Una certa idea di mondo

[Recentemente sulle pagine culturali de La Repubblica Alessandro Baricco ha parlato di Kein Ort. Nirgends (Nessun luogo. Da nessuna parte, 1979) di Christa Wolf . C.M.]

Alessandro Baricco

Ogni tanto, stufi del bello scrivere degli anglo-americani, smerigliato e insopportabilmente giusto, si torna a un certo scrivere europeo, immensamente meno confezionato, così incauto e ambizioso, irregolare. Va da sé che ci vuole più pazienza, e più dedizione – forse addirittura più cultura e gusto – ma talvolta è un ritorno glorioso.

Nessun Luogo. Da nessuna parte è secondo me il capolavoro di Christa Wolf, con buona pace di Cassandra. Quando lo lessi la prima volta – era un edizione Bur, e io ancora mi annoiavo a leggere Hemingway – ero abbastanza giovane da rimanerne folgorato: fu un’epifania scoprire cosa riusciva quella donna a fare con il marmo severissimo della sua scrittura, le curve e le morbidezze che riusciva a suscitare col suo scalpello. Non avevo mai letto qualcosa di più gelidamente tiepido. Ed era tutto commovente, senza mai smettere di essere severo.

Molti anni dopo, la riedizione della e/o me l’ha fatto ritornare sotto gli occhi, e mi ricordo che lo aprii temendo molto, perché gli amori dei trent’anni hanno spesso una scadenza, come gli yogurt. E invece era ancora lì, quella bellezza inimitabile, intatta ed evidente, perfino resa più preziosa dal mio aver imparato, nel frattempo, le domande a cui quel libro rispondeva. Non vorrei, con questo, generare false aspettative: è un libro tosto, per lettori forti, e anime sghembe. Astenersi perditempo e lettori di thriller.

Accade tutto in un salotto borghese, un pomeriggio del 1804, a Winkel sul Reno – benché accadere non sia probabilmente il termine giusto, se non per quelli che lo applicano anche a cose invisibili, micromovimenti dell’anima, frasi appena pronunciate. Gli altri direbbero che non accade nulla. Nel mite salotto borghese, dove buona educazione e disciplinata intelligenza sono la regola, il caso ha riunito due anime irregolari, un uomo e una donna, giovani, scandalo e attrazione della compagnia. Lui se ne sta in un angolo, le dita strette sul bracciolo della poltrona, le nocche bianche: un naufrago che si tiene aggrappato. Lei ha una qualche bellezza che la tiene al centro dell’attenzione, e un’intelligenza che è come un gorgo a cui la gente si avvicina per curiosità e si allontana per prudenza. Non si erano mai visti prima. In quel salotto si conoscono, dunque, ma la parola giusta, qui, è, ovviamente, riconoscono. Belli i loro nomi: Kleist, lui, Günderrode, lei. Christa Wolf li prese in prestito dalla Storia: sono due personaggi effettivamente esistiti, entrambi poeti, entrambi morti suicidi. Non sembra che nella realtà si siano mai incontrati. Nel libro si sfiorano, e tanto basta a farli sembrare due lancette sorelle, sul quadrante del mondo, a segnare un’ora irragionevole e malata.

Se avete esperienza diretta del male che fa un eccesso di sensibilità, in questo libro ritroverete le parole che lo pronunciano, con ferocia e delicatezza. Qua e là, perle magnifiche. C’è anche la più elegante dichiarazione d’amore che io abbia mai letto: «Volevo dirLe che sarebbe certo una cosa terribilmente innaturale che noi due non diventassimo amici strettissimi». Proprio nella prima pagina c’ è una citazione di Kleist, quello vero, che a lungo mi è parsa tutto ciò che avevo da dire di me stesso: «Dentro di me io porto un cuore, come una terra del Nord il germe di un frutto del Sud. Si sforza, si sforza, ma non riesce a maturare» (mi sopravvalutavo, è ovvio, ero giovane). E, in mezzo a tanti pensieri incerti, mi ricordavo bene quella frase, una, brillante di sicurezza: «Se smettiamo di sperare, succede quel che temiamo, questo è certo». Perle.

(Parentesi riservata ai lettori abituali di questa pagina. La risposta che la Wolf dà alla domanda «Cosa sanno fare gli intellettuali», è la seguente: sanno dare i nomi alle cose. Pur nella mia deferente ammirazione per la gente di montagna, di cui subisco stupidamente il fascino, non riesco ad esempio a dimenticare la curiosa circostanza per cui, per lungo tempo, le vette delle montagne non hanno avuto nomi. La tanto sapiente gente di montagna dava un nome ai colli, ai passi, perché era utile darglieli, ma non era arrivata alla sublime astrazione di nominare vette su cui non era mai salita, poiché era inutile farlo. Solo quando in qualcuno insorse l’irragionevole istinto a salire là sopra, per il puro gusto di portare a compimento la Creazione, nacquero i nomi delle montagne. Lo stesso vale per la geografia più invisibile dell’umana sensibilità. Quel che è proprio degli intellettuali, che siano poeti o studiosi, è salire su vette apparentemente inutili del sentire umano e dar loro un nome.

Nel caso specifico, Kleist e la Günderrode nominano le vette di un dolore che prima avevano scalato e poi, degni di farlo, nominato: la loro precisione è spettacolare. Da allora, milioni di persone, dal fondo valle, possono alzare lo sguardo e percepire quelle vette come se gli appartenessero, e questo per il solo fatto che ne posseggono il nome, amabilmente portogli dal lavoro massacrante di qualcuno più ardito di loro.)

Alessandro Baricco

da: La Repubblica del 18 marzo 2012, sezione: Cultura, p. 56.

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