Uwe Timm, Penombra

Gerhard Friedrich

Berlino è da considerare, fra tutte le capitali del mondo, quella che come nessun’altra è lieu de mémoire delle catastrofi del XX secolo. Gli avvenimenti più violenti e traumatici della storia tedesca ed europea del Novecento hanno avuto ripercussioni immediate fin dentro la struttura urbana, materializzando nel Muro la divisione del mondo in due blocchi antagonisti. Qui la storia si è tradotta, come succede di rado, in strutture concrete. I cimiteri, luoghi anamnestici per eccellenza, si integrano in modo specifico in questa città in cui l’urbanistica è memoria reificata. È dunque la città stessa a farsi, in una sorta di osmosi segreta, configurazione funeraria.

Non a caso Uwe Timm inizia il suo ultimo romanzo con una visita all’Invalidenfriedhof (il Cimitero degli Invalidi), descrivendo la cifra caratteristica di una sovrapposizione tra cimitero e città: la costruzione del Muro che correva lungo il cimitero. Trasformato in zona militare, il luogo era divenuto inagibile, perdendo quindi la sua dimensione anamnestica e facendosi metafora di una situazione nella quale l’approccio alla storia tedesca risultava bloccato da divieti, esclusioni e omissioni. Con la cesura storica prodotta dalla caduta del Muro, invece, si può di nuovo accedere al cimitero ristabilendone così i suoi significati simbolici: le pietre ridiventano segni che possono essere letti. L’accesso al passato è possibile, il luogo della memoria ricomincia a “funzionare” perché non è più sbarrato dalla configurazione di una Berlino divisa. Osmosi segreta tra la metropoli e i suoi cimiteri.

Nel romanzo, motivo della visita al cimitero non sono però gli eroi della storia militare prussiana che vi giacciono ma l’unica donna sepolta tra loro. È infatti la vicenda di Marga von Etzdorf che sorregge la coesione di questo testo polifonico in cui la storia è spesso interrotta da interferenze: sono le voci che si alzano dalle altre tombe. È come se dai defunti erompesse un irrefrenabile bisogno di comunicare dopo il lungo periodo di silenzio coatto. Il luogo memoriale ha ripreso a “vivere” e – quasi si fosse spalancato un “ristagno di passato” ‒ i militari sepolti impongono i loro linguaggi. Il narratore (evidentemente “political correct”) ascolta imbarazzato le loro voci e si difende da quelle rantolanti esternazioni spesso patriottico-estremiste, o addirittura naziste, bollandole come deliranti.

L’unica trama consistente del romanzo racconta la storia della giovane aviatrice Marga von Etzdorf, prima donna a compiere trasvolate intercontinentali in solitaria. Apparentemente la nobildonna non ha niente in comune con gli altri eroi di guerra, né con i gerarchi nazisti seppelliti nell’Invalidenfriedhof, e tuttavia il luogo di sepoltura non è del tutto casuale. “Il volo vale la vita”: questa iscrizione funeraria di Marga von Etzdorf viene reiterata più volte nel romanzo. Il motto diventa per Timm la chiave di lettura della personalità della donna, della sua esistenza, e forse anche del suo destino. “Il volo vale la vita”: ci troviamo di fronte a un sentimento profondamente romantico. Il volo come liberazione da gravità e fisicità, come fuga nell’infinito. Non a caso durante i suoi voli intercontinentali Marga canta e legge poesie di Heine e di Eichendorff. Un’ “angelo chiassoso” – così la presenta Timm ‒ a cavallo di un aereo, con la visione romantica di sé e del mondo. La “libertà nell’aria” e la conquista pacifica della lontananza rischiavano però l’urto doloroso con la realtà della Germania all’inizio degli anni trenta, quando era ormai iniziato il riarmo clandestino, anzitutto nel settore dell’aviazione.

Mentre certi testi biografici su Marga von Etzdorf motivano il suo disperato suicidio nel maggio del 1933 con problemi finanziari e di carriera, il narratore di Timm racconta qui di complicazioni sentimentali e morali più complesse. Marga, ovvero l’affascinante angelo androgino, diventa in ultima istanza vittima della sua femminilità quando questa si risveglia in un amore a senso unico, un amore che la lega fatalmente alla terra, facendola precipitare.

Sembra che Timm intraveda un’affinità occulta tra la nostalgia romantica per la lontananza, per cielo e infinito da una parte e la brama di espansione bellica e di annessione territoriale dall’altra. Nel corto circuito romantico tra profondità dell’anima e lontananza nello spazio, che per il soggetto è immagine dell’infinito, nel paradosso romantico dell’identità tra partenza e ritorno, che come sappiamo ripiega estraneità e lontananza nel sé assoluto, si insedia un atto di sottomissione, in quanto all’elemento estraneo non è concessa nessuna autonomia nei confronti dell’io assoluto. Il soggetto romantico non può essere passibile di modifica perché si trova ovunque già “a casa”. Questo sentirsi “zu Hause” nell’estraneità può determinare il passaggio alla disponibilità ad assoggettarla, quella estraneità, anche con la violenza. Intendiamoci: ciò non vuole dire che i romantici siano necessariamente anche conquistatori, ma il romanticismo in quanto tale non esclude di per sé conquista e assoggettamento.

Marga von Etzdorf all’Invalidenfriedhof: si trova dunque al posto giusto? Oggi, con città e cimitero di nuovo aperti, ci si può riflettere. Tenendo presente l’ambivalenza del romanticismo forse Marga ha qualcosa in comune con i generali prussiani e i Flieger-Assen, gli assi dell’aviazione tedesca della Grande guerra. Sicuramente, però, non ha nulla in comune con gli antisemiti della “Reichswehr nera” e meno ancora con i gerarchi nazisti. E allora? Registrare ed esplorare le sfumature, le ambivalenze, le tonalità del grigio nella storia tedesca, percepirne la penombra e non solo i contrasti più violenti, è un’attività squisitamente letteraria. Il libro di Timm va in questo senso. E ci aiuta a capire, nonostante o forse proprio attraverso l’intrinseca trasfigurazione della sua protagonista.

Gerhard Friedrich

Uwe Timm, Penombra, ed. orig. 2008, trad. dal ted. di Matteo Galli, Milano, Mondadori, 2011, 222 p.

da: L’INDICE, aprile 2012

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