Giovanni Arrighi: La Germania imperiale

[Nel fondamentale studio di Giovanni Arrighi Il lungo XX secolo (Il Saggiatore 1996), che ricostruisce la storia del capitalismo dalle sue origini nell’Italia del XIV secolo al presente, la Germania occupa una posizione assolutamente marginale. Nella sua periodizzazione, basata sul succedersi di quattro ‘cicli sistemici di accumulazione’ del capitale (genovese nel XV-XVI secolo, olandese nel XVII-XVIII, britannico nel XIX e statunitense nel XX), essa compare soltanto verso la fine del periodo egemonizzato dalla Gran Bretagna, per svolgervi il ruolo storico di «contromovimento protezionista», in antitesi dialettica a quello britannico del libero scambio. Il giudizio sugli esiti di questa scelta è impietoso. Sono poche pagine (87 e 347-351), ma illuminanti per comprendere i fondamenti strutturali (globali) sui quali si sviluppa la cultura tedesca di fine Ottocento e inizio Novecento. In generale mi sembra che la periodizzazione di Arrighi sia di grande utilità nella prospettiva di una storia globale (e non più nazionale) delle letterature. Va da sé che il brano che segue non dà che una pallida idea del contenuto del volume e dei risultati del metodo di Arrighi. M.S.]

Giovanni Arrighi

Il Regno Unito esercitò le funzioni di governo mondiale fino alla fine del XIX secolo. Dal 1870 in avanti, tuttavia, esso cominciò a perdere il controllo dell’equilibrio di potere europeo, e di lì a poco anche dell’equilibrio di potere globale. In entrambi i casi, l’ascesa della Germania allo status di potenza mondiale costituì lo sviluppo decisivo (Kennedy 1993, pp. 209-13).

Al tempo stesso, la capacità del Regno Unito di occupare il centro dell’economia-mondo capitalistica veniva indebolita dall’emergere di una nuova economia nazionale dotata di ricchezza, di dimensioni e di risorse maggiori delle sue. Si trattava degli Stati Uniti, che si svilupparono in una sorta di «buco nero» dotato di potere di attrazione nei confronti del lavoro, del capitale e dell’imprenditorialità europei, e con cui il Regno Unito, per non parlare degli stati meno ricchi e meno potenti, aveva poche possibilità di competere. La sfida tedesca e quella statunitense al potere mondiale britannico si rafforzarono a vicenda, compromisero la capacità della Gran Bretagna di governare il sistema interstatale e portarono infine a una nuova lotta per la supremazia mondiale di una violenza e una ferocia senza precedenti. […]

L’epicentro del contromovimento protezionista si localizzò nella Germania imperiale, costituita di recente. Quando la caduta dei prezzi del 1873-79 vi fece sentire i suoi effetti, il cancelliere Bismarck credeva nei poteri autoregolatori dei meccanismi di mercato in modo altrettanto fermo di tutti i suoi contemporanei. Inizialmente egli trovò consolazione nella portata mondiale della depressione e aspettò pazientemente che la caduta dei prezzi raggiungesse il suo punto più basso. Quando tuttavia, nel 1876-77, ciò avvenne, egli si rese conto che il verdetto del mercato sull’autosufficienza dello stato e della società tedeschi era troppo severo per essere accettato e che, inoltre, la caduta dei prezzi aveva creato opportunità uniche per la prosecuzione con altri mezzi dei suoi sforzi diretti alla formazione dello stato.

La diffusione della disoccupazione, delle agitazioni operaie e delle rivolte socialiste, la persistenza della recessione industriale e di quella commerciale, il precipitare del valore della terra e, soprattutto, una crisi fiscale che paralizzò il Reich furono i fattori che indussero Bismarck a intervenire a protezione della società tedesca nel timore che i danni del mercato autoregolato distruggessero l’edificio imperiale che egli aveva appena costruito. Allo stesso tempo, la crescente convergenza degli interessi agrari e di quelli industriali nel sollecitare una protezione governativa dai concorrenti stranieri gli facilità la repentina conversione del libero scambio e dal laissez faire a un atteggiamento estremamente protezionista e interventista. Tale conversione non fu solo un cedimento alle pressioni sociali ed economiche, ma anche una scelta strategica per consolidare i poteri del Reich tedesco (Rosenberg, 1943, pp. 67-8).

A Bismarck non era mai piaciuto un sistema che ponesse l’autorità centrale alla mercé degli stati federali.

Nel 1872 affermò al Reichstag: «Un impero che dipenda dai contributi dei singoli stati è privo delle garanzie fornite da una solida e comune istituzione finanziaria». E nel 1879 dichiarò che era avvilente che l’autorità centrale dello fosse costretta a passare con il piatto delle offerte da uno stato federale all’altro per assicurarsi le entrate indispensabili alle sue esigenze (Henderson, 1975, pp. 218-9).

In armonia con questi sentimenti, l’intervento del governo a protezione della società tedesca non si arrese agli interessi particolaristici. Al contrario, fu uno strumento per rafforzare l’autorità governativa e la sovranità del Reich.

Il potere politico conferito al governo del Reich sarebbe stato usato per contribuire a superare la contrazione e la stagnazione economica di breve termine; ma in cambio dei suoi servigi lo stato avrebbe realizzato durature conquiste politiche. […] Grandi progetti si profilarono alla vista di Bismarck; la realizzazione […] dell’inattaccabile indipendenza finanziaria del Reich e della sua macchina militare, fuori dal controllo parlamentare, manipolando la richiesta da parte dei produttori di protezioni tariffarie e riformando la tassazione in modo da ridurre i costi generali. O lo sfruttamento politico di disadattamenti economici e fiscali così da assicurarsi un nuovo equilibrio di potere tra i Reich e gli stati […] e completare l’unificazione nazionale cementandola con indistruttibili legami economici (Rosenberg, 1943, p. 68).

Fu così istituito un organico rapporto di «scambio politico» tra il governo tedesco e un gruppo di imprese scelte. Mentre il governo fece tutto quello che era in suo potere per agevolare l’espansione di queste imprese, esse fecero tutto ciò che poterono per assistere il governo nel cementare l’unità dell’economia interna e nel dotare lo stato di un potente apparato militare-industriale. I partner principali del governo tedesco furono quelle imprese industriali particolarmente coinvolte nella «industrializzazione della guerra» in corso e, soprattutto, sei grandi banche.

Queste Grossbanken erano emerse dalla struttura personale e interfamiliare delle attività bancarie tedesche, ancora prevalente negli anni cinquanta del XIX secolo, soprattutto grazie alla promozione e al finanziamento delle compagnie ferroviarie e delle imprese dell’industria pesante coinvolte nella costruzione delle ferrovie (Tilly, 1967, pp. 174-5 e 179-80). Il loro dominio sulla finanza tedesca aumentò ulteriormente durante la depressione degli anni settanta. E quando, negli anni ottanta, una larga parte delle loro risorse imprenditoriali e monetarie furono rese disponibili dalla nazionalizzazione delle ferrovie, esse si mossero velocemente per controllare, integrare e riorganizzare l’industria tedesca in collusione con un ristretto numero di potentati aziendali. «Grandi imprese e cartelli operanti in stretta associazione con le grandi banche – erano, questi, i due pilastri dell’economia tedesca nell’ultimo quarto del XIX secolo» (Henderson, 1975, p. 178).

Mentre alla vigilia della grande depressione, in Germania come in Gran Bretagna, il capitalismo familiare era ancora la norma, prima della fine del secolo il suo posto era stato preso da una struttura manageriale estremamente centralizzata. Nel corso dei due decenni successivi la centralizzazione operò ulteriormente, soprattutto mediante l’integrazione orizzontale. Le piccole e medie imprese che sopravvissero – e furono molte – dovettero adattarsi al rango di membri subordinati di una economia dirigistica privata, controllata da un gruppo ben saldo di finanzieri e di industriali che operava per mezzo di burocrazie manageriali sempre più ampie e complesse. L’economia interna tedesca, per parafrasare Engels (1976), cominciava in effetti a somigliare a «un’unica enorme fabbrica».

Hilferding (1961), e dopo di lui generazioni di pensatori marxisti fino agli attuali teorici del capitalismo «organizzato», hanno interpretato questo sviluppo come l’indizio più chiaro che la previsione di Marx di una sempre maggiore centralizzazione del capitale stesse per realizzarsi, e come il segnale dell’inizio di un nuovo capitalismo caratterizzato dalla progressiva sostituzione dell’«anarchia» nella regolazione del mercato a opera di una pianificazione capitalista centralizzata (Auerbach, Desai e Shamsavari, 1988). Favorendo la formazione di cartelli comprendenti interi settori dell’industria, le grandi banche facilitarono l’armonioso ed efficiente funzionamento delle imprese che erano giunte a controllare. Quando la redditività di queste imprese rispetto a quelle ancora soggette ai capricci del mercato aumentò, le banche acquisirono nuovi mezzi con in quali estendere ulteriormente il loro controllo sul sistema industriale, e così via, fino a che un cartello generale controllò l’intera economia nazionale.

Tutta la produzione capitalistica viene consapevolmente regolata da un organismo, che decide del volume complessivo della produzione in tutti i settori. A questo punto la determinazione dei prezzi diviene puramente nominale, e implica ormai soltanto la distribuzione del prodotto totale tra i magnati del cartello, da una parte, e la massa di tutti gli altri membri della società, dall’altra. Il prezzo non è quindi più la risultante di un rapporto tra cose subito dagli uomini, ma un puro e semplice metodo di calcolo per l’attribuzione di cose da persona a persona. […] Il capitale finanziario, a sviluppo ultimato, si sradica dal terreno che lo ha nutrito. […] [L]’incessante rotazione [del denaro] ha raggiunto il suo scopo: la società regolata (Hilferding, 1961, pp. 308-9).

All’inizio del XX secolo questo processo si era spinto abbastanza in là da consentire alle imprese tedesche di perseguire l’efficienza tecnica con una determinazione senza precedenti e, per molti aspetti, senza confronti. Risiede qui la radice principale della «razionalità tecnologica» delle imprese tedesche che, seguendo Davida Landes, abbiamo contrapposto alla «razionalità pecuniaria» delle imprese britanniche. Poiché questa razionalità tecnologica delle imprese tedesche era associata a indici di crescita industriale assai più alti e a un’applicazione sistematica della scienza all’industria che nel caso della razionalità pecuniaria delle imprese britanniche – due caratteristiche che fecero dell’industria tedesca «la meraviglia del mondo» – non ci volle molto perché i marxisti pensassero che il sistema di impresa tedesco, più consapevolmente e centralmente pianificato, avesse preso il posto di quello britannico come modello del capitalismo avanzato.

In verità, il sistema tedesco stava prendendo il posto di quello britannico solo per quanto riguarda le prestazioni industriali. Relativamente alla produzione e all’appropriazione di valore aggiunto, invece, esso stava riducendo a stento il grande divario che separava Germania e Gran Bretagna all’inizio della grande depressione. Landes (1993, p. 430) osserva che

la differenza degli indici generali di sviluppo fra [Germania e Gran Bretagna] era notevolmente minore di quanto avrebbe fatto supporre il divario degli indici di sviluppo industriale. Mentre la produzione di manufatti […] aumentava di poco più del doppio fra il 1870 e il 1913, di fronte a un aumento tedesco di quasi sei volte, i redditi dei due paesi, calcolati in aggregato o pro capite, aumentarono con un rapporto fra loro dell’ordine di 0,7-0,8 a 1.

In altri termini, la comunità d’affari tedesca fu costretta a espandere la propria produzione industriale almeno tre volte più velocemente di quella britannica per conseguire un miglioramento relativamente piccolo in termini di valore aggiunto. Dal punto di vista economico, questo risultato appare un sostanziale insuccesso, e non il grande successo che ancora molti ritengono sia stato.

È possibile obiettare che il valore aggiunto non è un criterio adeguato per valutare i risultati del sistema di impresa tedesco, poiché il principale obiettivo di quel sistema era sociale e politico. Come abbiamo visto, questo è senza dubbio vero. Ma è proprio sul terreno politico e su quello sociale che la prestazione tedesca rispetto a quella britannica fu particolarmente disastrosa. Quanto più il Reich tedesco divenne potente, tanto più esso entrò in rotta di collisione con il potere e gli interessi della Gran Bretagna imperiale (vedi il cap. 1). Quando le due grandi potenze si scontrarono realmente nella prima guerra mondiale, tutti i vantaggi incrementali in termini di potere mondiale conseguiti dalla Germania imperiale nel corso di mezzo secolo si trasformarono improvvisamente in un’immensa perdita. La Germania imperiale non sopravvisse alla disfatta nella guerra, e l’imposizione del disarmo e di ingenti risarcimenti di guerra ridusse la repubblica che ne prese il posto allo status di un «quasi-stato» tributario, nei confronti non solo della Gran Bretagna ma anche della Francia. Inoltre, le agitazioni sociali senza precedenti che seguirono al collasso politico ed economico dello sforzo di industrializzazione gettarono le classi dominanti e la comunità d’affari tedesche nel più totale scompiglio, spingendole verso iniziative imprenditoriale ancor più disastrose nei due decenni successivi.

Lungi dal prendere il posto del capitalismo di mercato britannico, il capitalismo manageriale tedesco fu, dal punto di vista economico, un discreto fallimento, e, da quello politico e sociale, un colossale fallimento. Nondimeno, il suo sviluppo ebbe l’effetto di affrettare la crisi terminale del sistema di accumulazione britannico, avviando in questo modo la transizione al regime statunitense. Il capitalismo manageriale tedesco fu solo l’antitesi dell’imperialismo di libero scambio britannico. La sintesi che infine trascese entrambi fu un genere di capitalismo manageriale tanto diverso dal sistema di accumulazione tedesco quanto da quello inglese.

Giovanni Arrighi

Da: Giovanni Arrighi, Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, trad. di Mauro Di Meglio, Milano, Il Saggiatore, 1996, pp. 87 e 347-351

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