Le vie degli scrittori dopo l’89: Günter Grass e Christa Wolf

[Questo articolo, che era nato come recensione a Da una Germania all’altra di Grass ed è cresciuto fino a diventare un’altra cosa, è apparso tra i Segnali dell’ultimo numero dell’Indice dei libri del mese (n. 7/8, luglio-agosto) con il titolo Le vie degli scrittori dopo il 1989: Günter Grass e Christa Wolf. La dittatura dell’economia, la depressione degli intellettuali, l’elaborazione del lutto. M.S.]

Michele Sisto

«La dittatura dell’economia, che temevo si realizzasse solo tra vent’anni, potrebbe diventare realtà molto più rapidamente», scrive Günter Grass in una delle ultime pagine del suo Da una Germania all’altra. Diario 1990 (trad. di Claudio Groff, Torino, Einaudi, 2012). È il 16 gennaio 1991, vigilia della prima guerra del Golfo. Subito dopo aggiunge: «La mia decisione dicembrina, alquanto bizzarra, di imparare finalmente ad andare in bicicletta con l’aiuto di Ute l’estate prossima a Møn, al momento mi sembra più importante». Che nesso c’è, viene da chiedersi, tra l’instaurarsi della «dittatura dell’economia» e la tentazione della bicicletta, ovvero di prendersi una vacanza dal ruolo e dagli obblighi dell’intellettuale?

Nella prima pagina del diario lo scrittore si ritrae nel suo retiro portoghese nell’atto di «piantare un alberello», un gesto che avvicina il «senzapatria» Grass al modello (in)discusso dell’intellettuale tedesco del Novecento, Brecht: come nelle sue poesie dell’esilio, la natura fa da sfondo ai dubbi dello scrittore sulla necessità e utilità del proprio impegno politico. Grass preferirebbe raccogliere funghi o lavorare al suo nuovo libro, ma «il maldipancia tedesco-tedesco» reclama il suo tributo. Si accinge quindi, diligentemente, ai suoi «doveri»: nel corso di un anno segue quattro campagne elettorali e relative votazioni, scrive una mezza dozzina di discorsi polemici, partecipa al congresso della Spd a Lipsia, a una visita di Stato in Polonia, a un convegno organizzato a Oslo da Elie Wiesel, a una tavola rotonda a Parigi con Mitterrand e a svariati altri incontri, letture, presentazioni. Non si ferma mai più di due settimane nello stesso posto: un intellettuale impegnato.

L’obiettivo è scongiurare una riunificazione orchestrata da Bonn come annessione coloniale della Ddr da parte della Brd. Le sue posizioni sono note al lettore italiano attraverso gli interventi raccolti in Discorso di un senza patria (Leonardo 1990) e il romanzo È una lunga storia (Einaudi 1998): alla «grande Germania» di Kohl, «autoritaria, patetica, gioviale, dura e condiscendente, potente e fintamente innocua», Grass contrappone ostinatamente l’idea di una federazione tra i due stati tedeschi, una «Germania possibile, ricca nella sua varietà». Fin dall’inizio Grass coglie il pericolo implicito nella scelta di puntare tutto sull’economia a scapito della democrazia: leggendo queste pagine oggi, la riunificazione delle due Germanie ci appare come la prova generale di un nuovo «modello di ordine cosmico» contrassegnato dal dominio della finanza e da una politica dirigista, e spalleggiato da un sistema mediatico dal quale è messa al bando ogni forma di critica radicale.

Uno dei passaggi necessari per l’instaurazione di questo nouveau régime è la liquidazione degli intellettuali critici: proprio i cruciali mesi della «svolta» sono caratterizzati da una serie di aggressioni giornalistiche agli scrittori più rappresentativi. Il diario di Grass testimonia dolorosamente lo sbando della categoria sotto il fuoco di fila dei giornalisti mediatici – i Reich-Ranicki, i Karasek, gli Schirrmacher – decisi a strapparle una volta per tutte la «sovranità ermeneutica». La vecchiaia, la malattia e la morte incalzano i compagni delle battaglie d’un tempo, da Hans Werner Richter a Friedrich Dürrenmatt; l’unità di intenti e il reciproco sostegno si sfaldano, mentre il «facondo furbetto» Enzensberger fa le sue «giravolte» alla radio. Sempre più isolato, pochi giorni dopo l’entrata in vigore del trattato di riunificazione Grass riconosce in sé i sintomi inequivocabili della depressione: «È come se a ogni cosa mancasse l’aria».

Lo scrittore reagisce in modo simile al Nanni Moretti di Aprile, che stanco di seguire le avvilenti campagne elettorali italiane monta sulla sua Vespa e se ne va a zonzo per le strade di Roma, per poi dedicarsi a quel musical sul pasticcere trotzkista che da tempo desidera girare. «Sbarazzarsi del ciarpame politico! Dimenticare i doveri», scrive Grass. Al posto della Vespa ha la bicicletta, al posto del musical «il romanzo sulla Berlino di Fontane». L’euforia creativa gli restituisce il buonumore.

Ma, pur cedendo per qualche momento alla tentazione della bicicletta, Grass non rinuncia affatto a vestire gli abiti dello scrittore che «si intromette», come testimoniano, accanto alle opere, la calcolata rivelazione dei suoi trascorsi giovanili nelle SS e la recente poesia sugli armamenti atomici di Israele. Ripropone anzi ostinatamente modalità di intervento collaudate negli anni d’oro del Gruppo 47, senza considerare che il «mutamento strutturale della sfera pubblica» (Habermas) le ha private di efficacia o, peggio, le ha trasformate in qualcosa di intrinsecamente ambiguo. Non è solo per opportunismo o individualismo, com’è stato loro rimproverato, che gli scrittori nati dagli anni ’60 in poi si guardano dal raccogliere il testimone delle generazioni precedenti, oscillando tra l’ostentato disimpegno dei Popliteraten e la ricerca di forme nuove di esercizio della rappresentanza universalistica.

Chi, invece, si rende conto assai presto della trasformazione in corso e cerca di affrontarla con lucidità è Christa Wolf. Non a caso: più ancora di Grass la scrittrice, che alla riunificazione oppone la necessità di democratizzare la Ddr al suo interno, è oggetto di violente campagne mediatiche, accusata prima di complicità col regime comunista, poi di collaborazione con la Stasi. «Mi si chiedeva sfacciatamente un’ammissione di colpa come biglietto d’ingresso nel mondo dei media occidentali», scrive nel racconto del 27 settembre 1990 (Un giorno all’anno. 1960-2000, trad. di Anita Raja, Roma, E/O, 2006). Anche per Wolf, dunque, la delegittimazione sul piano pubblico coincide con lo scacco sul piano politico. Il risultato è lo stesso: depressione. Ma il modo di affrontarla è assai diverso.

Wolf si ritira dalla scena pubblica («Per tornare presente a me stessa ho bisogno di calma e di una vita ritirata, questo lo so per certo») e prende a interrogarsi sulle nuove condizioni poste allo scrittore che intenda intervenirvi, condizioni paradossalmente non dissimili da quelle di cui aveva fatto esperienza per decenni nella Germania socialista: «Qual è il livello di integrazione che gli intellettuali possono consentirsi senza perdere la propria identità?» Ma anche: senza nevrotizzarsi nel dissidio tra i «doveri» e la «bicicletta»?

Lo scarto rispetto a Grass si osserva in particolare nell’atteggiamento verso il diario: mentre lo scrittore pubblica il proprio a distanza di vent’anni senza aggiungere una riga di commento, per gli stessi vent’anni Wolf continua a rielaborare gli appunti presi giorno per giorno durante il periodo trascorso a Los Angeles nel 1992-93: prima nei racconti di Con uno sguardo diverso (E/O 2008), poi nel grande romanzo La città degli angeli ovvero The overcoat of Dr. Freud (trad. di Anita Raja, Roma, E/O, 2011). Al diario in pubblico dell’intellettuale virilmente «impegnato» viene così a contrapporsi l’indagine interiore (necessariamente “femminile”?) di una scrittrice che tenta di ridefinirsi mettendo in discussione non solo la propria legittimazione sociale, ma anche il proprio Io e – questa è la mossa decisiva – la civiltà che gli dà forma.

Quella che inizia come anamnesi freudiana si libera ben presto del «cappotto del dottor Freud», vale a dire della psicoanalisi come mezzo di contenimento dell’individuo all’interno della norma sociale vigente, per risalire alle origini del disagio della civiltà. Il ruolo dell’intellettuale è così riaffermato su un piano più alto e universale: quello della Zivilisationskritik. Nella Città degli angeli la questione tedesca viene drasticamente ridimensionata dall’irruzione di un’altra, più decisiva questione: «Dove stiamo andando?»

Anche Wolf, come Grass, si considera in esilio, e come lui si richiama a Brecht, non però per assumerne la postura, ma per recuperare le ragioni profonde della sua opposizione all’esistente. Più importante della riunificazione è per lei l’«irrealtà» che dopo l’89 si è impadronita non solo della Germania ma del mondo intero. E l’«estraneità» che ne deriva. Wolf prende atto: il comunismo storico novecentesco è fallito. D’altra parte non possiamo nasconderci, specie ora che il «terrorismo dell’economia» si sta manifestando senza più veli, la perversione dell’ordine economico capitalistico. Che fare? «Siamo costretti a vivere in base a una norma interiore incerta e senza una morale adeguata, ma non ci è consentito ingannarci oltre. Non vedo come andrà a finire, scaviamo in una galleria buia, ma dobbiamo scavare».

Nello scandagliare il rimosso della propria biografia, Wolf va approssimandosi al «punto cieco» della civiltà contemporanea, facendo affiorare ciò che non è dicibile (o che, se detto, non deve avere conseguenze): la storia di repressione e sfruttamento su cui essa si fonda, la precarietà della condizione umana, l’ineluttabilità della morte, l’aspirazione alla felicità condensatasi negli ideali di libertà, uguaglianza, fraternità e, infine, la coscienza religiosa di un qualcosa di trascendente, di uno «spirito» che «aleggia intorno a tutti noi». Wolf scrive così un’opera straordinaria, che non solo riassume in sé quanto negli stessi anni Grass ha realizzato per tasselli isolati – un Wenderoman (È una lunga storia), un’autobiografia (Camera oscura), un bilancio del Novecento (Il mio secolo) – ma fornisce un nuovo modello sia di stile che di rappresentanza dell’universale agli scrittori che verranno.

Non ci si può qui soffermare sullo stile tardo di Wolf, che porta a perfezione la tecnica del “dialogo interiore”. Sarebbe peraltro incongruo confrontare due opere di statuto così diverso come La città degli angeli e il diario di Grass. La diversa reazione dei due scrittori allo scacco del 1989/90 ci stimola però a riflettere sulla condizione degli scrittori al tempo della «dittatura dell’economia» e dell’«irrealtà». In che misura è ancora possibile tenere la scena onorando gli impegni dell’intellettuale (magari agognando poi la bicicletta)? Fino a che punto la nevrotizzante fatica di intervenire criticamente nelle questioni all’ordine del giorno sortisce ancora un qualche effetto? O forse, data la situazione, diventa prioritario sottrarsi all’ordine del giorno, riappropriandosi dello spazio e del tempo per imparare faticosamente a fare le domande giuste? Per tornare a chiedersi: «Dove stiamo andando?»

Michele Sisto

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