Volker Braun, Racconti brevi

 Anna Chiarloni

 La traduzione con testo a fronte di questi racconti degli anni Novanta appare quanto mai opportuna. Colpisce infatti la loro drammatica attualità. Perché se all’uscita in Germania i temi trattati apparivano collegati ai problemi connessi con la riunificazione tedesca, oggi in quei cinque brevi racconti riconosciamo figure di una quotidianità ormai globalizzata.

Prendiamo Matthes, l’operaio specializzato licenziato con i suoi compagni, spaesato davanti ai cancelli della fabbrica, alla fine irriconoscibile persino a se stesso, in un mondo in cui “solo il boss ha diritto di parola” (I quattro utensilisti). Matthes, che ancora ha l’illusione di una glasnost stampata sulle bretelle rosse, segnacolo di una promessa disdetta, è assai simile a uno dei tanti nostri operai liquidati, sfocati e confusi in attesa nelle liste di collocamento. E come non pensare ai lavoratori della Wagonlits, che da dicembre dormono sulla torre della stazione di Milano, leggendo di Zarach, l’ingegnere russo disoccupato che ha trovato riparo in un vagone ferroviario dismesso? (Così stanno le cose). Certo, nella steppa postsovietica il degrado è totale, i binari “vanno verso il nulla”, forse verranno venduti, girano armi e l’orizzonte è quello siberiano, ma anche queste sono figure – cito da un recente intervento di Braun – “finite nella centrifuga della crisi che separa la panna dei ricchi dal latte scremato della paga minima”. E beffarda, o meglio: archeologica, risuona la parola rivoluzionaria del kolkosiano Tret’jakov sulle labbra di chi, come Zachar, ha perso col lavoro il senso dell’esistenza.

In questi anni di transizione la scrittura di Braun si screzia di frammenti erti sui piombi dello stampatello, interstizi in cui l’autore procede à rebours attraverso le sabbie mobili del socialismo reale o ancora indietro nel passato, fino alle ceneri del nazismo – un debito, questo, non estinto nella coscienza degli intellettuali tedeschi. In Frase senza fondo, l’autore morde col linguaggio di corpi incuneati nel frastuono di una miniera a cielo aperto, allineando immagini di furore in un ansito narrativo che denuncia la violenza perpetrata al “guscio caldo” della natura da una ratio prevaricatrice, incardinata in una moderna economia che è “tradimento della terra”, scasso militarizzato di paesaggio e tombe e memorie, condotto da ceffi in “un’armatura senza tempo: stivali russi e cinturone con la svastica”. Ma se qui s’intravede ancora l’incombere della cortina di ferro, altrove la visuale si sposta sul mondo occidentale a confronto con il fenomeno dell’immigrazione e allora sono i vinti del mondo al centro della scena, profughi in arrivo dall’inferno della miseria che pongono domande cui il lettore è chiamato a rispondere. Quello che si vuole davvero è ambientato nella campagna toscana. Due giovani albanesi, Gjergj e Luisa, irrompono selvatici e affamati nella pace di Giorgio e Lucia, una coppia di anziani – lui un accademico in pensione. L’analogia dei nomi sembra alludere a una possibile comunanza. È un’illusione. I ragazzi vengono accolti e rifocillati ma sono clandestini e quindi “non persone” ‒ Unmenschen, come sentenzia Lucia: è la spia linguistica di un razzismo (hitleriano) che compromette qualsiasi intesa, fino al sanguinoso epilogo finale. L’esito negativo segna anche l’ultimo testo, Cosa ci aspetta? Prova simpatia, il lettore, per Borges, il vecchio architetto di Rio che, “quasi con la forza”, toglie dalla strada il ragazzino meticcio che si prostituisce per sopravvivere. Qui è l’imposizione di un progetto pedagogico che fallisce: troppo tardi arriva il “paradiso” per quella creatura scaltrita, minata nel corpo e nell’anima da un’infanzia nelle favelas. Fuggirà, il rasoio in mano, nella vita di prima, per tornare con un branco di ladruncoli, sorprendendo nel sonno il suo benefattore. Il testo s’interrompe. Dunque nessuna speranza? No, sembra dirci Braun: perché il dono individuale di chi è sazio non basta fino a che “POVERO E RICCO sarà la regola del mondo”.

Postscriptum. Si cominci dalla postfazione, è un’ottima introduzione alla lettura.

Anna Chiarloni

 Volker Braun, Racconti brevi, trad. dal ted. con testo a fronte di F. V. Aversa, A. Gilardoni, A. Murelli, D. Nelva, postfazione di Karin Birge Gilardoni-Büch, Milano, Mimesis, 2011, 120 p.

da: L’INDICE, aprile 2012

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