Cases honoris causa

[Riprendiamo dal ‘manifesto’ questo articolo uscito il 1 luglio 2003 in occasione del conferimento della Laurea honoris causa a Cesare Cases. M.S.]

Massimo Raffaeli

Una laurea honoris causa a chi ha sempre ammesso di non saper scrivere una monografia accademica come si deve e di aver avuto a suo tempo una cattedra in maniera pressoché fortuita, costituisce un doppio paradosso, ed è persino un’eterogenesi dei fini per colui che rimane il più grande germanista nonché uno dei massimi saggisti del secondo Novecento: fatto sta che Cesare Cases ha ricevuto ieri all’Università di Bari la laurea honoris causa in Lingue e letterature straniere, proponendo una lezione magistrale il cui titolo, Grandezza e decadenza del romanzo giallo, ne conferma con implicita ironia la vocazione di battitore libero, fuori dai recinti e dalle piccole liturgie disciplinari. (Del resto un erudito, e nella fattispecie uno straordinario erudito, che sia allo stesso tempo un uomo libero, un critico penetrante e dissacrante, somiglia ad un extraterrestre per l’università italiana). Dottrina, ironia, l’esprit che condivide col maggiore degli antenati (l’abate Galiani, nel suo caso sprovvisto di parrucca e precocemente convertito al marxismo) di tutto gli hanno fatto dubitare meno che dell’idea, umanista e insieme hegeliana, secondo cui oggetto della letteratura è la totalità o integrale storicità dell’esperienza. Nel secolo che ha separato le parole dalle cose, istituendo la metafisica dei significanti, Cases ha agito il credo minoritario di chi continua invece a interrogare le parole, fossero le più algide e geroglifiche, alla ricerca di un significato, cercando un (una verità magari occlusa o denegata) laddove tutto, cioè lo stato di cose presenti e le poetiche dominanti, sembrerebbe replicare all’infinito un no.

Ciò gli ha guadagnato, presso alcuni, la fama di contenutista quando si limitava, viceversa, a demolire i tabù secolari dell’avanguardia e dello strutturalismo. (Chi ad esempio sospettasse del suo orecchio per la poesia, non avrebbe che da aprire il recente volume de “L’ospite ingrato”, annuario del Centro Studi Franco Fortini di Siena edito da Quodlibet, dove si contiene il carteggio con Fortini alle prese, nientemeno, con la traduzione del Faust: mantenendo per finta la parte dello specialista un po’ sordo, Cases in realtà vi furoreggia e tiene testa al poeta con una miriade di rilievi d’ordine linguistico, stilistico e metrico ).

È vero che adora Manzoni, che continua a fare il tifo per Thomas Mann, che è perfino l’allievo italiano di Lukács, ma è vero altrettanto che grazie al suo lavoro di studioso e consulente il catalogo Einaudi  annovera i titoli di Adorno, Benjamin, di Brecht, Dürrenmatt ed Enzensberger, vale a dire il meglio dell’avanguardia, tuttavia liberata dai filtri e dai complessi dell’avanguardismo. (A proposito di Einaudi: la stampa dell’opera completa di Cases, a cura ottima di Luca Baranelli, è ferma, da ben tredici anni, al volume Il boom di Roscellino. Satire e polemiche; e il fatto che  il suo primo e fondamentale volume, Saggi e note di letteratura tedesca 1963, sia dovuto riuscire l’anno scorso solo in anastatica – per cura di Fabrizio Cambi, con un’intervista all’autore di Anna Chiarloni, Editrice Università degli studi di Trento – è qualcosa di misterioso e direi, per lo Struzzo, di francamente vergognoso. Se la laurea barese servisse a rammentarlo, avrebbe già assolto il proprio compito).

Scrittore di note, risvolti, prefazioni, maestro del saggio breve (fondando nel 1984 la rivista “L’Indice”, fornì un asciutto vademecum ai recensori che fa il paio, per acume e chiarezza, col Polonio dei letterati di Edmund Wilson) Cases ha tra l’altro firmato un bellissimo racconto di formazione, Cosa fai in giro? (poi raccolto in Il testimone secondario, Einaudi 1985), un testo autobiografico incentrato sulla vicenda della discriminazione razziale che, ad esempio, Grazia Cherchi giudicava fra i classici del tardo Novecento e che meriterebbe, finalmente, un’autonoma edizione. Sue sono anche le sapide, e ovviamente molto poco accademiche, Confessioni di un ottuagenario (Donzelli 2000, nuova ed. accresciuta 2003), dove si leggono in epigrafe i versi del Parini imparati a memoria in un vecchio ginnasio milanese: “Me, non nato a percotere/ le dure illustri porte,/ nudo accorrà, ma libero,/ il regno della morte./ Né ricchezze né onori/ con frode e con viltà/ il secol mercatore/ mercar non mi vedrà.”

Questo forse non c’è scritto sulla pergamena barese, ma ne è ancora il viatico ideale.

                                                                               Massimo Raffaeli

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