Uwe Timm, Ricchezza e povertà

[da Lo Straniero, XVI, 142, pp. 97-102]

Uwe Timm

Signor Presidente Beck, gentili signore e signori, cari amici,

il dono di un premio comporta che si regali qualcosa in cambio, un discorso di ringraziamento.  Poiché ho dei ritmi di lavoro un po’ obbligati, ho deciso di interrompere la stesura del mio nuovo romanzo e mi sono messo a leggere le opere teatrali, la prosa e l’autobiografia di Carl Zuckmayer. Voglio subito premettere che questa rilettura di Zuckmayer è stata per me un arricchimento molto piacevole che, come cercherò di dimostrare, ha avuto anche delle conseguenze. Mi sono imbattuto per la prima volta in Carl Zuckmayer attraverso il film Il capitano di Köpenick. I miei genitori ne erano entusiasti, anch’io, che all’epoca avevo sedici anni e avrei preferito vedere un western americano, lo trovai alla fine piuttosto divertente. Solo dopo anni, rivedendolo, la pièce acquisì ai miei occhi ben altra profondità. La cosa interessante è che il produttore Gyula Trebitisch, perseguitato a causa delle proprie origini si era espresso contro l’assegnazione del ruolo principale a Heinz Rühmann, apprezzato da Goebbels e da Hitler come un artista „baciato dalla grazia divina“ il quale aveva recitato in film di propaganda come Concerto a richiesta e Quax, der Bruchpilot.  Il regista Helmut Käutner era riuscito tuttavia a farsi valere nei confronti del produttore. La pellicola divenne un grande successo, anche internazionale. L’interpretazione di Rühmann, attore oggetto di grandi simpatie, può esser vista come un abile contributo ad una forzata „conciliazione“ ma anche come un atto di rimozione nei confronti di un’epoca in cui le uniformi erano espressione di potere, di valore e soprattutto di forza. Anche Rühmann finì, grazie a questo film, per essere in qualche misura salvato dal proprio passato. Si era verificato un cambiamento di mentalità, un cambiamento per nulla volontario, ma che aveva avuto luogo solo a seguito della resa incondizionata. Dopo la guerra perduta, dopo tutti i morti, i mutilati,  le vittime dello sterminio non se ne voleva più sapere di divise, dell’esercito, e semmai soltanto straniate in veste comica. Ciò che negli allestimenti della pièce teatrale del 1931 aveva dato luogo a vivaci proteste e attacchi canaglieschi presso la stampa nazionalista e nazionalsocialista, venne ora concordemente acclamato, come se venisse da un’epoca lontana.

La cosa non fu dovuta soltanto alla progressiva perdita di significato dell’esercito e delle uniformi, ma appunto anche agli attori e ad una regia furbescamente intenta ad appianare i contrasti. Ancora oggi la pièce potrebbe raccogliere un interesse critico e non esser solamente oggetto di divertimento, se la si allestisse in aperto contrasto con il buonismo dello happy end. L’abilità del dramma consiste nel fatto che il deus ex machina, l’imperatore che promette la grazia – che è poi l’incarnazione di una vera e propria fissazione per l’uniforme – non fosse altro che un fantoccio, il quale con la sua politica, posta sotto il primato dell’esercito, avrebbe portato alla catastrofe della prima guerra mondiale. Il capitano di Köpenick come anche La vigna allegra mostrano – rileggendoli la cosa appare evidente – la loro scabrosità proprio là dove descrivono la normalità, la quotidianità con quell’umorismo tipico di Zuckmayer, un umorismo capace tuttavia di spalancare abissi.

L’umorismo mostra le cose grandi come piccole e quelle piccole come grandi. Come scrive Walter Benjamin: „l’umorismo trova la propria origine nel senso di giustizia“. Non a caso buona parte di coloro che amministrano il potere sono del tutto privi di umorismo e quando vogliono mostrarsi spiritosi, traspare sempre un lieve accento di disprezzo nei confronti degli esseri umani. Si legge e si ride, e all’improvviso ti passa la voglia di ridere. Già la prima scena nel primo atto della pièce riassume tutto in modo efficace: il capitano d’origini aristocratiche, il proprietario della sartoria specializzata in uniformi, di origine ebraica, il figlio deforme, il tagliatore gobbo; ma vi ricordate che cosa non si dice sull’handicap dell’uomo: „a quello gli manca un vero portamento“? Un’osservazione fatta neanche in modo cinico ma solo in modo distrattamente stupido, e poi tutta la discussione come mai i bottoni della divisa vadano spostati di mezzo centimetro, il modo in cui tutto ciò viene espresso ricorrendo alle più sottili distinzioni linguistiche, quell’affabile gergo da ufficiali, il gesto autoritario del parvenu borghese, il tono piano e sicuro di sé dell’artigiano portatore di handicap e la breve scena con Wilhelm Voigt in cerca di lavoro – un’opera piena di arguzia che ha l’esattezza di uno studio sociologico e che può destare solo ammirazione. Come dice il personaggio di von Schlettow: „Eh sì, l’uniforme, che bello, uno fa la sua figura, l’uniforme ti dà un enorme contegno, si finisce per essere proprio tutta un’altra persona. Sa com’è – in abiti borghesi – mi sento sempre un panino alla salsiccia ma senza la senape“. Il primato del militarismo e il codice d’onore dell’aristocrazia furono – conseguenza dell’unificazione del Reich grazie alle guerre bismarckiane – decisive per la mentalità borghese, incidendo sulla consapevolezza di quella classe: un albero genealogico puro, o per citare le parole del riservista: „l’essere umano comincia dal tenente, non è così?“, le corporazioni studentesche, la lingua secca del comando. Essere di buona famiglia non significa soltanto appartenere ad un alto rango ma anche provenire da una famiglia di origine non ebraica. Dovere, obbedienza, coraggio. Il militarismo impregnava le forme del comportamento e risultò decisivo in modo fatale anche per la politica estera. Il militarismo formava la società, formava la mentalità, fin nei modi di dire. Forse c’è una relazione  tra quei toni rozzi e brutali che ancora oggi si sentono a Berlino, la cosiddetta „Berliner Schnauze“ e le numerose guarnigioni che per secoli hanno impregnato di sé  la vita della città.

Zuckmayer, originario della Renania-Palatinato, seppe servirsi del dialetto berlinese con un orecchio davvero sorprendente per le diverse sfumature – l’arguzia, la pronta reattività e anche il tono repressivo – utilizzandole in una pièce che reca come sottotitolo „una fiaba tedesca“. Una tragicommedia sul carattere tedesco grazie al quale il mondo intero avrebbe dovuto guarire, agire senza un vero fine, dovere, ordine, obbedienza, disciplina, come detto, virtù militari che erano penetrate in profondità nella vita civile continuando a mantenere la propria efficacia ben oltre l’Impero fin negli anni della Repubblica di Weimar. Valori che escludevano virtù democratiche come la critica, l’autocritica o addirittura la disubbidienza civile e che alla fine fecero sì che la repubblica venisse distrutta dall’interno.

Nella sua autobiografia Come se fosse un pezzo di me che ho letto adesso con grande ammirazione Zuckmayer ha descritto la distruzione della democrazia in modo plastico e con diversi esempi concreti. Anche i sostenitori della democrazia fallirono perché, come dice Zuckmayer, non seppero opporsi per tempo e a sufficienza. Nel luglio del 1932 venne deposto il governo regolarmente eletto della Prussia guidato dal primo ministro Braun. Il ministro dell’interno Severing della SPD, nel luglio del 1932, come in una pièce di Zuckmayer, venne cacciato da un tenente accompagnato da una dozzina di uomini. E al suo posto venne nominato un governo commissariale che si definiva esso stesso autoritario.

Col che ebbe inizio la fiaba tedesca, una fiaba senza lieto fine.

Rileggendo Zuckmayer si impone un confronto: l’onnipresenza del discorso militare di allora, che dominava tutti gli ambiti della vita e condusse in ultima analisi all’autodistruzione, trova oggi una sua corrispondenza nel pensiero economico che tutto determina, secondo la logica basata su: che cosa conviene e che cosa non conviene, che cosa crea profitto e che cosa no. Negli ultimi tempi aumentano le voci critiche che mettono in guarda dinanzi ad una perdita sostanziale di democrazia. Già si parla di post-democrazia.

Per prima cosa oggi l’elemento militare non svolge più alcun ruolo al contrario di quel che accadeva all’epoca di Weimar. L’economia prospera. La disoccupazione decresce. La libertà di stampa è garantita e viene praticata. I tribunali sono indipendenti. Non esiste un significativo partito di estrema destra, anche se le poche migliaia di membri della NPD sono già troppi. Si consuma come non è mai successo in passato. Stiamo bene, dicono.

D’altra parte c’è un numero crescente – qualche milione – di esseri umani che vivono in povertà, disoccupati, pensionati, miseria infantile. Stando a quanto scrive l’Unicef un bambino su 6 vive in condizioni di povertà, qui, in Germania. Il Patronato Tedesco dell’Infanzia, certamente non un’organizzazione di estrema sinistra come ben sappiamo, valuta il numero di bambini che vivono in condizioni di disagio nell’ordine di 6 milioni. Il mondo in cui vivono queste persone è nel frattempo – per la gran parte di noi – divenuto una sorta di universo parallelo. Qua e là accade di imbattersi in loro, anziani che raccolgono le bottiglie vuote e una fila di donne e uomini in coda per un pasto gratis.

La competizione del libero mercato dispiega, in base alla propria logica, una autorità che similmente a quanto accadeva in passato con la sfera militare abbraccia ogni ambito della vita e determina l’agire politico. Too big to fail, concorrenza, profitto, vantaggio logistico,  progresso compaiono nella lingua, anche nella lingua di tutti i giorni, come espressioni di costrizioni materiali e fanno sembrare questo modo di concepire l’economia come una legge naturale. Decretare  il libero mercato come motore decisivo della nostra società e porlo alla stessa stregua della libertà politica comporta che costantemente venga prodotta ingiustizia.

Tutto questo, dal momento che non ci sono altri modelli, appare obbligato e impedisce una discussione relativa a possibili alternative. Ma quale società vogliamo? Una che sia completamente sovradeterminata dall’economia o una che possa determinare se stessa, che possa decidere e negoziare sui propri obiettivi di emancipazione, sulla libertà, l’uguaglianza e la fratellanza, ossia la solidarietà?

Signore e signori, ve ne sarete accorti, lavorando a questo discorso ho lasciato perder il mio progetto originario di parlare dell’umorismo in Zuckmayer, e devo dire che l’ho fatto con l’assenso di  Zuckmayer, un assenso che ho ottenuto dall’opera stessa dell’autore, che non è stato solo un autore significativo sul piano letterario, cosa che prima di questa nuova lettura non mi era poi così chiaro, ma che ha anche saputo immischiarsi nella politica, anche col suo rifiuto nei confronti di qualsivoglia fumisterie metafisiche. Ho pensato che è bene  ricordarsene, visto che momentaneamente – non a caso con l’aumentare dei problemi reali – si levano obiezioni contro una presenza troppo massiccia della realtà in letteratura. Si pretende più trascendenza, più romanticismo, più rischio, rischio ovviamente da intendersi in senso esistenziale. D’accordo, la scrittura deve essere e restare un rischio, se vuole essere vera. Solo così, con lo strumento della lingua, qualcosa può divenire conoscenza. Ma forse il rischio di coloro che vivono in modo precario è più grande di quelli che propagano il rischio come mero atteggiamento letterario.

Direte forse, niente di nuovo sotto il sole. Sappiamo tutto.

Giusto. Ma la domanda allora, la mia domanda è: perché non cambia nulla?

Uno degli argomenti demagogici è che avremmo fin qui vissuto oltre le nostre possibilità. E ora è venuto il momento di stringere la cinghia. L’argomento è spudorato perché tace che le pensioni, rispetto all’inflazione, non sono cresciute, che negli ultimi dieci anni il salario reale è diminuito del 2% e che dall’altro lato c’è una minoranza del 10% della popolazione tedesca che possiede i due terzi dell’intero patrimonio. E’ cosa che si stenta a credere, ma la statistica ufficiale lo dimostra: nel 2007 la metà più povera della popolazione tedesca (circa 35 milioni di persone) possedeva con 103 miliardi di euro solo l’1,4 % dell’intero patrimonio e dunque meno di quanto quello stesso anno possedevano i dieci tedeschi più ricchi, vale a dire 113,67 miliardi di euro. Anche questo ci dice la statistica: la differenza tra ricchi e poveri aumenta ogni anno di più.

Si verifica dunque una situazione anomala. Quando andrà a picco una società, la cui ricchezza cresce ma che al contempo produce sempre più povertà? Una società, che seguendo la logica economica dominante risparmia e privatizza nel settore delle ferrovie, delle poste, dell’energia, dell’acqua, della sanità, un fenomeno che secondo i principi del lean thinking porta sempre con sé licenziamento di personale, prestazioni peggiori e quindi prezzi crescenti e maggiori profitti. Al contempo si tagliano i fondi per le istituzioni pubbliche, teatri, musei, biblioteche, piscine. Perché tolleriamo la distruzione delle nostre istituzioni pubbliche con profitti crescenti nelle mani di pochi privati?

Il distacco dalla politica, una minore partecipazione al voto, tutte le lamentele hanno buone ragioni. I politici fanno quel che vogliono, si dice. Oppure: non sono più in grado di combinare nulla.

In parlamento, in un’aula semivuota, i partiti riferiscono ciò che è già stato detto e ridetto nelle interviste e nei talkshows. E dunque a tutti è già stranoto ciò che in realtà dovrebbe essere di stretta competenza del parlamento, in quanto luogo di formazione della volontà politica. Anche le strategie politiche a lungo raggio sono influenzate da un sistema dagli effetti autoritari, la demoscopia. Quando per esempio si dice che non è possibile far passare un aumento della tassa di successione perché i sondaggi affermano che la maggior parte degli elettori non sarebbe d’accordo, malgrado più del novanta per cento non verrebbe ad esserne sfiorato, ci troviamo di fronte a un classico caso di politica demoscopica. Bisognerebbe fare opera di convincimento, questo dovrebbe essere il compito della politica. Senza quest’opera di convincimento non ci sarebbe stata, sotto il governo Brandt, alcuna Ostpolitik e sotto Helmut Schmidt niente riarmo, una decisione all’epoca alquanto impopolare.

La ragione più profonda per questo distacco dalla politica non risiede tanto nella questione di come un presidente della repubblica sia riuscito a farsi la sua casetta. Il distacco trova la sua vera ragione nella consapevolezza del potere decisionale ormai assunto dall’economia e dal sistema finanziario capitalista rispetto ai partiti democratici e all’esecutivo eletto, i quali in tal modo hanno perso la loro autonomia. E questa non è soltanto la posizione di un ingrigito vecchio uomo di sinistra bensì anche il punto di vista di ministri delle finanze di estrazione borghese.

E tuttavia: i paradigmi dell’economia non sono leggi naturali consolidatesi all’interno della coscienza, ma sono influenzabili e modificabili. Basterebbe che tutti gli economisti intelligenti con i loro modelli computerizzati intendessero la loro disciplina non soltanto come una scienza volta all’ottimizzazione ma lavorassero di più a modelli alternativi. Non si dica subito, ma questo è socialismo e economia di comando. Basterebbe sviluppare modelli che intanto riducono il capitalismo selvaggio. La tassa sulle transazioni finanziarie sarebbe un esempio del genere. Che per tanto tempo sia stata demonizzata come la morte del sistema borsistico tedesco, se non addirittura del benessere, è la riprova di come abbia ben funzionato il sistema delle difese ideologiche, tutto teso al profitto.

Lo sviluppo di tali modelli sarebbe un esercizio di solidarietà. Vedere le tasse per quello che sono, ossia come cose fastidiose ma necessarie, visto che servono al bene comune e non a interessi privati. L”aumento delle tasse, non delle accise, ma delle tasse patrimoniali e in particolare delle tasse di successione è nondimeno un fatto dal quale non si può prescindere. Questa sarebbe la premessa per un risarcimento, per addivenire ad una più equa distribuzione delle ricchezze.

Sarebbe il tentativo di sviluppare un atteggiamento solidale volto a produrre una certa proporzionalità all’interno della società. Prescindendo dagli stipendi di fantasia dei banchieri compresi tutti i loro bonus, l’iniquità si trova nella concretissima vita di tutti i giorni degli impiegati nella quale un operatore finanziario guadagna in media tre volte più di un medico ospedaliero con la medesima anzianità e cinque volte tanto un’infermiera. Per tacere di coloro che svuotano le nostre pattumiere e non possono accettare nemmeno 10 euro per Natale.

Questa non è una discussione che nasce dall’invidia, uno di quei concetti creati dai neo-liberali, ma una discussione sulla giustizia e su ciò che dalla società è giusto pretendere.

Gli esempi di una mancata equità distributiva sono una valanga.

Fra questi rientra, solo per menzionare un esempio concreto, seppur modesto, il fatto che non si capisce, o almeno io in quanto autore non capisco come mai  70 anni dopo la morte si continuino a pagare diritti d’autore a nipoti e a pronipoti. Magari i figli hanno sofferto per il padre workaholico. E allora potrebbe essere un risarcimento postumo. Ovviamente anche la vedova o il vedovo è giusto che siano garantiti. Ma penso che 40 anni possano bastare. I proventi per gli ulteriori trent’anni previsti dall’attuale regolamento, potrebbero, qualora i libri venissero ancora letti e i drammi ancora allestiti, finire in un fondo per artisti bisognosi.

E così non solo i nipoti ma anche qualche collega potrebbe brindare con un bicchier di vino alla salute del benefattore.

Oggi, qui, la cosa è resa possibile dai contribuenti e dal governo regionale e dal presidente della regione. A tutti costoro prometto che non svuoterò da solo la botte di vino in cui consiste il premio.

Il mio ringraziamento va alla regione Renania Palatinato, alla giuria, al presidente della regione per questa bella tradizione legata alla Carl-Zuckmayer-Medaille.

Uwe Timm

(traduzione di Matteo Galli)

This entry was posted in Interventi, Matteo Galli, Saggi and tagged , , , , , , . Bookmark the permalink.

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *