Tre incipit: Der Zauberberg

[Quando un romanzo viene tradotto in italiano tre volte, qual è il suo incipit? Verrebbe da dire che ogni epoca ha il suo. Nel 1932 La montagna incantata si poteva leggere solo nella traduzione di Bice Giachetti-Sorteni pubblicata in due volumi dalla casa editrice Modernissima; nel 1965 le si sarebbe con tutta probabilità preferita la traduzione di Ervino Pocar, uscita nella serie di Tutte le opere di Thomas Mann curata da Lavinia Mazzucchetti per Mondadori; dallo scorso anno esiste la traduzione di Renata Colorni, apparsa nei Meridiani Mondadori, nella quale il romanzo ha assunto un nuovo titolo: La montagna magica. Li riporto tutti e tre (saltando il prologo). C.M.]

Thomas Mann

[I – 1932]

Un giovanotto di aspetto semplice e comune era partito in piena estate da Amburgo, sua città natale, diretto a Davos, nel Canton dei Grigioni, dove contava di rimanere tre settimane in visita presso un suo parente.

È un viaggio lungo da Amburgo fin lassù, troppo lungo anzi in rapporto ad un soggiorno tanto breve. Si passa attraverso varie terre, si sale, e si scende dall’altopiano meridionale tedesco fino alle rive del « mare svevo » di cui si solcano in vapore le onde, sopra abissi ritenuti in altri tempi senza fondo.

Da questo punto in poi il viaggio, che prima procedeva a grandi linee dirette, si spezzetta, si interrompe. Ci sono fermate e formalità d’ogni genere. A Rorschach, su territorio svizzero, si riprende la ferrovia con la quale però si giunge soltanto fino a Landquart, una piccola stazione alpina dove si è costretti a cambiare treno. È un trenino a scartamento ridotto su cui si sale dopo essere stati fermi ad aspettarlo per un poco, in mezzo ad un paesaggio poco attraente e molto battuto dal vento; e nell’istante in cui la macchina, piccola ma dotata evidentemente d’una singolare potenza di trazione, si mette in movimento, comincia la parte veramente avventurosa del viaggio, un’ascesa ripida e improvvisa che non accenna a terminare, poiché la stazione di Landquart è situata relativamente ad un’altezza media, mentre dopo di averla oltrepassata si sale sul serio, per una strada tutta rocciosa e di selvaggio aspetto, verso l’alta montagna.

Giovanni Castorp (quest’è il nome del giovanotto), con una valigetta di pelle di coccodrillo (dono dello zio e tutore, il console Tienappel, per dire qui subito anche il suon nome), col soprabito d’inverno che dondolava appeso ad un gancio e uno scialle arrotolato, si trovava in uno scompartimento dai sedili tappezzati in grigio; sedeva vicino al finestrino aperto e, siccome il pomeriggio andava di mano in mano rinfrescandosi, così egli, figliolo di famiglia e ragazzo avvezzo a tutte le delicatezze, teneva rialzato il bavero del soprabito estivo lavorato in seta e molto ampio, secondo la moda di allora. Accanto a lui stava, negletto sul sedile, un volume dal titolo Ocean Steamships, libro che al principio del viaggio egli aveva ogni tanto studiato; ora però era là abbandonato, ed il soffio ansante della locomotiva, penetrando dal finestrino, deponeva sopra la sua copertina minuscole particelle di carbone.

Due giornate di viaggio allontanano l’uomo (e specialmente il giovane che non ha ancora salde radici nella vita) dal suo solito mondo, da ciò che egli chiama i suoi doveri, i suoi interessi, le sue preoccupazioni e aspirazioni; lo allontanano più di quanto egli stesso abbia potuto immaginarselo durante il tragitto in carrozza da casa alla stazione. Lo spazio che ruzzola via fuggendo tortuoso e si interpone fra lui e il suo luogo di residenza ha in sé forze che di solito si credono riservate al tempo; di ora in ora esso dà origine a interni mutamenti, molto somiglianti a quelli generati dal tempo ma che in certo qual modo li sorpassano. Come quest’ultimo, genera dimenticanza, ma lo fa sciogliendo la personalità dell’individuo dai suoi rapporti e ponendolo così in una situazione libera ed iniziale; perfino del pedante e del grasso borghese esso fa in un volger di mano qualcosa come un vagabondo. Si dice che il tempo è il Lete, ma anche l’aria delle lontananze è un’acqua simile, e se i suoi effetti hanno minore intensità sono però di tanto più rapidi.

Giovanni Castorp ne fece l’esperienza.

(da Thomas Mann, La montagna incantata, traduz. dal tedesco di Bice Giachetti-Sorteni, ed. originale Modernissima, Milano 1932; Dall’Oglio, Milano 1945, pp. 7-8)

Thomas Mann

[II – 1965]

Un semplice giovanotto era partito nel colmo dell’estate da Amburgo, sua città natale, per Davos-Platz nel Canton Grigioni. Andava in visita per tre settimane. Da Amburgo fin lassù però il viaggio è lungo, troppo lungo, a dir il vero, per un soggiorno così breve. Si passa attraverso parecchi paesi, in salita e in discesa, dall’altipiano della Germania meridionale sin giù alle rive del “Mare svevo” e col battello sulle sue onde tremolanti, sopra abissi che un tempo erano considerati inesplorabili.

Di lì il viaggio si fraziona dopo esser progredito comodamente per linee dirette. Si hanno interruzioni e intoppi. Nei pressi di Rorschach, località in territorio svizzero, ci si affida di nuovo alla ferrovia, ma si arriva soltanto fino a Landquart, una piccola stazione alpina dove si è costretti a cambiare treno. Dopo una sosta piuttosto lunga in quella zona ventosa e poco attraente, si prende una linea a scartamento ridotto, e nel momento in cui la locomotiva, piccola, ma, come si vede, dotata d’insolita potenza di trazione, si mette in moto, comincia la parte propriamente avventurosa del viaggio, una salita rapida e costante che pare non debba finire mai. Infatti la stazione di Landquart si trova a un’altezza relativamente modesta; ora invece, per una via scoscesa tra rocce selvagge, si monta davvero verso l’alta montagna.

Hans Castorp (così si chiamava il giovane), con una valigetta di coccodrillo, dono del suo tutore e zio, il console Tienappel (per dire subito anche questo nome), col suo cappotto invernale, che oscillava appeso a un gancio, e la coperta di viaggio arrotolato, si trovava solo sui cuscini grigi di un piccolo compartimento; teneva il finestrino aperto e, siccome il pomeriggio si faceva sempre più fresco, il figlio di papà, delicatuzzo com’era, aveva alzato il bavero del soprabito estivo, ampio secondo la moda e foderato di seta. Sul sedile, accanto a lui c’era un libro di brossura, intitolato Ocean steamships che al principio del viaggio egli aveva ogni tanto compulsato; ora invece stava là trascurato, mentre l’invadente respiro della locomotiva ansimante ne insudiciava la custodia con bruscoli di carbone.

Due giornate di viaggio allontano l’uomo (specie l’uomo giovane le cui radici sono ancora abbarbicate alla vita) dal mondo di tutti i giorni, da quelli che egli considerava doveri, interessi, affanni, previsioni, assai più di quanto non abbia immaginato mentre la carrozza lo portava alla stazione. Lo spazio che rotando e fuggendo di dipana tra lui e la sua residenza sviluppa forze che di solito si credono riservate al tempo; di ora in ora provoca mutamenti interiori molto simili a quelli attuati dal tempo, che però in certo modo li superano. Come quest’ultimo, esso genera oblio, ma lo fa staccando la persona dai suoi rapporti e trasportando l’uomo in uno stato di libertà originaria… anzi, trasforma in un baleno persino il pedante borghese in una specie di vagabondo. Il tempo, si dice, è oblio; ma anche l’aria delle lontananze è un filtro dello stesso genere, e se anche dovesse agire meno a fondo, in compenso lo fa con maggiore rapidità.

Tale fu l’esperienza di Castorp.

(da Thomas Mann, La montagna incantata, traduz. e introduz. di Ervino Pocar, ed. originale Mondadori, Milano 1965; con, in appendice, La montagna incantata, lezione di Thomas Mann agli studenti di Princeton, Corbaccio, Milano 1992; con un’introduz. di Giorgio Montefoschi e, in appendice, La montagna incantata, lezione agli studenti di Princeton, TEA, Milano 2005, pp. 3-4.)

Thomas Mann

Un giovane uomo come tanti era partito da Amburgo, sua città natale, diretto in piena estate a Davos-Platz, nel Cantone dei Grigioni. Vi si recava in visita per tre settimane.

Ma da Amburgo fino a quel posto lassù il viaggio è lungo; troppo lungo, in verità, per un soggiorno così breve. Si attraversano, per monti e per valli, paesi e contrade, dall’altopiano della Germania meridionale si raggiunge il litorale del mare di Svevia e poi, solcando in battello i suoi flutti agitati, si superano abissi che erano ritenuti insondabili.

Di lì in poi il viaggio, che fino a quel punto è proceduto magnificamente per linee diritte, si spezzetta. Intervengono soste e complicazioni. Nei pressi di Rorschach, in territorio svizzero, ci si affida di nuovo alla ferrovia, ma inizialmente si giunge solo fino a Landquart, piccola stazione alpina dove si è costretti a cambiare treno. Si sale su una linea a scartamento ridotto dopo esser stati a gironzolare per un bel po’ in una località ventosa e poco attraente, e nel momento in cui si mette in moto la locomotiva, piccola ma evidentemente dotata di un’insolita potenza di trazione, incomincia la parte veramente avventurosa del viaggio, una salita rapida e ostinata che sembra non voler finire mai. Landquart è situata infatti a un’altitudine ancora relativamente modesta; ora, invece, per una strada scavata nella roccia, selvaggia e opprimente, si sale davvero in alta montagna.

Hans Castorp – questo il nome del giovane – si trovava tutto solo, in un piccolo scompartimento rivestito di una grigia tappezzeria imbottita, con la sua borsa da viaggio di coccodrillo – un regalo dello zio e tutore, il console Tienappel, per fare subito anche questo nome -, il cappotto invernale che oscillava appeso a un gancio e un plaid arrotolato; era seduto accanto al finestrino abbassato e poiché il pomeriggio andava facendosi man mano più fresco, da quel gracile e viziato signorino che era, aveva rialzato il bavero del soprabito estivo, ampio e foderato di seta come andava allora di moda. Accanto a lui, sulla panca, era posato un volume in brossura dal titolo Ocean Steamships su cui all’inizio del viaggio si era ogni tanto concentrato, ma che ora giaceva negletto, mentre l’alito ansimante della locomotiva che penetrava dal finestrino ne imbrattava la copertina col suo pulviscolo di carbone.

Due giorni di viaggio allontanano l’uomo – e in specie il giovane non ancora saldamente radicato nella vita – dalla sua quotidianità, da tutto ciò che soleva chiamare doveri, interessi, preoccupazioni, prospettive; lo allontanano molto di più di quanto egli stesso non avesse immaginato mentre in calesse si avviava alla stazione. Lo spazio che ruotando e fuggendo si snoda tra lui e il suo humus originario sviluppa forze che abitualmente si credono riservate al tempo; di ora in ora lo spazio provoca intimi mutamenti assai simili a quelli causati dal tempo medesimo, ma che in un certo senso li sopravanzano. Come il tempo, lo spazio genera oblio; malo fa staccando l’individuo dalle sue relazioni e trasportandolo in una condizione libera e primigenia… addirittura, in men che non si dica, può tramutare un pedante e un borghesuccio in una sorta di vagabondo. Il tempo, si dice, è acqua del fiume Lete; ma anche l’aria di luoghi lontani è una posizione dello stesso tipo e, se pure agisce meno a fondo, lo fa in compenso più velocemente.

Qualcosa di simile capitò a Hans Castorp.

(Thomas Mann, La montagna magica, a cura e con introduzione di Luca Crescenzi e un saggio di Michael Neumann. Traduzione di Renata Colorni, Mondadori, I Meridiani, Milano 2011, pp. 5-6).

This entry was posted in Appunti, Traduzioni and tagged , , , , , . Bookmark the permalink.

2 Responses to Tre incipit: Der Zauberberg

Leave a Reply to Eures Cancel reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *