Giorgio Agamben, Quel che resta di Auschwitz

Isabella Adinolfi

Il libro di Giorgio Agamben è una stimolante riflessione sulla Shoah, su ciò che essa ha significato per l’etica e, più in generale, per la comprensione dell’uomo, un libro che mette in moto i pensieri, con cui si può essere d’accordo oppure no, ma che, comunque, non si può non considerare una riflessione originale e intelligente su questo tragico fatto storico e sulle sue implicazioni politiche, giuridiche e soprattutto morali. Rispetto all’etica Auschwitz ha rappresentato infatti la più radicale messa in discussione dei suoi valori fondamentali, delle sue regole, d’oro e d’argento che siano. Con un’immagine suggestiva, nell’Avvertenza che apre il suo studio, Agamben si augura che alcuni problemi sollevati dall’analisi del fenomeno Auchwitz, possano aiutare ad orientare futuri “cartografi” di una “nuova terra etica” (pp. 9-10). E qualche riga sopra la crisi dell’etica tradizionale viene annunciata con queste parole: “Come si vedrà, quasi nessuno dei princìpi etici che il nostro tempo ha creduto di poter riconoscere come validi ha retto alla prova decisiva, quella di una Ethica more Auschwitz demonstrata” (p. 9). Auschwitz – osserva ancora lo studioso – rappresenta il luogo di un esperimento ancora impensato: tutti i metalli dell’etica tradizionale raggiungono il loro punto di fusione in quella che Levi ha designato come “zona grigia”, un’incessante alchimia dove l’oppresso diventa l’oppressore e il carnefice appare a sua volta come vittima (p. 19).
“Al di qua del bene e del male” si svolge la vita del campo e non soltanto quella degli aguzzini e oppressori, nonostante la loro pretesa di porsi “al di là del bene e del male”, ma anche degli oppressi, delle vittime, di cui Primo, Levi nei due  libri che raccontano la sua prigionia ad Auschwitz-Monowitz, non esita a registrare la completa perdita di quella dimensione umana e spirituale, su cui le categorie etiche propriamente poggiano e si fondano. La dimensione dell’uomo che sta alla base dell’etica, che ne è, per così dire, la condizione e la rende possibile, è infatti quella di un essere  capace di trascendere la pura naturalità, la pura immediatezza. E’ quella di un soggetto libero. Solo in quanto eccede la dimensione propriamente naturale, fisiologica, l’uomo è soggetto morale. La legge morale è infatti in contrasto con la legge che regna sovrana in natura, con l’elementare legge del più forte. Ma è la legge naturale del dominio, della sopraffazione da una parte e dall’altra della conservazione di sé, la legge della sopravvivenza ad ogni costo, quella che regna nel campo. In quella gigantesca “esperienza biologica e sociale” che il Lager rappresenta – scrive Levi – “esistono fra gli uomini  due categorie ben distinte: i salvati e i sommersi. Altre coppie di contrari (i buoni e i cattivi, i savi e gli stolti, i vili e i coraggiosi, i disgraziati e i fortunati) sono assai meno nette, sembrano meno congenite, e soprattutto ammettono gradazioni intermedie più numerose e complesse” (Se questo è un uomo, La Biblioteca di Repubblica, Torino 1958-2002, p. 94). Così muore lo spirito e, con esso l’etica, ad Auschwitz. Scrive Agamben “Chi è passato nel campo, tanto se è stato sommerso quanto se è sopravvissuto, ha sopportato tutto ciò che poteva sopportare – anche ciò che non avrebbe voluto o dovuto sopportare” (p. 71). Continua a leggere su orthotes.com

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