Uso vitale del buon antico

Massimo Raffaeli

Ci dev’essere per forza un’astuzia della ragione storica, come si chiamava nella dialettica di Hegel, se è vero che proprio davanti a Hegel, nel Dorotheen-Friedhof, il vecchio cimitero di Berlino Est, è sepolto dal ferragosto del ’56 il più dialettico dei poeti tedeschi e moderni in generale, Bertolt Brecht; ma ci dev’essere una duplice astuzia della storia se è vero, altrettanto, che Brecht aveva usato la dialettica non per ricomporre alcunché ma per aprire e scindere, si direbbe per ferire e intanto ferirsi, certe volte persino per smentirsi. Essa era per lui una barra d’appoggio, o un’arma, mai una filosofia della storia o, peggio, un teorema della conciliazione con la realtà data. Agli altri hegeliani, e ai suoi più grandi amici-nemici, aveva sempre dato scacco mettendo volentieri la maschera ora del genio solipsista ed estremista, specie nel periodo giovanile di Weimar, ora invece quella del cinico e dello spregiudicato tatticista, nei lunghi anni dell’esilio in Europa e negli Stati Uniti e poi nel ritorno, con progressiva acclimatazione, nella DDR del partito unico, la SED, dominata dalla cricca di Ulbricht; se infatti Lukács lo accusava da un lato di ignorare il fatto che è il realismo socialista l’unico erede e redentore dell’arte grande-borghese e se dall’altro Adorno gli rinfacciava scadimenti di contenuto e pesanti concessioni alla pedagogia proletaria, ad entrambi rispondeva con un motto che valeva più di una dichiarazione di poetica: “Non allacciarsi al buon antico, ma al cattivo nuovo.”

Non si trattava appunto di una semplice poetica ma piuttosto, avrebbe detto lui, di una “posizione”, quasi di un appostamento e di una messa in guardia dentro un mondo che mutava tumultuosamente (il nazismo, la seconda guerra mondiale, la Guerra fredda) e intanto veniva sciupando, fino all’obsolescenza, forza e verità di qualunque espressione artistica. E anche per questo il meno hegeliano dei suoi compagni di strada, o forse, per ennesimo paradosso, il più hegeliano di tutti, cioè Walter Benjamin, preferiva spiare le scritture di Brecht e registrarne i bruschi cambi di marcia con circospezione e con un filo mai reciso di complicità: si può dire anzi che gliele passasse tutte.

Fatto sta che chi legga o rilegga adesso i testi della sua maturità poetica può ancora una volta usare Brecht contro Brecht ed in retrospettiva rovesciarne la posizione: non è certo il “cattivo nuovo” (che pure, inevitabilmente, intacca molti testi d’occasione) a dimostrarne la qualità ma è l’uso vitale, vale a dire ripensato e straniante, del “buon antico” a garantirgli oggi il rango di un classico. Lo testimonia l’uscita del secondo volume della superba edizione delle Poesie (1934-1956) con testo a fronte, a cura di Luigi Forte (Einaudi, nella “Biblioteca della Pléiade”) la quale recupera, integrandole, le annose versioni di Carpitella, Cases, Castellani, Fertonani, Ruth Leiser e Franco Fortini mentre le consegna a un apparato di note che, se è imponente, rimane tuttavia leggibile anche ai profani.

Scrive Luigi Forte nell’introduzione: “Far convivere nella poesia le voci della Heimat e l’impegno politico, la sfera privata e quella pubblica, resta la grande sfida dello scrittore in questi anni. […] La parola ha in Brecht una profonda vocazione dialettica e referenziale, mai iniziatica o culturale. Essa è funzionale a uno spazio di mediazione in cui sono coinvolte musica e gestualità.” Di qui certe sue immagini proverbiali, capaci di connettere all’istante prossimità e distanza, un evento della storia e un minimo gesto quotidiano: il bricco del tè che trabocca e spegne il gas, nella capanna danese, mentre il poeta legge sul giornale i discorsi dell’Imbianchino; un filo di fumo che anima di colpo un paesaggio in sé troppo quieto e troppo bello, perciò disumano; il gesto d’intesa, all’alba, lanciato nel dormiveglia a un ladro di ciliegie adolescente. Di qui anche la necessità di scegliere la propria posizione, vale a dire una postura di uomo smagato e reso finalmente assennato in un qualche riparo, oltre il gorgo in cui ribollono Storia e Natura. Di qui infine l’urgenza di cogliere la dialettica delle cose e subito di spremerne il senso per raffreddarlo in forma di incisione e insomma di testo durevole, pure in presenza di forti dislivelli linguistici e di una proliferante ricchezza stilistica: è noto che la sua varietà oscilla tra la forma-diario, l’epigramma e la lapide così come è noto che le maschere predilette da Brecht sono quella del latino Orazio e dei poeti cinesi dell’età aurea.

Epicentri di una produzione folta e con un lungo strascico di inediti (una produzione di qualità ovviamente dispari, perché ipotecata a tratti da retorica ideologica e sentenziosa, compreso qualche encomio a Giuseppe Stalin) sono le celebri Poesie di Svendborg (1939) con appendice della Raccolta Steffin, le di poco successive Elegie di Hollywood e le già terminali Elegie di Buckow, scritte nella Germania Est e selezionate per la stampa con inevitabile cautela, taluni ritengono col criterio nicodemico della doppia verità, anche se va aggiunto che costoro non scoprono un bel niente: lo stile pubblico di Brecht, laconico fino all’ambiguità e alla reticenza, per lui che pure aveva scelto il campo socialista, nella DDR restava uguale a quello usato negli Stati Uniti deponendo davanti alla “Commissione per le attività antiamericane” del senatore McCarthy. (Un posto a parte e di rilievo, se non altro per la universale ricezione, mantiene invece l’ Abicì della guerra, un albo di “fotoepigrammi” dove il poeta riprende l’arte emblematica del barocco componendo testi di foto e quartine giambiche secondo un’intenzione pedagogica che vede negli orrori della guerra l’esito fatale, o meglio normale, dello sviluppo capitalista).

Da ultimo, amava atteggiarsi a stoico, con la maschera di nuovo Orazio esiliato nella quiete campestre, ma sapeva ancora afferrare di colpo il grimaldello dialettico, e farne subito una poesia; il 17 giugno del ’53, davanti alla sollevazione spontanea degli operai di Berlino, trattati dalla cricca di Ulbricht come fascisti e provocatori, Brecht riunisce in assemblea permanente il Berliner Ensemble e invia al segretario generale del Partito una lettera indignata: la stampa ufficiale la pubblica monca o comunque tale da farla apparire in sintonia con la repressione dei moti operai; lì, deviando nel marmo epigrafico una rabbia che altrimenti saprebbe di sconforto e di cruda resipiscenza, prende corpo uno dei suoi ultimi testi classici, scintillante di ironia, La soluzione, poi confluito nelle Elegie di Buckow:

Dopo la rivolta del 17 giugno
il segretario dell’unione degli scrittori
fece distribuire nella Stalinallee dei volantini
sui quali si poteva leggere che il popolo
si era giocata la fiducia del governo
e la poteva riconquistare soltanto
raddoppiando il lavoro. Non sarebbe
più semplice, allora, che il governo
sciogliesse il popolo e
ne eleggesse un altro?

Pochi mesi dopo Brecht, riandando ai moti di giugno, deplora ufficialmente i provocatori e dichiara di stare con il Partito nella lotta contro la guerra e il fascismo: segno che la macina della dialettica aveva girato ancora e lui si era messo di nuovo la maschera.

Massimo Raffaeli

Bertolt Brecht, Poesie (1934-1956), a cura di L. Forte, Einaudi-Gallimard, 2005

da: Alias,  3/XII/2005, ora in Bande à part, Roma, Gaffi, 2011

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