Thomas Bernhard, Autobiografia

Grazia Pulvirenti

 “Tentativo”, scrive Thomas Bernhard (1931-1989), è l’atto di approssimazione con cui l’uomo si confronta con la realtà, con la verità. E così anche la narrazione della propria esistenza non presume di attingere alcuna forma totalizzante, né la perfezione, né l’integrità del ricordo, costituita com’è da “migliaia di brandelli di possibilità e ricordi” (Il respiro). Gli scritti autobiografici ‒ già apparsi per Adelphi in traduzione italiana (a cura di Eugenio Bernardi, Renata Colorni, Umberto Gandini, Anna Ruchat) e adesso qui raccolti dallo stesso benemerito editore (a cura di Luigi Reitani, autore oltre che dell’introduzione di un utile apparato critico) ‒ offrono non uno scorcio delle vicende intime e tormentate di un uomo, ma un vero e proprio groviglio di immagini.

Immagini fortemente iconiche e al tempo stesso evocative, immagini di un percorso esistenziale attraversato dalla malattia e dalla guerra, e di vicende che hanno segnato drammaticamente la storia di un quartiere, Scherzhauserfeld, di una provincia, Salisburgo con la sua “infida facciata”, di un paese, l’Austria del Terzo Reich e del dopoguerra, di un mondo intero. In un continuo riflettersi di micro e macrostoria, si stagliano figure protagoniste della costante lotta fra oppressi e oppressori, della perdurante antitesi fra conformismo e libertà di spirito.

Il tutto, si badi bene, è messo in atto non attraverso il totalitarismo di una pretesa di oggettività, ma nella rivendicazione del diritto alla soggettività della visione, imposta da un artista “dell’esagerazione” (Wendelin Schmidt-Dengler), che dell’esasperazione di alcuni motivi stilistici e tematici ha fatto la sua personale arma di “liberazione” e di lotta, come testimoniano le numerose polemiche infuriate nella “sua” Austria fino al suo ultimo giorno di vita. Fra le pagine di Lorigine. Un accenno (1975), La cantina. Una via di scampo (1976), Il respiro. Una decisione (1978), Il freddo. Una segregazione (1981), Un bambino (1982), Bernhard mette in scena, nell’artificio della sua “finzione”, “il contenuto di verità della menzogna”, la sua menzogna, dalla quale emerge per converso la verità baroccamente costruita attraverso l’iperbole, recitata da un falsario consapevole di operare quel ribaltamento di piani che consente, in una mise en abîme del vero, di costruire, per metafora, la grande metafora dell’esistenza, fatta di paria e derelitti, demoni interiori e mostri della storia. Ed ecco che una delle principali forme del pensiero e dell’espressività dell’essere umano di ogni epoca e latitudine, la metafora, dalle caratteristiche dinamiche di non linearità in grado di integrare diverse attività sincronicamente, funge da prisma di rifrazione di una scrittura che in essa trova il suo motore di significazione.

La scrittura autobiografica di Bernhard, non lineare e cronologicamente discontinua (come è noto, la conclusione è rappresentata dalla riscoperta delle origini nel periodo dell’infanzia: Un bambino), diviene narrazione metaforica dalla quale emerge un cosmo, costruito in maniera eccentrica, asimmetrica, secondo il principio in cui si manifestano i fenomeni della realtà, fatto di segni “artificiali” che, nell’evidenza della finzione, rivendicano la spietata verità soggettiva dell’osservazione da entomologo di un mondo claustrofobico, un mondo popolato da figure di derelitti e sopravvissuti, costituito dagli spazi oppressivi del collegio, del sanatorio, del rifugio antiaereo, della provincia cattolica, rimasta profondamente avvinta al retaggio del nazionalsocialismo. Attento a scorgere la piaga purulenta del suo tempo, Bernhard fa del nazismo una metafora del totalitarismo, contro il quale la sua parola ha sempre lottato, con la forza “debole” di arma del “paria”; ma il paria con il suo bisturi, pur non potendo cambiare il corso della storia, ne incide il vero volto nella pagina lacerata e sanguinante di una microstoria indimenticabile.

Grazia Pulvirenti

Thomas Bernhard, Autobiografia, a cura di Luigi Reitani, trad. dal ted. di Eugenio Bernardi, Renata Colorni, Umberto Gandini, Anna Ruchat, Milano, Adelphi, 2011, 631 p.

da: L’INDICE, aprile 2012

This entry was posted in Recensioni and tagged , , , , , . Bookmark the permalink.

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *