La fortuna critica di Kleist

[La fortuna critica di Kleist è apparso in Quaderni piacentini, III, Franco Angeli Editore, Milano 1981, pp. 79 – 91. Si tratta della registrazione di un intervento tenuto al convegno Attualità e presenza di Kleist organizzato dall’assessorato alla cultura di Brescia (6-11 aprile 1981). La fotografia lo ritrae invece durante la manifestazione Rileggere i classici tedeschi, organizzata dall’Università di Torino e tenutasi al Centro d’incontro La Tesoriera nel novembre-dicembre 1979. C.M.]

Cesare Cases

Forse il titolo è un po’ accademico, perché dà l’impressione che io volessi fare una specie di rassegna della critica, ciò che non è nei miei intenti perché non credo che questo interesserebbe molto il pubblico. Volevo solo sottolineare alcuni aspetti dell’immagine, diciamo, tradizionale di Kleist, e di quella che si può avere oggi in seguito a un certo processo di revisione che ha avuto luogo solamente negli ultimi decenni, negli anni del dopoguerra. La prima pietra era stata messa da un grande studioso, Max Kommerell, in un saggio uscito nel 1941 e che non aveva avuto ripercussioni immediate perché si contrapponeva a un’immagine che faceva comodo alla cultura nazista. La deformazione del personaggio Kleist, e quindi dell’opera – poiché «operari sequitur esse» e spesso il giudizio che si dà sull’opera dipende più o meno inconsciamente di quello che si dà sull’autore – è stata resa possibile dalla sua indubbia misteriosità. Di quest’uomo sappiamo ben poco, anche per quanto riguarda il periodo berlinese, gli ultimi anni, in cui frequentava i salotti, scriveva un giornale e aveva una cerchia abbastanza vasta di relazioni, anche se non di amicizie vere e proprie.

Molte leggende si erano create in base alla convergenza che c’era stata negli ultimi anni della vita di Kleist tra lui e i romantici in nome di un comune nazionalismo antinapoleonico, che peraltro proprio in Kleist aveva assunto forme più attivistiche (i romantici si limitavano a parlare ma combinavano poco, mentre Kleist era più uomo d’azione, uno dei suoi detti preferiti, che aveva mutuato da un suo amico, di nome Brokes, era «agire è meglio che conoscere»). Questa convergenza oggettiva, che non era stata mai senza riserve, anche nel periodo della stretta collaborazione tra Kleist e Adam Müller, aveva dato dunque origine alla leggenda del Kleist romantico, nazionalista, irrazionalista che faceva appunto comodo al nazismo. Determinante era stata l’opera di uno studioso, peraltro rispettabile, Reinhold Steig, che aveva fatto di Kleist uno degli animatori della «christlich-deutsche-Tischgesellschaft», un’associazione a carattere reazionario e antisemita con cui sembra che in realtà Kleist abbia avuto poco a che fare. Decisiva per sfatare questa leggenda fu la raccolta di testimonianze pubblicata nel 1957 con il titolo Kleists Lebensspuren (le tracce della vita di Kleist), da uno studioso, Helmut Sembdner, e poi più volte ristampata, perché qui abbiamo proprio i documenti originali e le poche testimonianze che riguardano la vita di Kleist. Questa raccolta serve appunto a smentire delle false ipotesi, ma non può rimediare alla scarsità di notizie autentiche.

La fonte più importante resta sempre l’epistolario, ma esso ci è rimasto solo parzialmente, e la parte più cospicua di esso si situa tra il 1799 e il 1801, cioè prima che Kleist si accorgesse della sua vera vocazione e si desse all’attività letteraria, di cui le lettere, con la loro accuratezza formale, sono probabilmente, in qualche modo, un surrogato. Del resto, proprio perché le lettere sono scritte in modo consapevole, quasi ufficiale, esse non ci dicono molto sullo scrivente, anche se spesso sono bellissime: forse sarà stato diverso per lo scritto, andato perduto, Geschichte meiner Seele (Storia della mia anima), un titolo che sembra leopardiano, composto verso il 1801 per un amico, Rühle von Lilienstern. Il fatto che Kleist abbia scoperto la sua vocazione letteraria solo a Parigi nella primavera-estate del 1801, dopo la cosiddetta «crisi kantiana» («Kant-Krise») e che avesse abbandonato la carriera militare per darsi agli studi, allora scientifici, solo due anni prima, significa che fino ai 22 anni egli non ebbe in pratica alcuna autocoscienza di intellettuale, e fino ai 24 nessuna autocoscienza di scrittore. Si capisce che ebbe lo stesso una fervida vita intellettuale, come non può essere altrimenti per un uomo di questa genialità. Ma di questo noi non sappiamo praticamente nulla. Del suo grande antagonista, Goethe, abbiamo molti compiti di scuola, le poesie da bambino in onore del compleanno della nonna e così via; se i suoi scritti non li conservava lui, c’era sempre qualche mano pietosa o entusiastica che li trascriveva e ce li tramandava, e così accadde della prima redazione del Faust, l’Urfaust, o della prima redazione del Wilhelm Meister, e in fondo di Goethe, sì, sarà andato perduto parecchio, ma non qualcosa di essenziale. Mentre di Kleist è andato perduto moltissimo, da chissà quante lettere alla prima redazione del Roberto Guiscardo, da lui bruciata, al romanzo in due volumi da lui offerto poco prima di morire all’editore Cotta e che lui riteneva già quasi ultimato (sarà stato un po’ ottimista, come gli succedeva in questi casi, ma è molto probabile che almeno in buona parte questo romanzo fosse stato scritto).

Ciò può dipendere in parte dall’uomo, dalla sua vita povera e irrequieta, ma dipende soprattutto, direi, dall’ambiente di origine. Noi versiamo lacrime wertheriane sui giovani intellettuali tedeschi della epoca, intellettuali borghesi, vittime dei soprusi e dell’incomprensione dell’aristocrazia, lacrime che cominciavano già a versare loro (Giorgio Manacorda ha parlato appunto a proposito del Werther di «masochismo»), e abbiamo ragione a solidarizzare con loro. Ma nascere nella classe aristocratica e rompere con essa era ben peggio, e spesso non ci si rende conto dello straordinario coraggio di Kleist nell’effettuare questa rottura. Gli scrittori borghesi erano figli di giuristi o di pastori protestanti che avevano comprensione per l’attività intellettuale, anche se magari rimproverano ai figli di non avere un mestiere, di trasformare questa attività in pane, di non diventare essi stessi appunto giuristi o pastori protestanti: ma un von Kleist doveva diventare militare, come era stato avviato a diventare, o, nella peggiore delle ipotesi, doveva diventare funzionario statale, come cercò più tardi di diventare senza riuscire a combinare molto per la contraddizione che non glielo consentiva. Uscire da questa cerchia significava trovarsi davanti al vuoto, al vuoto economico intanto, perché un nobile non poteva abbassarsi a fare per esempio il precettore, come hanno fatto tanti da Schiller a Hölderlin, e al vuoto sociale. I masochisti borghesi, che se ne rendessero conto o meno, avevano dietro di sé una classe in ascesa, e c’erano molti che si identificavano in loro e che li seguivano: gran parte della psicologia di Kleist si spiega invece con questa solitudine di classe; era un uomo che aveva rotto i ponti con la propria classe e che non trovava una possibilità di inserirsi in quella borghese. Di qui molti elementi della sua psicologia, anzitutto l’orgoglio, la presunzione che gli rimproverano i contemporanei (Brentano lo chiama «schrecklich eingebildet», terribilmente presuntuoso), nonostante la profonda bontà che tutti erano concordi nel riconoscergli, anche Brentano, il quale buono certamente non era, e quindi poteva sapere chi era buono e chi non era buono. Poi la sensazione di affacciarsi sul nulla e di sfidarlo, l’idea che la vita ha senso solo se si affrontano e si superano prove estreme, e inversamente l’insopportabilità del fallimento; i borghesi saranno stati masochisti, ma lo erano appunto perché erano abituati a vedere infrangersi i loro tentativi contro delle barriere sociali: invece per Kleist valeva la morale del «o la va o la spacca» che culmina nel famoso «es war mir auf Erden nicht zu helfen», non si poteva venirmi in aiuto su questa terra, rivolto alla sorellastra Ulrike prima di morire. Infine, altro tratto di questa psicologia, i complessi cultuali, la consapevolezza dell’autodidatta, che nonostante la vastità dei suoi interessi e dei suoi studi, che dapprima appunto erano stati studi filosofici-scientifici, non aveva mai seguito corsi regolari se non nelle arti in cui era stato educato, quella del cavalcare e di tirare di scherma; al polo opposto, di chi non doveva nulla alla nascita e tutto alla cultura, c’erano i salotti della borghesia ebraica dove egli si trovava più a suo agio che altrove proprio perché la condizione di emarginati degli ebrei lo attirava di più che non le convezioni borghesi. Ancor meglio vi si sarebbe trovato se, come scriveva alla sorella, «gli ebrei non facessero tanto i preziosi con la loro cultura».

Insomma, quando Goethe prendeva in mano il Gründliches mythologisches Lexikon di Benjamin Hederich, il «Completo lessico mitologico», un’opera standard allora molto usata che forniva tutte le notizie possibili sulla mitologia classica, Goethe lo faceva per integrare una cultura che era già preesistente, per esempio perché aveva bisogno di un altro po’ di comparse per animare la Notte Classica di Walpurga, che è fondata in buona parte su questo dizionario; quando invece Kleist si rivolgeva allo stesso dizionario, su cui è fondato ad esempio tutto l’apparato della Pentesilea, lo faceva proprio perché gli mancavano le conoscenze di base, perché era facile che facesse degli errori, come ne faceva spesso nelle lettere, che pigliasse lucciole per lanterne, che si ricordasse un episodio mitologico per un altro. Ma la conseguenza più importante di questa peculiare posizione dell’aristocratico disaristocratizzato è l’impavidità con cui quest’uomo affronta la crisi, proprio come i suoi eroi.

Ma nel comunicare, nel 1779, al suo ex precettore Christian Ernst Martini la sua decisione di abbandonare la carriera militare e di darsi agli studi, egli scrive: «Sempre più il mio cuore scalda e favorisce questa decisione, cui non vorrei rinunciare per tutto l’oro del mondo, e la mia ragione conferma ciò che dice il mio cuore e lo corona con la verità che è almeno saggio e consigliabile in quest’epoca mutevole appigliarsi il meno possibile all’ordine delle cose». Credo che abbia ragione uno studioso, Heinz Ide, che ha scritto un libro sul giovane Kleist, quando vede in queste parole quasi una prefigurazione del futuro conflitto con Goethe. Questi condivideva la consapevolezza che si viveva in un tempo di mutamento, ma per lui il problema era proprio quello di gettare un ponte tra il vecchio e il nuovo, di non rompere l’ordine delle cose, mentre Kleist vi si vuole attenere, come egli dice, «il meno possibile».

Certo, per il momento, in prima istanza, si trattava soltanto di rompere con un ordine delle cose che per lui era la costrizione cui era stato sottoposto finora controvoglia, quella della vita militare, per seguire la propria vocazione, la propria destinazione, la propria «Bestimmung»; queste parole, «Bestimmung», «Lebensziel», «Lebenszweck», fine della vita, scopo della vita, compaiono frequentissimamente nelle lettere di questo periodo e sono alla base dell’aspetto spesso pesantemente pedagogico che esse assumono nei confronti di Ulrike, la sorella, e soprattutto della fidanzata Wilhelmine von Zenge. Per lui stesso, lasciando andare adesso quello che lui consigliava agli altri, per lui stesso la vocazione, «Bestimmung», era quella della scienza, del sapere, della «Wissenschaft». Ora, questa fiducia nella scienza crolla nel periodo parigino, in seguito alla cosiddetta «crisi kantiana» su cui si è molto discusso e di cui si sa pochissimo, non si sa tra l’altro nemmeno quali fossero i testi che hanno provocato questa crisi, perché certo Kleist conosceva già dei testi kantiani. Ma probabilmente questo non è che sia di importanza capitale perché questa crisi non fa che fondare teoricamente una crisi esistenziale che c’era già in Kleist, il quale, soprattutto nell’ambiente parigino che lo aveva in buona parte deluso, sentiva crollare questa sua fiducia nella scienza come «Lebenszweck», come fine della vita; e Kant appunto gli confermava che se anche il processo del sapere è condizionato dalla struttura del soggetto, allora non esiste alcuna verità di cui si possa dire propriamente che è oggettiva. Questo mette in crisi anche i presupposti del linguaggio.

Kleist scopre la sua vocazione poetica nel momento in cui scopre il suo linguaggio, che è un linguaggio – con le sue caratteristiche inversioni, fratture, periodi a scatole cinesi, che durano magari pagine intere nella prosa, con proliferazione delle secondarie rispetto alle principali e con una concentrazione semantica proprio sulle secondarie, che diventano più importante delle principali – sorto dalla consapevolezza dell’inadeguatezza del linguaggio comune: la verità più profonda, se c’è, è inaccessibile al linguaggio normale, o si esprime attraverso il parlare nel sonno come nella famosa scena della Caterinetta di Heilbronn. Di qui a dire che è il sonno della ragione che ingenera la verità, mentre è la ragione che ingenera mostri, come ha detto un pensatore contemporaneo rovesciando la nota frase di Goya, poco ci manca. E questa verità che cos’è se non un destino che emerge dal fondo irrazionale dell’universo e che travolge gli eroi kleistiani?

E questa è in effetti la concezione invalsa dopo il libro di Gerhardt Fricke Sentimento e destino in Heinrich von Kleist pubblicato a Berlino nel 1929, libro importante, ma in cui si respira l’aria di un esistenzialismo già nazisteggiante. Del resto Fricke diventerà un buon nazista e insegnerà nell’Università di Strasburgo dove si mandavano durante la guerra gli uomini di punta. Il primo dramma di Kleist, La famiglia Schroffenstein, tecnicamente forse ancora debole ma che, a detta di tutti, contiene in sé in forma forse più pura che non in tutte le opere posteriori la concezione generale di Kleist, questo dramma viene descritto da Fricke come tipico dramma del destino, in cui il destino, dice Fricke, «appare come un’insensata catena di casi ingannatori che turbano ogni azione dell’io e lo trasformano in alcunché di arbitrario. Qui il destino è diventato puro caso che dal principio alla fine è l’unica realtà che governa immutata e uniforme e muove tutto». È chiaro come una concezione di questo genere fosse atta, in forma naturalmente più rozza, debitamente semplificata, a essere manipolata dalla cultura nazista, che presenterà Kleist come il teorico di questo fondamento irrazionale che governa l’universo e da cui bisogna lasciarsi guidare anziché dalla ragione che è da mettere al bando. Ecco dunque il Kleist rivelatore del fondo irrazionale e assurdo dell’universo. Se uno legge però il dramma non trova in alcun modo motivata questa ipotesi, che dipende anch’essa dalla proiezione dell’ultima fase di Kleist su tutta la sua opera: operazione che fa già violenza all’ultima fase, ma che è in qualche modo legittimata dalla collaborazione tra Kleist e i romantici. Kleist nei «Berliner Abendblätter», il giornale da lui fondato e diretto negli ultimi mesi di vita, fa un grande elogio ad esempio del dramma Il 24 febbraio di Zacharias Werner, quello sì un tipico dramma del destino, dove c’era un bel coltellaccio appeso alla parete con cui i membri di una famiglia si sgozzavano vicendevolmente sempre il giorno 24 di febbraio. Se uno invece legge La famiglia Schroffenstein trova che le cose stanno ben diversamente.

Prendiamo l’episodio del gatto che mangia la marmellata di ananas, episodio reso celebre da Ludwig Tieck, lo scrittore romantico che è stato il primo editore delle opere di Kleist e che era un appassionato gattofilo (non per nulla una delle sue opere più deliziose è Il gatto con gli stivali), mentre Kleist, stando a quello che ricorda Tieck, era un nemico dei gatti e non li poteva sopportare (il che può anche essere: il gatto è un animale per eccellenza casalingo, e Kleist si può dire che non ha mai avuto una casa, faceva una vita troppo irrequieta e instabile per poter trovare conforto in un gatto). Tieck era profondamente irritato da questa scena, perché secondo lui era impossibile che un gatto potesse mangiare della marmellata di ananas. Ne parlò spesse volte, e a un amico disse: «A un conoscitore di gatti come me, che aveva familiarità con queste bestiole, riesce duro che un gatto debba mangiare ananas in conserva. Questa assurdità bisognerebbe eliminarla. Ma come?». Tra parentesi, gattofili a cui mi sono rivolto tendono a dare ragione a Kleist; non si possono porre dei limiti ai gusti dei gatti, che sono animali anarchici e imprevedibili. In media non mangeranno marmellata, ma ci può essere sempre quel gatto che mangia marmellata e in particolare va matto per la marmellata di ananas; forse Tieck era abituato a gatti tedeschi, più ligi alle leggi che regolano la corporazione dei gatti. Dunque Tieck era disposto addirittura a cancellare questo passo, ciò che per un curatore delle opere di Kleist era piuttosto grave, ma per fortuna si rendeva conto che era impossibile, che il passo era indispensabile.

Vediamo un po’ da vicino questo gatto. Esso appartiene al ramo dei Warwand della famiglia Schroffenstein, la quale è divisa appunto in due rami, il ramo dei Warwand e il ramo dei Rossitz, che sono legati tra di loro da un patto per il quale, in caso di estinzione di un ramo, l’altro avrebbe ereditato tutti i beni del primo. Già questo è poco compatibile con l’idea del dramma del destino. Il presupposto della tragedia che crea la faida tra le due famiglie, o tra i due rami della stessa famiglia, non è affatto un destino astratto e metafisico, bensì la proprietà privata, che è la causa di tutti i mali per Kleist come per il suo grande maestro Rousseau. Il dramma in sé è calcato su quello di Romeo e Giulietta, con l’amore tra due rampolli delle famiglie rivali, ma molto più che in Shakespeare si insiste sulla sanguinosa faida, il cui spunto è offerto dal ritrovamento del cadavere di un ragazzo della casa Rossitz mutilato di un dito, il che sembra sia stato fatto in segno di spregio dopo averlo ucciso. Il padre del ragazzo, Rupert, il capo della casa Rossitz, incolpa la casa Warwand del delitto. Rupert è il cattivo della situazione, mentre il capo della casa Warwand, Sylvester, è un saggio che cerca di arginare il conflitto che causa sempre nuove vittime. Kleist, intelligentemente, ha affiancato a questi due personaggi delle mogli complementari: quella di Rupert cerca di frenare le ire del marito e di fargli intendere ragione, mentre quella di Sylvester lo trova pericolosamente remissivo e lo spinge a rintuzzare gli attacchi dei Rossitz. E così entra in scena il gatto. Gertrude, la moglie di Sylvester, tra le prove delle cattive intenzioni di Rupert ricorda che la moglie di costui mandò a Sylvester quando si stava ristabilendo da una malattia una barattolo di marmellata di ananas: Gertrude, sempre diffidente, pregò il marito di non mangiarne, e di sostituirla con una marmellata di pesche di sua personale fabbricazione. Ma Sylvester, da testone qual è, e da uomo fiducioso qual è, si era ostinato a mangiare la marmellata dei Rossitz, e subito aveva avuto un violento attacco di vomito. Quindi la marmellata doveva essere avvelenata. Sylvester però ci pensa un po’ su, e dice che non è vero, che le cose sono andate in modo diverso, e la figlia, che è testimone, conferma: perché il gatto, quanto Sylvester stava per mangiare la marmellata di ananas, gli era saltato addosso e se l’era mangiata lui, e allora Sylvester era stato costretto a servirsi di quella di pesche, e il gatto aveva tranquillamente mangiato la marmellata dei Rossitz leccandosi i baffi, mentre lui era stato male per colpa della marmellata preparata dalle mani amorevoli della moglie. L’episodio è tipicamente kleistiano e insieme è agli antipodi della interpretazione della tragedia come tragedia del destino. Il male si rovescia sul capo delle due famiglie non in seguito a qualche destino metafisico bensì per l’incapacità degli uomini, in particolare di Rupert, di resistere all’accecamento delle passioni scatenate in ultima istanza dalla paura degli altri, in quanto la proprietà privata rende l’uomo «homini lupus». Ci vuole la morte dei due giovani che si amano, Ottokar e Agnes, i Romeo e Giulietta della situazione, per far capire alle famiglie che si stanno distruggendo inutilmente a vicenda, e la confessione di una specie di fattucchiera rivela che era stata lei a tagliare il dito al ragazzo dei Rossitz che era morto annegato in modo puramente accidentale, e questa fattucchiera conclude: «Wenn ihr euch totschlagt, ist es ein Versehen», se voi vi ammazzate è un errore, è un equivoco.

Dunque tutt’altro che «un’insensata catena di casi ingannatori», bensì una catena di errori umani che ad ogni momento avrebbero potuto essere evitati così come la buona memoria di Sylvester nel caso del gatto gli impedisce di aggiungere un’altra accusa ai misfatti veri o presunti dei Rossitz. Se il mondo è per Kleist come per Rousseau fondamentalmente buono, ed è la società ad introdurvi l’errore e il male, il destino non è altro che il coagularsi degli errori e l’alternativa è, come si intitola un libro di Walter Müller-Seidel del 1961, scritto in gran parte contro l’interpretazione di Fricke, «Versehen und Erkennen», sbagliare e capire. Si tratta appunto di distinguere ogni volta quello che è vero e quello che è falso, quello che è pura immaginazione e quello che invece corrisponde a realtà.

Vediamo quali conseguenze si possono trarre da questa nuova impostazione.

In primo luogo questo atteggiamento non si può definire altrimenti che illuministico: ciò che è morto dell’illuminismo dopo la crisi kantiana in Kleist è la fiducia di poter attingere ad una verità totale e compatta e renderla con un linguaggio adeguato, una specie di adaequatio rei et intellectus. Si dirà che questa non è una caratteristica dell’illuminismo, o almeno di molto illuminismo, per esempio dell’illuminismo degli enciclopedisti che anzi insistevano sulla relatività e parzialità e sul condizionamento pratico del sapere. Ma Kleist proveniva, con ogni probabilità, dal proto-illuminismo tedesco di stampo wolffiano, e anche se molto presto ne aveva abbandonato le radici teologiche, perché il suo allontanamento dalla religione deve essere stato molto precoce, ne aveva mantenuto l’aspirazione universalistica. Certo anche qui non abbiamo notizie precise. Sappiamo solo che Kleist era stato profondamente influenzato dalle prime opere di Wieland, del Wieland giovanile, opere tra religiose e eudemonistiche per l’influsso di Shaftesbury, e soprattutto da un libro di Wieland intitolato Harmonien, ma è probabile che la cultura da lui assimilata da ragazzo, e di cui appunto non sappiamo praticamente nulla, fosse arretrata di un paio di decenni rispetto a quella che assimilava la borghesia sua coetanea, come è naturale in una città di provincia e in una famiglia aristocratica. Una prova è l’impasto linguistico della Brocca spezzata, di cui Sembdner ha dimostrato che deriva in buona parte da Rabener, uno scrittore satirico e morale letto in tutte le famiglie negli anni ’50, e quindi letto da Goethe bambino o ragazzo, che comincia quella specie di storia della letteratura tedesca che fa nell’ottavo libro di Poesia e verità proprio con Rabener, ma quasi completamente dimenticato alla fine del secolo. Non dobbiamo mai dimenticare che questa in Germania è un’epoca di rapidissima evoluzione culturale, in cui nel giro di un decennio maturano tutte le prospettive, le concezioni, i linguaggi, come si vede bene soprattutto dall’evoluzione di Goethe che copre tutto l’arco di questo periodo cruciale della storia culturale tedesca. Il ricorso a Rabener dimostra quindi quanto arretrata fosse la cultura di partenza di Kleist.

La crisi kantiana scuote la fiducia proto-illuministica che egli aveva in un cosmo perfettamente ordinato; per esempio una delle sue concezioni più care era quella che aveva trovato in un cosmologo di cui aveva seguito anche le lezioni, per cui, per una specie di trasmigrazione delle anime, queste dopo la loro vita su questa terra sarebbero risorte su altri astri, e quindi il bagaglio di sapere che uno aveva accumulato durante le vita su questa terra si sarebbe integrato e perfezionato col sapere acquisito nella permanenza sugli altri astri. Ora una concezione di questo genere cade con la crisi kantiana (come documentano le lettere di Kleist), perché se il sapere che accumuliamo su questa terra è strettamente condizionato dalle categorie di spazio e di tempo, le quali possono non valere per i soggetti di un altro pianeta, allora ecco che tale speranza viene a cadere. Questo è appunto il tipo di concezioni illuministiche da cui proveniva Kleist e che sono state scosse dalla crisi kantiana; però, scosse queste concezioni, restava pur sempre la volontà di giungere alla verità e di confutare l’errore, anche se ora Kleist si rende conto che l’errore, il malinteso, dominano il mondo.

E, secondo punto, questo errore, questo malinteso sono un effetto della diffidenza che regna tra gli uomini usciti dallo stato di natura: la forza del sentimento, il quale certo ha un’importanza fondamentale in Kleist, non sta dunque nell’essere opposto o alternativo alla ragione (anche se talvolta può apparire decisamente irrazionale, come l’attaccamento di Kätchen al conte von Strahl), bensì nel testimoniare la possibilità di un rapporto schietto che rompa la crosta reificata che impedisce l’avvicinamento, la comprensione, la comunicazione tra gli uomini. Il dramma kleistiano oscilla sempre tra la diffidenza e la sfiducia da una parte, che sono le naturali condizioni dell’esistenza in società, e la fiducia, che richiama l’uomo alla sua vera essenza. Questo è quello che provano Ottokar e Agnes nella Famiglia Schroffenstein, oppure Eva e Ruprecht nella Brocca spezzata, Alcmena e Anfitrione nell’Anfitrione e altri personaggi kleistiani. Ma il sentimento non è di per sé fonte di verità; proprio perché la società è quello che è, esso può essere quanto mai ingannevole, come accade per esempio nel Terremoto del Cile, dove il temporaneo ritorno allo stato di natura distrugge le difese degli uomini contro il riformarsi delle istituzioni sociali che erano state per qualche tempo paralizzate. In generale non c’è in Kleist un’esaltazione incondizionata dell’istinto, e se si desse retta agli istinti ognuno si ricorderebbe di marmellate avvelenate che non sono mai esistite.

Terzo punto: un episodio come quello del gatto porta una nota ironica che contrasta con l’immagine del Kleist eternamente e tetramente ossessionato dalla tragicità dell’esistenza che ci avevano voluto presentare. Kleist occupa certo un posto insigne nella storia della tragedia, nonostante o proprio perché ha scritto due sole pure tragedie, la Pentesilea e la Famiglia Schroffenstein, e su quest’ultima si possono appunto sollevare dei dubbi (si può ricordare che l’amico Zschokke, molto vicino a Kleist quando scrisse La famiglia Schroffenstein, ricorda di letture fatte di questa tragedia davanti a lui e a un altro amico, di figlio di Wieland, Ludwig, che verso la fine si misero a ridere, e, a poco a poco, Kleist stesso, contagiato, si mise a ridere anche lui). A parte queste due che almeno formalmente si possono considerare delle pure tragedie, Kleist non ne ha scritte altre, eppure che egli sia importante nella storia delle concezioni del tragico, è un’altra questione, su cui non voglio insistere. Vorrei piuttosto ricordare come negli ultimi anni, specie dopo il libro di Michael Moering, Lo spirito e l’ironia nell’opera di Kleist (1972), si sia giustamente insistito sulla larga parte che ha l’ironia nell’opera kleistiana, sia nei racconti che nei drammi.

Quarto punto: questa ironia rasenta spesso la parodia, e in particolare la parodia di quella che i tedeschi chiamano «Trivialliteratur» e che noi chiamiamo paraletteratura secondo un nuovo termine oppure letteratura popolare se usiamo il termine gramsciano. Michael Moering ha dato un’ottima lettura della Marchesa di O. vista come parodia del dramma lacrimogeno, il «Rührstück», che aveva allora due rappresentanti notissimi, Iffland e Kotzebue, avversati da Kleist come da Goethe (e quindi i due rivali qui andavano d’accordo), ma in realtà quasi sempre c’è un rapporto alquanto ambiguo di attrazione e di parodia di Kleist verso questo tipo di letteratura. Le prime reazioni del giovane Kleist verso di essa sono decisamente negative. C’è una lettera molto divertente scritta alla fidanzata da Würzburg (dove era andato nel 1800 per fare una operazione rimasta assai misteriosa). L’esperienza di Würzburg è molto interessante perché questo tipico prussiano protestante si trova per la prima volta ad affrontare un ambiente cattolico, ed ha verso di esso delle reazioni molto contraddittorie che si ripercuotono fin nelle ultime opere in un miscuglio di fascino e di esecrazione, per delle ragioni che adesso non è il caso di esporre. Qui, in questo passo, predomina l’esecrazione; Würzburg è una città dominata dai preti e quindi una città dove la cultura non arriva. Ricordiamo che la grande cultura tedesca del tempo è una cultura esclusivamente protestante (su questo c’è un famoso saggio di Hebbel, Il protestantesimo nella letteratura, che rivendica a ragione al protestantesimo la fioritura culturale della fine del ’700 e del principio dell’800, per lo meno per quanto riguarda la letteratura, altro è il discorso per la musica che notoriamente ebbe la sua sede nella cattolica Austria). A Würzburg dunque lui entra in una biblioteca di lettura: allora erano una novità, le biblioteche circolanti, come le chiameremmo oggi. E riporta un dialogo fra lui e il libraio, l’addetto a questa biblioteca:

«Vorremmo avere un paio di buoni libri.» – «Ecco qui la raccolta a disposizione.» – «Per esempio Wieland.» – «Ho i miei dubbi che ci sia.» – «Oppure Schiller, Goethe.» – «Sarà difficile trovarli qui.» – «Come, tutti questi libri sono esauriti? Si legge tanto qui?» – «Questo non direi.» – «Quali sono veramente i lettori più assidui?» – «Giuristi, commercianti e signore maritate.» – «E le nubili?» – «Non possono chiederne.» – «E gli studenti?» – «Abbiamo l’ordine di non dargliene.» – «Mi dica un po’, se si legge così poco, dove diavolo sono le opere di Wieland, di Goethe, di Schiller?» – «Scusi, codeste opere non si leggono affatto qui.» – «Dunque non le avete nemmeno in biblioteca?» – «Non sono permesse.» – «Che libri ci sono dunque qui alle pareti?» – «Racconti cavallereschi, solo racconti cavallereschi: a destra quelli con fantasmi, a sinistra senza fantasmi, a piacere.» – «Bene, bene.» [trad. di Ervino Pocar]

Qui evidentemente abbiamo a che fare con una ripulsa totale di questo genere di letteratura, eppure la morale della favola è che Kleist ha scritto storie cavalleresche, a cominciare dalla Caterinetta, storie di spettri, come La mendicante di Locarno, storie di briganti, come il Kohlhaas (altro genere diffusissimo nella Trivialliteratur, soprattutto il Rinaldo Rinaldini del cognato di Goethe, Vulpius; il personaggio del brigante gentiluomo era uno dei più comuni); oppure anche storie esotiche – e l’esotismo faceva parte del bagaglio di questa letteratura – per esempio il Fidanzamento a Santo Domingo che si svolge ad Haiti; poi storie medievali come la stessa Caterinetta o il Duello. Tutte tematiche quindi proprie della paraletteratura o del romanticismo deteriore, che Kleist vuole fino a un certo punto prendere in giro, ma a cui vuole anche fare concorrenza per trovare dei lettori, cosa che non gli riusciva di fare con le sue opere più autentiche, finché in alcuni degli ultimi racconti, soprattutto nel Duello, finisce poi per identificarsi con questo tipo di letteratura. E questo rapporto ambiguo è un rapporto analogo a quello che lo lega al giornalismo. Il bisogno di pubblicità e di contatto con il pubblico, oltre alle ragioni economiche, lo spinge verso il giornalismo anche nei suoi aspetti più dubbi, la cronaca nera, di cui lui fu uno dei primi iniziatori: nei «Berliner Abendblätter» c’era sempre la cronaca nera, e il successo di questo giornale fu dovuto essenzialmente al fatto che Kleist si era messo d’accordo col capo della polizia, Gruber, perché gli desse le notizie degli incidenti, dei delitti ecc. in modo da poterli pubblicare subito, mentre terminò immediatamente quando, in seguito a dissapori con la sfera ufficiale, gli si ritirò la concessione. Da una parte c’è questo bisogno, e dall’altra egli cerca, nei limiti del possibile, di fare del giornale un portavoce della verità come si enuncia già nello scritto programmatico che apre i «Berliner Abendblätter», La preghiera di Zoroastro, distinguendosi da quella corruzione giornalistica che egli aveva attribuito un po’ disinvoltamente ai soli francesi in una delle sue opere nazionaliste e antifrancesi, il Manuale del giornalismo francese.

Riassumendo quello che si è detto e concludendo. L’immagine complessa che abbiamo oggi di Kleist è diversa, più sfumata e non meno convulsa, di quella dell’anteguerra, che ha continuato a influenzare anche parte della critica posteriore. Caso mai c’è il rischio di cadere, come sogliono fare i tedeschi, nell’eccesso opposto. Se prima avevamo un Kleist talmente ritto sui coturni e assetato di morte da essere inconciliabile con la realtà dei testi, adesso abbiamo, specie dopo il libro di Jochem Schmidt, apparso nel 1975, e ancor più in certi prodotti ultramarxisti, un Kleist talmente illuminista, razionale, beffardo e allegrone, che non si capisce come alla fin fine si sia ammazzato dicendo che per lui non c’era salvezza sulla terra, anziché continuare quest’opera di propaganda illuministica a favore della verità e contro l’errore. Il Kleist illuminista, anarchico, rousseauiano, che pure ha la sua validità, non può cancellare il fatto che lo scrittore rappresenta una situazione di derelizione, un mondo abbandonato da Dio in cui l’incomprensione e l’errore sono la norma, in cui il linguaggio tradisce e la verità, divenuta inesprimibile, emerge solo a tratti dopo che il linguaggio si è esaurito, o quando risorge nelle trasognate confessioni di Kätchen. E su questo punto, sul rapporto tra il linguaggio e l’inesprimibile, aveva appunto già scritto pagine memorabili nel 1941 in un saggio di questo titolo il precitato Max Kommerell. Non si può sottolineare un aspetto senza sottolineare anche l’altro. La grandezza inesauribile, incommensurabile, di Kleist, che stiamo appena cominciando a sondare, sta proprio nell’aver avuto la coscienza che il mondo era uscito dai cardini, ma che non per questo bisognava smettere di pensare e di sperare in forme di esistenza in cui amore e fiducia fossero possibili, e questo senza cercare compromessi con il passato, ma andando avanti, e non indietro, poiché l’ultimo capitolo della storia del mondo, come si dice in quella specie di rifacimento della genesi che è il famoso saggio sul teatro delle marionette, consiste nel mangiare sempre più dell’albero della conoscenza per tornare allo stato di innocenza a cui non ci è dato tornare direttamente, ma solo attraverso questa lunga mediazione, facendo tutto il giro del mondo e spingendo fino in fondo le istanze della ragione.

Cesare Cases

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