Zia Barbara e Anita

[Sul numero 2 della rivista tradurre sono usciti diversi contributi riguardanti la lingua e la letteratura tedesca: la prima parte di un articolo di Gianfranco Petrillo dedicato a due grandi traduttrici dal tedesco, Barbara Allason e sua nipote Anita Rho, un articolo di Susanne Kolb sui dizionari e corpora online per tradurre dal tedesco, e una recensione di Elisa Leonzio al volume di Lucia Cinato Kather, Mediazione linguistica tedesco-italiano (Hoepli 2011). Riporto l’incipit del primo. M.S.]

Gianfranco Petrillo

Italianissimo, piemontesissimo quel cognome, risalente a un Alasone troncato dai francesi durante l’occupazione napoleonica (Allason 2008, 74). Niente affatto «un nome esotico […] il nostro nome è un nome così torinese, così abbarbicato […] alla nostra cara collina torinese» (Confessioni 1950, 1). Barbara Allason lo rivendicava fin dal 1950, quasi a smentire preventivamente l’origine germanica attribuita a suo padre da Lucia Strappini (1988), interprete della tacita convinzione di tanti, fuorviati dalla notorietà della germanista, o quella anglosassone congetturata invece da chi tedesco è (Macke s.d.). Quella notorietà d’altronde si è da tempo appannata, se già Simona Minicucci (1997) non comprendeva Allason nel suo elenco di germanisti operanti tra le due guerre.

In quell’orgoglio di appartenere a «gente dall’italianissimo cuore» si avvertono le radici risorgimentali e romantiche di una sensibilità e di una cultura che nell’arco di una lunga esistenza vennero messe a dura prova, riuscendone non recise ma trasformate e cresciute. Ugo Allason, il padre di Barbara, era un perfetto esemplare di ufficiale d’artiglieria sabaudo, stimato teorico dell’arma, che alla venerazione per la monarchia unificatrice d’Italia aveva educato le figlie, immergendole al contempo nell’atmosfera tardoromantica della frequentazione del fratello Silvio, buon pittore paesaggista, e dell’amico Edmondo De Amicis, prima che questi abbracciasse i vaghi ideali del socialismo umanitario (Strappini 1988).

A Barbara, come alla sorella Silvia, di quattro anni più giovane, la perfetta conoscenza del tedesco era pervenuta piuttosto dalla madre, Pauline Künzler, «viennese e repubblicana» (Allason 2005, 340). Nata nel 1877 a Pecetto, sul solatio versante meridionale delle colline torinesi dove si trovavano le tenute di famiglia, il trasferimento del padre per motivi di servizio portò Barbara adolescente a Napoli, dove entrò in contatto con Benedetto Croce. Cominciò a pubblicare presto articoli di varia umanità, dapprima sulla «Nouvelle Revue»: il francese era pressoché terza lingua materna, in quanto lo si parlava in casa, dove entravano giornali francesi, e lei era «affascinata da Parigi» (Confessioni 1950, 3); poi sulla cattolico-liberale «Rassegna nazionale» e sulla laica e risorgimentale «Nuova Antologia». Negli anni, grazie al viatico datole da Matilde Serao sul suo «La settimana» (Confessioni 1950, 5), si aggiunse una copiosa produzione di articoli, che allora si dicevano «di terza pagina», per quotidiani e periodici popolari come «La Gazzetta delle Puglie», «Il Giornale d’Italia», «La Gazzetta del popolo», «L’Ambrosiano», «La Lettura», «Le Vie d’Italia» (Strappini 1988), in cui la giovane letterata svariava dal reportage sull’eruzione del Vesuvio del 1905 a descrizioni romantiche di luoghi e a informazioni letterarie che si avvalevano della sua ottime conoscenze linguistiche e letterarie.

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