Gli apparve sull’Oceano: sul Don Chisciotte di Thomas Mann

Antonio Saura, Quixote

Massimo Raffaeli

“Selvaggio amico” aveva detto del mare trent’anni prima il suo Tonio Kröger, fissando dalle altane di Lubecca lo specchio increspato e domestico del Baltico. Lì Thomas Mann aveva osservato lo scatenarsi degli elementi, di contro all’opera dell’uomo che tentava di placarli. Il mare era infatti allegoria del dominio, per via di ascesi, che il giovane scrittore aveva colto nella lotta fra Kultur e Zivilization, fondativi dell’autocoscienza borghese. Un mare piatto e nebbioso, senza spessori allegorici, è invece quello che Mann affronta nel maggio del 1934, alla sua prima esperienza transatlantica, da Rotterdam a New York, in un viaggio premonitorio dell’esilio americano. Laureato dal Nobel, riconosciuto dai passeggeri, viaggia naturalmente in prima classe (aragoste a colazione, cinema, minigolf) circondato dai comfort della classe sociale di cui è allo stesso tempo il plenipotenziario e il demolitore. La traversata dura undici giorni, quanto basta per leggere i quattro tomi arancio del libro che si è portato apposta ed è alla base (stando a Hegel) dell’epopea borghese, il Chisciotte nella versione romantica di Tieck, la quale, dicono, commemori per stile e plasticità linguistica la bellezza dell’orginale. Involontario replicante di Hans Castorp a Davos, legge in coperta su una chaise longue ed è come se il libro che ha davanti si animasse fino a sostituire, nelle aperture e nelle convulsioni, l’allegoria di un mare lì peraltro invisibile, inerte, o appena basculante. Mann scrive appunti per qualcosa fra il diario di lettura e il giornale di bordo, che dopo qualche mese (in ottobre, di ritorno alla tana di Zurigo, dov’è scampato all’ascesa del Führer) prende forma di saggio dal titolo Una traversata con “Don Chisciotte” (ora, traduzione di Lavinia Mazzucchetti, in Nobiltà dello spirito e altri saggi, a cura di Andrea Landolfi, prefazione di Claudio Magris, Mondadori 1997): afferma di sentirne la fragilità, il tono svagato e parentetico, ma non dev’essere così se per scriverlo (lui, l’uomo della monotonia laboriosa, la macchina da tre pagine al giorno) ha deciso di interrompere la stesura di Giuseppe in Egitto, allo snodo essenziale della grande tetralogia, laddove la discesa agli inferi della decadenza si traveste da romanzo storico-pedagogico.

Fin dalle prime annotazioni, il suo Chisciotte è l’antipode di quello vulgato dal modernismo, cioè l’eroe della sfida al reale, l’uomo irriso che, urtando di continuo il mondo ed essendone lacerato, ne svela la totalità e inconsciamente la dimostra falsa. Il Chisciotte non ha dunque nulla a che vedere con l’utopia, semmai ha molto a che spartire con il mito. Per Mann, l’epica della battaglia coi mulini a vento, il contraltare di Pancho, l’idealizzazione di Dulcinea, sono materiali risaputi e perciò già scaduti; sono il frutto di una dissoluzione ironica della forma (distacco, freddezza critica) che sa certo osteggiare un mito (l’aristocrazia, la cavalleria) fino ad annientarlo, ma non è ancora capace di interrogarlo nel profondo, tanto meno di rinnovarlo. (Perché il mito per lui è la massima posta, il connubio ricostruito di sentimento e ragione, e, ancora, di Kultur e Zivilization. A nome di esso ha voluto immergersi nelle storie bibliche di Giacobbe e Giuseppe proprio mentre l’indigenza storica gli offre l’immondo Faraone che abbaia alla radio). Non per nulla comincia ad intendere il Chisciotte solo al secondo libro, quando il personaggio è già il mito di se stesso, quando Cervantes lo fa muovere e pazziare dando per certo che chi vi si imbatte lo conosca per averne lette o ascoltate le res gestae dal primo libro: “Non conosco nella letteratura universale altro eroe da romanzo che viva, per così dire, delle forma della propria fama, dell’essere stato cantato. […] Don Chisciotte e il suo scudiero in questa seconda parte escono dalla sfera di realtà cui appartenevano, cioè dal libro in cui vivevano e, lietamente salutati dai lettori della loro storia, incedono in carne e ossa come realtà potenziate”.

La duplicazione, o meglio la concessione di una seconda vita, testimonia il passaggio a una superiore serietà, a una follia che, emancipata dalla distruzione del comico, attinge l’altezza del tragico. Mann parla di perfetta umanizzazione, giocando diversi ossimori (sublime follia, grandiosa spontaneità), per addurre che d’ora in avanti Cervantes e l’hidalgo si situano alla medesima altezza spirituale. Osserva a un certo punto: “Tutto quello che Don Chisciotte dice è buono e ragionevole, ma tutto ciò che egli fa su tale base risulta invece assurdo, temerario e stolto; si ha quasi l’impressione che il poeta abbia voluto così rappresentare una fatale antinomia naturale di ogni vita moralmente superiore”. Mito diviene perciò sinonimo di interezza umana, è l’antica humanitas pervenuta ad autocoscienza; umorismo è invece il nome che guadagna l’ironia nel momento in cui supera i gesti della distanza e della negazione, per riaggregare le parti (che pure rimangono visibili) a un livello più alto. Chisciotte è un mito in quanto la sua ridicola follia entra presto in intersezione con la gravità del poeta Cervantes, e in questo assurge a mito di supremo umorismo.

È  facile immaginare Mann fissare l’acqua immobile dell’oceano mentre prendono corpo intorno a lui gli spettri di una mitologia irrazionale e crudamente parodistica, che brandisce la croce uncinata e leva inni al sangue e al suolo. È altrettanto facile intuire come nella presunta follia di Chisciotte legga il posticipo sulfureo della assennatezza del biblico Giuseppe e, soprattutto, come gli appaiano remote le sue antiche creature letterarie, figlie di un’arte grande e tuttavia scempia, di un’ironia giovanile che non sa mutarsi appunto in umorismo. Le chiama aquile ferite, che nel lessico della maturità equivale a definirle miti incompiuti della décadence, quali i rampolli Buddenbrook, Kröger, Aschenbach, e la coppia micidiale che abita La montagna incantata, dove spirito e civilizzazione confliggono spartendosi da un lato Settembrini, l’umanista filisteo e retore carducciano, e dall’altro Naphta, l’ebreo gesuita, profeta del rogo e del boia. Dunque il senso della passata incompiutezza piomba al presente in forma di nostalgia mitica.

Ma chiudendo il libro, quando oltre la nebbia si profilano le torri di Manhattan, Mann agisce il suo genio umoristico e realizza di colpo, quasi in emblema, la grandezza non commensurabile del Chisciotte nella facoltà di esprimere nell’uno il molteplice, senza più dover discriminare tra salute e follia: “Bisogna avere in sé il proprio tempo in tutta la sua complessità e contraddittorietà, giacché il molteplice, e non il semplice, prepara l’avvenire”. Nella riconciliazione di alto e basso, nell’eterna colluttazione di corpo e anima, infine riconosce tramite il Chisciotte il fiore dell’ebraismo e il portato della civiltà cristiana. È questo il solo mito che ritenga pienamente umano, il solo che immunizzi dalle nere mitologie del presente. Non è nemmeno un caso, allora, che l’ultima notte a bordo l’hidalgo lo visiti in sogno, affabile e austero, solo leggermente mutato nella fisionomia, comunque con un’aria di famiglia troppo pronunciata per potersene dimenticare: “Aveva baffi spessi e cespugliosi, la fronte alta e sfuggente e, sotto le sopracciglia altrettanto cespugliose, occhi grigi, quasi ciechi. Non si presentò come Cavaliere dei leoni, ma come Zarathustra”.

Massimo Raffaeli

Thomas Mann Una traversata con “Don Chisciotte”, trad. di Lavinia Mazzucchetti, in Nobiltà dello spirito e altri saggi, a cura di Andrea Landolfi, prefazione di Claudio Magris, Milano, Mondadori, 1997

da: Alias, 3/VIII/2002, ora in Bande à part, Roma, Gaffi, 2011

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