Il cogito di Grünbein

Günter Grass, Das Treffen in Telgte (1979)

Massimo Raffaeli

È un luogo comune ricordare come Cartesio ricevette in stato sonnambolico la premonizione della filosofia che avrebbe riassunto nel Discorso sul metodo. Poco più che ventenne, bloccato dalla neve dentro una stamberga dalle parti di Ulm, visse infatti una notte di sogni esaltanti dove presero forma (alla maniera d’un inventum mirabile, così poi scrisse) le intuizioni di una logica capace di fondarsi quale scienza universale. Nel 1619 è già iniziata la Guerra dei Trent’anni e Cartesio, militare di carriera, oscilla tra i cattolici e i protestanti che peraltro egli ama di un amore ben dissimulato: conosce la triste fine di Bruno e Galileo, perciò paventa i fulmini dell’Inquisizione tenendosi in petto l’amore, che durerà una vita, per i Paesi Bassi, vale a dire per la libera manifestazione del pensiero e per la stampa non sottoposta a censura.

D’allora non perdona
il gracchiare dei corvi neri in cattedra.
Né la chiacchiera degli oscurantisti.
Però prudenza, amico! Non viene risparmiato chi combatte.
Se gira il vento, perde le sue penne
anche il più audace uccello. Pensate all’uomo che umiliò la terra
a semplice satellite. D’allora è fuorilegge.
Se ne dicono tante – e si smentiscono – se il potere minaccia.
Fra opinioni uniformi raro giova gridar lieti ‘Ho capito!’
Che lo pagate con la vostra vita,
riflettete, Monsieur.

È la morale del buon senso, anzi sono le parole gravi e ammonitorie del servo Gillot, voce che risuona a contrappunto in Della neve ovvero Cartesio in Germania (a cura di Anna Maria Carpi, Einaudi), lo splendido poema, agibile come una partitura teatrale, che il cigno nero della poesia tedesca, Durs Grünbein (nato a Dresda nel ’62, noto in Italia per la precedente silloge di A metà partita, ancora Einaudi 1999), dedica al frangente essenziale della vita del filosofo nei modi tanto di una diatriba sul percepire/pensare/scrivere quanto di un’ininterrotta dichiarazione di poetica, sia pure espressa en travesti.

La guerra preme oltre la cornice del quadro; prima che un’eco, essa manda rimbombi ovattati, si manifesta per segni obliqui e sinistri. D’altra parte, il paesaggio appare sempre immobile, chiuso nella morsa del gelo bianco, inerte, nascosto dal dilagare di una luce accecante e rifrangente a oltranza. Non a caso i fenomeni di rifrazione luminosa sono oggetto di studio, per Cartesio; altrettanto non a caso, per il poema di Grünbein, costituisce un possibile modello il capolavoro di Wallace Stevens, Tredici modi di vedere un merlo, asperrima ricerca di un senso esistenziale nella propagazione indistinta del bianco, di un candore niveo che sembra impedire, qui-e-ora, ogni movimento umano, ogni accesso possibile e condivisibile alla verità. L’immagine inaugurale del poema assomiglia la nevicata a una scrittura retroversa, a un nero negativo che scende sulle cose e le contorna, le decifra proteggendole nel manto più soffice. “Placato ogni pensiero, un invito a studiare”, scrive Grünbein: il dialogo continuo tra servo e filosofo ribadisce che non esiste azione cronologica ma appena un discrimine topografico, o meglio un riparo e un diaframma tra dentro e fuori; da una parte sta l’indistinto del freddo, il colore monotono e accecante, il tonfo lontano della guerra, dall’altra il calore recluso di una stanza che sa di stalla, un giaciglio su cui meditare (è noto che Cartesio non si alzava mai prima di mezzogiorno), le pareti umide in cui fissare il diagramma di ascisse-ordinate, sperando nella soluzione del senso.

Figlio del Postmoderno, Grünbein sa bene, di riflesso, che il secolo di Cartesio corrisponde alle vertigini del Barocco: per entrambi, la posta in gioco consiste dunque nell’oltrepassare il troppo pieno che annuncia il vuoto, nell’invocare la tabula rasa come preliminare di una procedura metodica, infine nel cercare di connettere un ordine (il disegno, lo schema, la cifra) laddove tutto quanto si manifestava prima come abnorme caos. Anche per questo il classicista e talvolta solenne Grünbein sfida se stesso e la sua propria maniera cimentandosi con l’esapodia giambica, il verso alessandrino dei poeti barocchi, cioè tentando la chiusura in rima di un universo altrimenti aggettante e centrifugo, nei prolungati e di continuo variati affondi d’un virtuosismo che Anna Maria Carpi, poetessa a sua volta, restituisce con precisione non già per via mimetica (ché ne sarebbero probabilmente discesi gli esangui bisettenari del secentista Pier Jacopo Martello già parodiati da Gozzano) ma sfruttando l’intera gamma del nostro endecasillabo liberamente accorciato e allungato.

Se tuttavia le convulsioni del Barocco nonché, a distanza, gli intasamenti del Postmoderno presagiscono il vuoto e il rigor mortis, la seconda e più breve sezione di Della neve, vera e propria appendice allegorica, fissa l’agonia di Cartesio. Si è ormai nel 1649, la guerra è finita in un atroce pareggio con la pace di Westfalia; stanco, invecchiato, gonfio e rubizzo come il bevitore dipinto da Frans Hals, il filosofo compie il suo ultimo viaggio verso la Svezia della regina Cristina. Lo aspettano, ancora una volta, neve e gelo universali, pari allo scetticismo e all’aperta incomprensione dei suoi simili. Segno che il caos, una volta di più, si mostra refrattario alla chiarezza cognitiva e all’ordine delle severe matematiche. La vittoria del caos, pari alle stragi della guerra, annuncia una volta per sempre la signoria della morte sulla fragilità del corpo e sul flebile lume della ragione. Quel lume appare anzi un residuo, una pura efflorescenza, un fuoco fatuo:

Che cosa oblìa per ultimo un morente? Il proprio nome?
O quando è nato? Come? L’alfabeto?  […]
Lui lucido. Le palpebre pesanti ancor levate, o voluttà, e il gran naso.
Un’effigie barocca, un’effigie da libro.
Poi crollò, riverso, nella neve. E qui congela.
Nessun battito più sotto lo sterno. Descartes, encore…

Anni fa, quando il Muro di Berlino era alto e invalicabile, quando Durs Grünbein era appena un ginnasiale Ossie, questioni simili dovette porsele un tedesco occidentale, autore grande e discontinuo, in tutto differente da lui, e cioè Günter Grass che scrivendo L’incontro di Telgte (1979, forse il suo capolavoro) immaginò sul finire della Guerra dei Trent’anni, e proprio nella città-santuario di Westfalia, un incontro organizzato dai maggiori letterati tedeschi al fine di conoscersi e leggere a vicenda le loro opere; tema del raduno era la lingua materna, specchio della frantumazione geografica e politica del paese: “Dove tutto era devastato, brillavano soltanto le parole”, scrive Grass, a riprova che nella lingua, e specie nella lingua della poesia, costoro, razionalisti e pacifisti per forza di cose, finalmente riconobbero una matrice che potesse affiliarli al di là di divisioni antiche e tanto sanguinose. Perciò, nel lasso che intercorre tra il sostanziale ottimismo del socialdemocratico Grass e il glaciale razionalismo offerto oggi in olocausto dall’impolitico Grünbein di Cartesio in Germania, chiunque saprà individuare un’ulteriore calamità dei tempi.

Massimo Raffaeli

Durs Grünbein, Della neve ovvero Cartesio in Germania, a cura di A. M. Torino, Carpi, Einaudi, 2005

sa: Alias, 3/XII/2005, ora in Bande à part, Roma, Gaffi, 2011

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