Il controcanto di Elfriede

[Vi ripropongo con piacere un articolo apparso su L’Unità del 2004, l’anno del conferimento del Premio Nobel per la Letteratura a Elfriede Jelinek, in cui Luigi Reitani propone un ritratto di  questa intellettuale, certo, controversa e mal vista nel proprio paese, l’Austria, capace di una scrittura polemica e anche scandalosa, com’è il caso di Die Klavierspielerin, di cui lo stesso Reitani ha curato l’attenta postfazione dell’edizione Einaudi. C.M.]

Immagine tratta da: stefanjzweig.de

Luigi Reitani

È quasi colta da imbarazzo, Elfriede Jelinek, alla notizia di aver ricevuto il Premio Nobel per la letteratura, questo premio terribile e così gravido di responsabilità che fu di Thomas Mann e Heinrich Böll. Lei, che fu negli anni Sessanta l’enfant terrible della nuova letteratura austriaca, non ha certo fatto nulla per salire in cattedra come la voce per eccellenza del proprio Paese o del mondo di lingua tedesca. I suoi scritti sono anzi per molti versi un attacco feroce alle istituzioni e ai modelli di comportamento austriaci. E non di rado l’autrice è scesa in polemica con politici di ogni colore con una aggressività in strano contrasto con la sua persona, caratterizzata dalla riservatezza più estrema.

Non ama infatti comparire in pubblico Elfriede Jelinek, in una città come Vienna, in cui il suo nome è stato più volte oggetto di attacchi feroci, come quando la Fpö, il partito nazionalista di Jörg Haider, fece affiggere un manifesto in cui invitava il teatro della capitale a liberarsi di quella scrittrice che infangava i sani e onesti costumi nazionali. Attacchi a cui la Jelinek ha risposto da un lato sottraendosi a ogni forma di vita pubblica, e dall’altro usando la sua arma migliore – il linguaggio – per replicare alla protervia della politica. Così nel suo dramma L’addio (2000), rappresentato anche in Italia, in cui la scrittrice mette in scena in un monologo lo stesso Haider, in un montaggio di citazioni che finisce per costituire la migliore demistificazione della demagogia populista e xenofoba del leader carinziano.

Ed è forse proprio questa la chiave migliore per accedere alla complessità di un’opera che l’Accademia svedese ha voluto insignire del massimo riconoscimento letterario esistente, dimostrando ancora una volta un coraggio senza imbarazzi. Perché la ricerca estetica di Elfriede Jelinek parte dal linguaggio, dagli schemi linguistici che strutturano la nostra cultura e il nostro mondo. La citazione è usata in quest’opera per svelare l’inautenticità delle parole, la violenza mascherata dagli stereotipi della cultura. Si tratta di una tradizione tipicamente austriaca, che ha il suo grande modello in Karl Kraus e negli Ultimi giorni dell’umanità. È la tradizione delle «maschere acustiche», del mondo colto nella sua fenomenologia sonora. Ma certo tra Kraus ed Elfriede Jelinek ci sono stati Wittgenstein e la Wiener Gruppe e c’è stato soprattutto Thomas Bernhard, a cui la Jelinek per molti aspetti si riallaccia, anche consapevolmente, dichiarando di voler riprendere il «grande respiro» che fu dell’autore scomparso. E in qualche modo questo Nobel è un Nobel dato anche a questa tradizione a una letteratura ancora non troppo conosciuta oltre i confini del proprio Paese, un Nobel – se si vuole e senza nulla togliere a chi lo riceve oggi – dato anche in memoria a Thomas Bernhard.

Nata Mürzzuschlag (in Stiria) nel 1946, Elfriede Jelinek aveva debuttato con il romanzo «top» Siamo zimbelli baby! (1970) – un ironico e divertito collage di stereotipi tratti dai gerghi giovanili, presentandosi subito sulle scene letterarie di lingua tedesca come una scrittrice difficile da catalogare, divisa tra l’attenzione ai fenomeni sociali e lo sperimentalismo, in un solco già scavato in Austria negli anni Cinquanta da autori come H.C. Artmann e Konrad Bayer, che trovava in quegli anni nuovo alimento a Graz nel circolo del Forum Stadtpark. Si trattava in ogni caso di uno stile insolito e aggressivo, che darà rapidamente alla scrittrice la fama di provocatrice per eccellenza della nuova letteratura austriaca: una fama consolidata negli anni Settanta dall’impegno politico, con l’adesione nel 1974 al Partito comunista austriaco, da cui uscirà nel 1991, dagli interventi saggistici sui miti della cultura di massa, dal dibattito sul rapporto tra arte e politica – suscitato con una lettera aperta a Peter Handke e Alfred Kolleritsch, pubblicata dalla rivista Manuskripte (l’organo più significativo dell’avanguardia in Austria) – e soprattutto dai successivi romanzi e lavori teatrali.

Se in Michael. Un libro per giovani destinato alla società infantile (1972) l’interesse era ancora rivolto ai modelli proposti dalla televisione e alla loro incidenza sui comportamenti giovanili, il romanzo Le amanti (1975, pubblicato in Italia da SE) esemplificava nel destino di operaie i meccanismi di controllo e oppressione nella società di massa del «benessere» e dei consumi, demolendo il mito dell’amore e del matrimonio, mentre Gli esclusi (1980) delineava un ritratto spietato della piccola borghesia austriaca negli anni Cinquanta, mostrando – nella storia dello sterminio di una famiglia, tratto da un caso di cronaca – l’attenzione dell’autrice per le possibilità offerte dal genere noir.

Parallelamente la Jelinek si dedicava alla traduzione di autori come Thomas Pynchon e a un’intensa scrittura per il teatro, con dei lavori che, nella loro radicale sperimentazione – rifiuto della psicologia, montaggio di citazioni, riduzione dei personaggi a voci stereotipate -, indicavano una nuova strada alla drammaturgia contemporanea. E solo con la pubblicazione del romanzo La pianista (1983 pubblicato in Italia da SE), tuttavia, che l’autrice ottiene il consenso incondizionato della critica e conquista un più vasto pubblico di lettori. In questo libro il genere del romanzo di iniziazione erotica si fonde con quel genere che ha come protagonista il virtuoso della musica. Le ragioni di questo successo sono in parte dovute alla scabrosità dei temi toccati (il rapporto madre-figlia, il masochismo della protagonista) e alle possibili componenti autobiografiche dell’opera. L’attenzione della critica si sposta così dal testo alla figura della scrittrice, mettendone in evidenza le coincidenze con la figura principale del romanzo (la formazione musicale, la convivenza con la madre, l’internamento del padre in un ospedale psichiatrico).

Un analogo meccanismo caratterizzerà – dopo la straordinaria prosa lirica di Oh natura selvaggia, salviamoci da lei (1985) – la ricezione del romanzo La voglia (1989 pubblicato in Italia da Frassinelli), favorendo l’equivoco (particolarmente diffuso in Italia, dove questo libro sarà la prima traduzione di un’opera della Jelinek), di un erotismo «al femminile» sulla scia di autrici come Almudena Grandes o Alina Reys. Anche la trasposizione cinematografica della Pianista nella regia di Michael Haneke, premiata a Cannes nel 2001, si è tradotto in un rinnovato interesse verso la figura della scrittrice, riportando addirittura in Germania il romanzo nella classifica dei libri più venduti.

In realtà – come appare chiaro anche a una superficiale lettura dei testi – Elfriede Jelinek ha poco a che fare con un simile trend (in parte fabbricato dagli stessi media) e persegue, anche nei romanzi più caratterizzati da scene di cruda sessualità, intenti e finalità completamente diversi dall’emancipazione di un supposto erotismo femminile. È comunque un dato di fatto che la notorietà ottenuta con La pianista e La voglia abbia reso l’autrice un personaggio pubblico, spesso intervistato o interpellato in inchieste di opinioni, e per questa ragione esposto ai contraccolpi della celebrità. Ed è certo indubbio che Elfriede Jelinek abbia sfruttato a sua volta questa celebrità per inglobare nei suoi libri, come si diceva, temi e motivi propri dell’attuale realtà austriaca.

Al di là di questa attenzione verso la situazione politica contemporanea, nelle ultime opere prevale una riflessione sulla drammatica storia austriaca del Novecento e sul suo riverbero nel presente, in una tecnica narrativa che sfrutta sempre più abilmente gli schemi e i temi del romanzo noir. Il monumentale I figli dei morti (1995) – senz’altro il romanzo più ambizioso della scrittrice – non esita a mettere in scena vampiri e morti viventi, in una grottesca e terrificante allegoria del Paese. In Avidità (2000) un prestante gendarme di provincia si trasforma in omicida sessuale, con una sferzante critica dei nuovi miti della bellezza e dello sport (al centro anche della piéce Sportstück, 1998). Ma come in Thomas Bernhard, anche in Elfriede Jelinek il virtuosismo linguistico (e sicuramente musicale, come in Bernhard) della scrittura riesce a sottrarre a tematiche così difficili e scabrose la loro cupezza. Il vortice incessante delle metafore di cui l’autrice è maestra ha un suo particolare umorismo, spesso difficile da rendere nelle traduzioni.

Nella Pianista Erika (la figlia) è paragonata a un «ciclone», a un «piccolo terremoto» (definizione, questa, della madre) e a «uno stormo di foglie in autunno», mentre la madre si fa «inquisitore e plotone di esecuzione nella stessa persona». Il tempo a disposizione della figlia è «un collare ortopedico di gesso» e lei stessa è «un insetto imprigionato nell’ambra». «L’astore madre e la poiana nonna impediscono alla bambina in loro custodia di abbandonare il nido». Durante i suoi vagabondaggi, a Erika le strade si presentano «come gole montane» che «si aprono e si richiudono», il suo viso si trasforma in «un segnale stradale conficcato nel paesaggio a indicare che si va avanti». Per l’allievo di Erika, invece, la possibile esperienza erotica con la matura insegnante si prospetta come la guida di una Opel Kadett per un neopatentato.

Ricordo la mia sorpresa quando a Vienna sono andato per la prima volta a trovare Elfriede Jelinek in una villetta che è ubicata nella «strada di Giove». Mi aspettavo di trovare una donna aggressiva e sicura di sé, come l’avevo ascoltata nelle interviste pubbliche che allora ancora rilasciava. Trovai una donna schiva e riservata, quasi timida nel parlare direttamente di sé, gentile nei modi e disponibile all’ascolto. Nella stanza figurava un grande piano a coda. Uno sfondo simbolico, e di fatto, sempre presente nella grande letteratura austriaca.

Luigi Reitani

Il presente articolo è apparso su L’Unità dell’8 ottobre 2004, nell’edizione Nazionale (pagina 22), nella sezione “Cultura”, p. 22.

This entry was posted in Recensioni and tagged , , , . Bookmark the permalink.

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *