’altro che alla portata di un poeta relativamente giovane qual era Fortini allora. Ma un poeta straniero, che gode di ampio riconoscimento internazionale, può fornire il capitale simbolico di cui Fortini è sprovvisto.

Brecht viene quindi presentato come modello del poeta che, partito da posizioni decadenti o di avanguardia, giunge attraverso la conversione al marxismo ad affermarsi come «poeta morale del Socialismo», quale lo stesso Fortini aspira ad accreditarsi in Italia. All’uscita di Poesie e canzoni, il modello e le pratiche dell’intellettuale engagé, si è già ampiamente affermato tra i saggisti (come lo stesso Fortini) e i romanzieri (come Moravia), ma il campo della poesia è ancora dominato dall’intimismo universalizzante di Montale e Ungaretti, e ancora non esiste una figura che incarni il poeta come public intellectual, né una lingua poetica adeguata: in una certa misura questa figura e questa lingua sono fornite dal Brecht di Fortini, che dal ’59 in poi diviene una presenza e un’opzione attiva (e attivabile) nel campo poetico italiano. Una presenza che può contribuire a spiegare i mutamenti nella poesia di Pasolini e di tutta una generazione di nuovi entranti, a partire dai primi anni ’60. Al punto che si potrebbe affermare, in primo luogo, che questa traduzione è il capolavoro poetico di Fortini (più significativo della sua produzione poetica “originale”), e, in secondo luogo, che la sua pubblicazione ha rappresentato, per i successivi sviluppi della poesia italiana, un avvenimento di gran lunga più importante dell’uscita delle raccolte di alcuni dei principali poeti italiani.[3]

Terzo caso.

Cesare Cases, classe 1920, che fin dalla metà degli anni ’50 è il principale consulente della casa editrice in materia di letteratura tedesca, nel 1965 scrive una lunga introduzione all’edizione del Faust di Goethe pubblicata nella Nuova Universale Einaudi. L’operazione è ancora diversa dalle precedenti: si tratta infatti dell’opera più canonica della letteratura tedesca, già più volte tradotta in italiano; per di più la scelta non è di pubblicare una nuova traduzione, ma di riproporre quella di Barbara Allason, uscita con prefazione della traduttrice per De Silva, sempre a Torino, nel 1950 (De Silva è per lo più nota per la prima edizione di Se questo è un uomo). Qual è la «presa di posizione» in questo caso? Se è vero che le principali lotte nel campo letterario avvengono al livello della letteratura contemporanea, anche la letteratura del passato, e con essa il canone, è terreno di conflitto: ogni nuova edizione di un classico (che, come mostra questo caso, non comporta necessariamente una nuova traduzione) è, in modo consapevole o meno, l’affermazione (o la riaffermazione) di un’idea di letteratura e del canone.

Anche in questo caso le disposizioni di Cases si incontrano con la posizione occupata nel campo culturale dalla casa editrice torinese, che in quegli anni promuove una rilettura della storia letteraria all’insegna di uno storicismo dialettico e progressista che ha i suoi capisaldi teorici nell’opera di De Sanctis, di Gramsci e di Lukács (tutti editi da Einaudi, l’ultimo a cura dello stesso Cases). Il Faust einaudiano dovrà distinguersi da tutti i Faust precedenti e concorrenti, e in particolare dovrà contrapporsi alle interpretazioni improntate al titanismo romantico, al nazionalismo germanico, all’estetismo dell’arte per l’arte e all’estetica crociana dell’intuizione lirica (non a caso la traduzione scelta è in prosa). Deve essere un libro durevole, che infatti nel 1994 arriverà alla dodicesima edizione. Nella sua introduzione Cases ricorre alla strategia più efficace allo scopo: riprende, compendia e discute l’interpretazione del testo fornita da Lukács nei suoi Studi sul Faust degli anni ’30. Non si preoccupa di fornire una lettura originale, propria, quanto di veicolare quella più persuasiva (e autorevole) nel presentare il Faust come un’opera che fa i conti – sul piano poetico – con la scomparsa del mondo feudale e l’affermarsi di quello borghese, e dunque con le contraddizioni del capitalismo colto nella sua fase ascendente. Il Faust viene così reimmesso – ancora una volta – nel campo culturale italiano, e messo in relazione con un orizzonte di discorsi e problemi non soltanto attuali, ma che costituiscono il terreno sul quale si manifesta – come nei due casi precedenti – l’esigenza degli intellettuali einaudiani di modificare la cultura allora egemonica.

Il catalogo Einaudi, soprattutto in questi anni, è costituito quasi interamente di prese di posizione altrettanto consapevoli e, nel loro insieme, situate nello spazio dei possibili con un’abilità strategica e un senso del posizionamento tali da fare della casa editrice un macchinario di produzione di capitale simbolico quasi miracoloso. Non solo si lascia alle spalle la casa editrice della cultura crociana (Laterza), quella della sinistra comunista (Editori Riuniti), la maggiore industria culturale del paese (Mondadori) e i concorrenti più prossimi quanto a posizionamento nel campo (Feltrinelli e, più tardi, Adelphi), ma nel periodo preso in esame contribuisce più di ogni altra alla trasformazione dell’identità culturale italiana lungo le linee sopra schizzate: 1) importazione del marxismo non ortodosso; 2) affermazione dello scrittore come public intellectual; 3) ridefinizione del canone letterario. Si potrebbe affermare che, per un certo periodo, l’Einaudi rappresenti in Italia una sorta di “intellettuale pubblico collettivo”, più influente di qualsiasi intellettuale nella sua singolarità.

Le traiettorie di Solmi, Fortini e Cases continueranno a incrociarsi a più riprese in questi anni: tutti e tre hanno un ruolo di primo piano nei «quaderni piacentini», uno dei principali laboratori culturali della nuova sinistra; tutti e tre curano altre opere di Brecht, dal Teatro all’Abicì della guerra; e con la collaborazione di Cases, Fortini porta a termine nel 1970 una propria traduzione del Faust, nei Meridiani Mondadori.

Spero, attraverso questi tre casi, di essere riuscito a suggerire come la pubblicazione di un libro straniero sia influenzata da e influenzi il campo culturale italiano tanto quanto la pubblicazione di un’opera – per così dire – autoctona, e partecipi alla stessa stregua alle lotte che determinano la continua trasformazione del campo stesso e dello spazio dei possibili.

Questa visione ha tre implicazioni, che vorrei proporre, concludendo, alla discussione:

1) I libri tradotti sono in tutto e per tutto prodotti del campo culturale che se ne appropria.[4]

2) Dunque (per venire dalla cultura in generale alla letteratura in particolare) la storia della letteratura italiana dovrebbe contemplare anche la storia dei testi tradotti e dei loro rapporti con gli attori e le istituzioni del campo letterario italiano (autori, critici, gruppi letterari, riviste, case editrici, ecc.). Un’opzione, questa, che peraltro permetterebbe di colmare la lacuna, che troviamo sempre nelle attuali storie della letteratura italiana, tra l’inquadramento storico-estetico, che ha per lo più respiro internazionale, e la storia degli autori e delle opere italiani, impostata lungo un asse pressoché esclusivamente nazionale.

3) Tra i protagonisti di questa storia dovrebbero figurare, accanto agli autori della letteratura italiana, anche gli autori non tanto e non solo delle traduzioni, bensì di quelle «prese di posizione» a mezzo di un’opera straniera tradotta che hanno sensibilmente modificato lo spazio dei possibili letterari in Italia.

Quanto all’identità nazionale italiana, intesa come identità culturale – il tema del nostro convegno –, mi viene da suggerire che essa è determinata non solo dai prodotti culturali (o beni simbolici) autoctoni, ma anche e in larga misura dai prodotti culturali d’importazione, o meglio, dai beni simbolici che vengono ri-prodotti nel campo culturale italiano (e che in altri campi non vengono riprodotti: proprio stamattina Jacob Blakesley ricordava come nei paesi anglosassoni le traduzioni costituiscono appena il 3% dei libri pubblicati).

Per riprendere il tema dello ius soli evocato ieri da Gian Maria Testa nel suo concerto e menzionato in molte delle relazioni che abbiamo ascoltato in questi giorni: i libri di cui abbiamo parlato fin qui sono di origine straniera, ma sono nati in Italia (e in un certo senso a Torino). Ed è giusto riconoscere loro la cittadinanza letteraria italiana. Grazie per l’attenzione.

Michele Sisto


[1] Lo stesso Pierre Bourdieu ha osservato che, dal momento che i testi circolano senza il loro contesto, la forma e la funzione di un’opera sono determinate dal campo letterario d’arrivo almeno altrettanto che dal campo letterario d’origine. Il transfer da un campo nazionale a un altro, ha scritto nel 1990, si compie attraverso una serie di operazioni sociali: un’operazione di selezione (che cosa si traduce? chi lo decide? sulla base di quali criteri?), un’operazione di marcatura (marquage), attraverso la casa editrice, la collana, il traduttore, il prefatore, ecc. e un’operazione di lettura, nella quale i lettori applicano al testo categorie di percezione e problematiche proprie di un diverso contesto.

[2] Lo si vede bene in uno dei passaggi chiave dell’Introduzione: « Chi si è formato sui testi dei classici, di Lukács, di Gramsci, e vive in paesi dove la lotta di classe ha ancora un senso, – scrive Solmi nell’Introduzione – non può condividere il pessimismo di Adorno, che, per essere maturato nel quadro di un’esperienza cosmopolitica, non è forse per questo più giustificato. Ciò non toglie che molte delle sue osservazioni trascendano l’occasione contingente e ripropongano temi e questioni non sufficientemente approfonditi dal pensiero dialettico [leggi: marxista]. Troppo del buon senso borghese, del positivismo e dello scientismo ingenuo, è passato, fin dai tempi di Engels, tra le maglie della dialettica materialistica, e ha inquinato e adulterato la teoria. L’esaltazione acritica del dominio sulla natura come forma esemplare e prototipica della prassi, la prospettiva tutta borghese di un progresso ad infinitum una volta eliminate le contraddizioni economiche e l’alienazione sociale, la perversione del realismo marxiano in una teoria borghese o preborghese della conoscenza».

[3] La presa di posizione di Fortini-Einaudi è completamente diversa, sul piano testuale, editoriale, simbolico e politico dalle altre due, analoghe, a cui può essere comparata: l’antologia poetica brechtiana curata da Roberto Fertonani nel 1956 per le Edizioni dell’Avanti, dunque per il Partito socialista, che di per sé legavano la percezione del poeta a un’ideologia; e dall’edizione delle Poesie complete uscita negli anni ’70 (e rifatta nella Pléiade negli anni 2000), in Brecht appare come un classico solo parzialmente attuale. Le Poesie e canzoni del ’59 (e successive edizioni economiche, come quella nella Nuova Universale Einaudi, raffigurata nella foto) costituiscono senza dubbio la presa di posizione più significativa e ricca di conseguenze nel campo letterario, e in particolare poetico, italiano: perché con la sua traduzione Fortini non solo dà una voce italiana a Brecht ma modifica, consapevolmente, la lingua poetica del tempo, influenzando almeno due generazioni di poeti.

[4] Nei termini di Itamar Even-Zohar: nel momento in cui Minima moralia o Faust viene pubblicato in Italia è avvenuto un processo di transfer (o di interferenza) per cui esso entra a far parte a pieno titolo del repertorio (repertoire: l’insieme degli items disponibili e utilizzabili) del (poli)sistema italiano. Corentemente Even-Zohar propone di considerare la letteratura tradotta non come una nebulosa di singoli testi ma come un sistema dotato di caratteristiche proprie (integral system) all’interno del polisistema della letteratura nazionale: la coerenza di questo insieme la cui coerenza è data dal «modo in cui i testi tradotti sono selezionati da parte della letteratura che li accoglie».

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