Un Robinson terminale

Massimo Raffaeli

Ancora nei tardi anni ottanta, a chi d’estate si fosse avventurato in valle Onsernone, nell’alta Svizzera italiana, lungo la camionabile per il villaggio di Berzona, poteva capitare di imbattersi sul ciglio della carreggiata strettissima in un uomo di una certa età ma dal profilo inconfondibile, basso e corpulento, spessi occhiali da astigmatico, il quale risalendo verso casa, una villetta a mezza costa, si appoggiava all’alpenstock. Berzona era un tempo il rifugio degli autori di lingua tedesca (fra gli altri Alfred Andersch, come il sulfureo Golo Mann) e quell’uomo era senz’altro Max Frisch (1911-1991), il grande scrittore zurighese firmatario di romanzi quali Stiller (’54) e Homo faber (’57) nel cui strenuo umanesimo, in realtà un illuminismo radicale e di continuo problematizzato, si combina la lezione di coloro che gli furono maestri e compagni di via, dunque l’immaginario che Friedrich Dürrenmatt sapeva arroventare in minuzie persino teologiche e lo sguardo che Bertolt Brecht, viceversa, era solito portare sulle cose perseguendo un contenzioso dialettico. Berzona è anche il set del penultimo romanzo di Frisch, L’uomo nell’Olocene (traduzione di Bruna Bianchi, prefazione di Sergio Nelli, Einaudi, “Letture”, pp.108, € 17.00), un volume del ’79 già uscito dall’editore torinese nel 1981 e ora meritoriamente riproposto nel momento di disattenzione a una figura infatti poco ricorrente nei cataloghi italiani, se si eccettuano alcuni tascabili Feltrinelli e i diari giovanili usciti di recente nelle raffinate edizioni Casagrande di Bellinzona. Si è appena detto un romanzo ma in effetti L’uomo nell’Olocene del romanzo mantiene la cornice o appena il traliccio. Piuttosto si tratta di un referto, di un diario simulato in terza persona o insomma di qualcosa che intende negarsi sia il diritto a inventare sia, più in generale, a rendere esplicito il pensiero. Qui, nemmeno di vivere, è questione di sopravvivere, come testimonia l’unica osservazione che si potrebbe definire metalinguistica: “In questi giorni i romanzi non funzionano, vi si tratta di persone nel loro rapporto con se stesse e con gli altri, di padri e madri e figlie rispettivamente figli e amanti ecc., di anime principalmente infelici, e di società ecc., come se il terreno per tutto ciò fosse garantito, la terra una volta per sempre terra, l’altezza del livello del mare regolata una volta per sempre”. Con un semplice inciso, Frisch dichiara che in assenza di un terreno comune, se la terra sotto i piedi viene a mancare, l’individuo diventa una monade, un essere al tramonto, deprivato di memoria e destino: ciò vuol dire, in altri termini, che in assenza di un legame sociale il romanzo è impensabile ovvero si trasforma nel gesto temerario (vanitoso, abusivo) di chi prende la parola sottovuoto né sa d’essersi ormai inoltrato nella terra di nessuno.

Perciò l’Olocene di Berzona è un Olocene tragicamente parodistico, dove l’uomo non compare sulla terra ma, all’opposto, vi si eclissa per tornare agli elementi primordiali. È piena estate e piove, piove sempre, non c’è luce elettrica, ogni comunicazione è interrotta, il paese sembra disertato dai suoi rari figuranti mentre la natura circostante pare in preda a sinistre metamorfosi, con tuoni, smottamenti, calanchi che si aprono improvvisi: qui, recluso nella sua villetta a mezza costa, il signor Geiser, settantenne vedovo di Basilea, ex dirigente d’azienda, sta dettando involontariamente a qualcuno il diario del diluvio. O, meglio, un promemoria perché la nebbia acquosa che gli impedisce di vedere fuori è corrispettiva all’amnesia che lo viene divorando dentro. Geiser non ricorda, la sua memoria è un groviglio di frantumi così opachi, inerti, da tradursi in correlativi oggettivi del paesaggio che non ha più sembianze. Geiser gira in tondo, perde progressivamente le nozioni dello spazio e del tempo, ogni suo gesto teso alla costruzione di qualcosa (preparare il fuoco, cucinare, ripararsi dal freddo) si traduce fatalmente in atti di de-costruzione e di resa all’informe: i suoi piccoli ritrovati, quasi un minuscolo kit da sopravvivenza, sempre fanno cilecca oppure si trasformano in minuscole macchine celibi.

Intubato nel proprio Olocene, Geiser è costretto suo malgrado, del tutto inconsapevolmente, a doppiare la vicenda di Robinson Crusoe e a smantellarne tutti quanti i progressi tecnologici, uno ad uno: egli è un Robinson terminale, un self made man che procede rovinosamente a ritroso, un comune discendente dell’Illuminismo che però si inoltra nelle tenebre. Frisch si astiene dal commento e, per allegoria stilistica, ne asseconda il decorso limitandosi riunire i frammenti del diario, un vero e proprio bricolage che Geiser, incollandovi ritagli e foglietti volanti, utilizza per la sua stremata mnemotecnica. Essendogli vietata la lettura dei romanzi, ha strappato le pagine del dizionario enciclopedico in dodici volumi, Der grosse Brockhaus, e, ignaro del motivo che lo ha spinto a farlo, ha poi ritagliato molte voci di argomento geologico e paleontologico, con riguardo particolare alla tipologia dei dinosauri: solo in un barlume di resipiscenza, costui è riuscito a intuire una qualche connessione tra l’imponente sagoma del Tirannosauro disegnato nel dizionario e l’immonda poltiglia di una salamandra che il diluvio gli ha portato in casa. Nient’altro: “Talvolta il signor Geiser si domanda che cosa voglia effettivamente sapere, che cosa, in generale, si riprometta dal sapere”.

Se simili domande vanno a vuoto né prevedono risposta, il senso complessivo dell’allegoria invece chiude a scatto: il 1979 di Frisch e del suo doppio residente a Berzona corrisponde a un Olocene rovesciato e ad un’età di dinosauri redivivi. Tale è l’esito dell’Illuminismo, tale il portato disastroso della sua dialettica: la diagnosi non è ufficializzata ma si evince dall’universo claustrofobico dove si spegne la vicenda del vecchio, laddove lo scrittore ignora il coturno metafisico dei grandi romanzi anni cinquanta e si attiene a una virtù più rasoterra, laconica e ascetica, vale a dire alla sua “precisione implacabile” (come subito la vide Cesare Cases nell’antica recensione a Stiller serbata in Saggi e note di letteratura tedesca, Einaudi 1963).

Frisch non può conoscere la parola “globalizzazione” ma è come se la presagisse, forse nemmeno sa che il suo editore italiano ha appena pubblicato Il pianeta irritabile (’78) di Paolo Volponi, una favola di animali parlanti, di bestie scampate al diluvio della postmodernità capitalista sui calanchi del natìo Montefeltro, ma certo si sorprenderebbe dell’immagine che ne apre la fosca e inaudita parabola: “Piove a dirotto da sempre, senza interruzioni né rallentamenti”. Qualche anno dopo la pubblicazione di L’uomo nell’Olocene, dentro un paesaggio già infestato dai grossi rettili del neoliberismo, Max Frisch volle intitolare Questionario 1987 un discorso universitario pronunciato a Berlino (poi in “Idra”, n.1, 1990). Il suo lascito di umanista e di illuminista disperato è tutto nel quesito rivolto ai manager e ai tecnocrati che, allora come ora, si rendevano garanti della pubblica felicità: “I dinosauri riuscirono a vivere più di 250 milioni di anni: come se la immagina lei una crescita economica che vada oltre i 250 milioni di anni?”. In soccorso a quegli spiriti illuminati, fu sua premura aggiungere tra parentesi: Si può rispondere in stile telegrafico.

                                                                        Massimo Raffaeli

da: “il manifesto”, 22.03.2012

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