«Un fuorilegge della critica»: Cesare Cases critico militante negli anni cinquanta

immagine via www.dan-dare.org

Michele Sisto

Qual era il tipo di critica che tu sostenevi?
Quella che non interessa solo ai critici.
(Intervista a Cesare Cases)

Sia o non sia stato lo stesso Cesare Cases a definirsi, sulla quarta di copertina del Testimone secondario, un «fuorilegge della critica», certo l’espressione è indovinata. Se infatti fin dalla metà degli anni cinquanta calibri come Contini, Fortini e lo stesso Lukács gli riconoscono la patente di critico, altrettanto precoce è la sua fama di recensore indocile e intransigente polemista. Gran parte dei suoi interventi militanti sono contro gli autori e le opere maggiormente celebrati dalla critica. Soprattutto sul versante della letteratura italiana: in ampie recensioni, che non di rado tracimano in veri e propri saggi critici, Cases dice, in sostanza, no al Metello di Pratolini, no al Barone rampante di Calvino, no al Pasticciaccio di Gadda, per non parlare della neoavanguardia, alla quale opporrà i suoi no fino a tutti gli anni sessanta.

A causa di tali valutazioni controcorrente – la serie dei no si allungherà di parecchio nei decenni successivi, mentre altrettanto controcorrente e in anticipo sui tempi sarà il suo sì a Primo Levi – l’attività critica di Cases è ancora oggi controversa e in larga misura rimossa[1]. Nella ristretta cerchia dei critici militanti egli è per lo più additato come esempio vitando di critica “ideologica”: per Giorgio Manacorda, ad esempio, Cases è un «critico militante assassino, un vero militare, attrezzato solo per distruggere», uno che ricorre al «simulacro dell’ideologia» per non ammettere la propria fatale dipendenza dal vivo «albero della letteratura»[2]. Su posizioni opposte, ma minoritarie, sono altri critici, che come Pier Vincenzo Mangaldo, Alfonso Berardinelli o Massimo Onofri, considerano Cases un maestro, facendone il rappresentante di una critica che non si limita al testo ma ha il coraggio e la capacità di aggredire il contesto. In un recente sfogo sulla desolazione della critica nel tempo in cui «tutto è merce», Goffredo Fofi, bersagliando da una parte un’università che disseziona le opere «come fossero cadaveri» senza più sapere «per chi e perché» e dall’altra un giornalismo ridotto a mera informazione pubblicitaria, indica come antidoto proprio una critica di questo tipo. Far critica, scrive,

non è soltanto spiegare e discutere un libro un film un concerto una mostra, è ampliare il quadro, è ricollocare le opere nel loro contesto (anche di mercato), è vederne e svelarne quasi sempre la superfluità e serialità e la funzione di anestetizzante dei bisogni veri del fruitore, è porsi domande molto più generali a monte della “semplice” recensione, è spiegare a se stessi e al lettore (e all’autore) la ragnatela del contesto. Capire, qualcosa di più della singola opera, e spiegare, dandosi anche, necessariamente, una funzione “pedagogica” […]. Questo compito sono ben pochi a darselo, perché a loro va bene il mondo così com’è, anche se è il compito che dovrebbero darsi oggi più che mai. È parlare non solo di romanzi e film, canzoni e quadri, ma del mondo tremendo in cui vengono prodotti e in cui autori critici fruitori ci troviamo a vivere[3].

Su questo sfondo, a contrasto con l’oggi, credo sia utile tornare sulle esigenze che, soprattutto tra il 1953 e il ’58, portano Cases a cimentarsi con la critica militante. Proprio perché le soluzioni da lui proposte appaiono, a distanza di anni, inattuali – mentre le sue lucide e spregiudicate analisi restano spesso valide – riportarle alla luce significa rimettere in discussione il nostro punto di vista, spesso condizionato da larghi margini di inconsapevolezza, e ripensare il compito della critica, l’organizzazione della cultura e l’auspicabile sviluppo della letteratura.

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[1] Si veda ad es. la voce Cases a firma di Riccardo Stracuzzi in A Pocket Gadda Encyclopedia, a cura di Federica G. Pedriali, «The Edinburgh Journal of Gadda Studies», Supplement n. 1, 3° ed., 2008.

[2] Giorgio Manacorda, Apologia del critico militante, Roma, Castelvecchi, 2006, pp. 26-27.

[3] Goffredo Fofi, Morte della critica, «Lo Straniero», XIII, n. 107, maggio 2009, p. 119.

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