Brecht, sfregi in taverna

[Nel volume Bande à part, uscito lo scorso anno per Gaffi, Massimo Raffaeli ha raccolto una scelta delle sue recensioni apparse su Alias, il supplemento settimanale de ‘il manifesto’. Sono felice di riproporre su germanistica.net quelle relative ad autori tedeschi, da Brecht a Thomas Mann, da Uwe Johnson a Durs Grünbein. Ne ringrazio l’autore e l’editore. Poiché ‘il manifesto’ si trova in gravi difficoltà finanziarie, invito inoltre i lettori a a sostenere il giornale, nelle forme suggerite sul sito. M.S.]

Massimo Raffaeli

Nella primavera del 1916, al Ginnasio Reale di Augusta, chiamato a commentare in un tema il verso di Orazio Dulce et decorum pro patria mori, così si esprime un ragazzino miope e sdutto, famoso tra i compagni per essere terribilmente sboccato e per mangiare di gusto salsicce bavaresi arrostite: “Il detto che è dolce e onorevole morire per la patria può essere considerato solo come propaganda per certi scopi. Il congedo dalla vita riesce sempre difficile, a letto come sul campo di battaglia, ma certo più che a tutti ai giovani nel fiore degli anni. Solo teste vuote possono spingere la loro vanità al punto di parlare di un facile salto per l’atra porta, e anche questo lo dicono solo finché si sentono lontani dall’ultima ora. Ma quando la morte in persona si fa loro appresso, si mettono lo scudo sulla terga e se la squagliano, come fece a Filippi il grasso buffone dell’Imperatore che ponzò questa massima”. La Germania è in guerra contro le potenze dell’Intesa e il ragazzino disfattista, Bertolt Brecht, rischia l’espulsione dal Ginnasio; se la cava utilizzando proprio le virtù del poeta che finge di odiare, Orazio, e a cui invece guarderà tutta la vita come a un modello di saggezza e di onesta dissimulazione: trent’anni dopo, esule in America, deponendo davanti alla “Commissione per le attività antiamericane”, lascerà infatti ai tirapiedi di Truman appena lo sbuffo del suo sigaro e il ghigno sovrano dell’antico poeta, il cui nome tornerà in alcuni versi del ’53 (Leggendo Orazio), alla maniera di un testamento:

Anche il diluvio
non durò eterno.
Un giorno scorsero
via le acque nere.
Ma quanto pochi
oltre durarono.

Ma la classicità di Brecht, l’esattezza incisa su lapide, lo stile da breviario di massime cinesi, sono il risultato di una lenta metabolizzazione, non certo un dato di partenza. Le poesie giovanili (e in parallelo le partiture teatrali precedenti l’esilio da Hitler e culminanti nell’Opera da tre soldi, del ’28) escono nel turbine della pubblicistica di Weimar, chiazzate di sfregi espressionisti e popolareggianti, dure e impure, in tutto degne di quel ginnasiale arrabbiato se il loro titolo maggiore suona in un blasfemo Libro di devozioni domestiche (’27). Il giovane Brecht ama recitarle davanti al pubblico delle taverne accompagnandosi alla chitarra nello scatenamento ritmico del jazz e a tratti nel furore di un incontro di boxe: uno dei suoi primi critici parla di sfrontatezza e cameratismo, di natura elementare che incontra la metropoli, di un pugile che allunga il pugno per fare una carezza.

Questa immagine di poeta esplosivo e non riconciliato, che però nasconde l’equilibrio del futuro classico, abita Poesie (1913-1933), a cura di Luigi Forte (Einaudi-Gallimard), primo volume di un’edizione davvero superba per il rigore del ritratto introduttivo e per la qualità delle note in apparato. Condotto sui monumentali Werke della Suhrkamp di Francoforte, il testo propone un cospicuo numero di inediti e assembla i doppiatori italiani di Brecht (da Emilio Castellani a Giorgio Cusatelli, da Roberto Fertonani a Ruth Leiser e Franco Fortini) con un’acustica d’insieme che se tradisce ovvi dislivelli ne rispetta, per felice paradosso, la polifonia linguistica originale, gli stridori e i bruschi passaggi di tono. Perché, va ricordato, l’Orazio del comunismo viene fuori da un Villon anarchico e debosciato, col gusto del disfacimento satanico e della bestemmia antiborghese; anche se è un Villon ovviamente trapassato nella Bibbia di Lutero e negli alambicchi del barocco tedesco. Ecco un gesto di omaggio al maestro (Su Francois Villon), nella bella versione di Fertonani:

Alla mensa di dio non poteva fare un banchetto
e dal cielo su di lui la grazia non fluiva mai.
Doveva infilzare uomini con il coltello
e mettere il suo collo nei loro lacci.
Leccatemi il culo, era l’invito che faceva
quando stava mangiando e questo gli piaceva.

La prima zona del poeta di Augusta, compresa quella teatrale, è dunque sotto il segno di Baal, signore degli inferi sociali, di Lucifero e di Spartaco, eroi negletti; la loro voce, deformata da smorfie ciniche, da uno sprofondamento persino goloso nella malvagità, è la voce medesima di chi sta al margine, solo e inascoltato. Oltre che nelle Devozioni domestiche, ciò risulta nei Sonetti, virati nei colori turgidi della fornicazione e della pornografia ma infine liberati (ed è forse la scoperta più sorprendente di questa edizione) in grida di felicità ed estasi corporea. Come se all’individuo, nell’epoca in cui capitalismo e natura tendono a identificarsi, non rimanesse altro che il bene del corpo, un patrimonio di pulsioni non ancora domate: un valore d’uso non ancora tradotto e liquidato nel valore di scambio. Scrive al riguardo Luigi Forte: “La salvaguardia dell’individualità nella follia collettiva resta viva e operante non solo tra i suoi versi. Essa si concilia con la consapevolezza che il mondo dev’essere trasformato: incalzandolo senza sosta, radicalizzandone le contraddizioni”. Ma qui si parla già di un Brecht transfuga dalla Germania e dalla giovinezza, educato ai seminari di Karl Korsch e sobillato dagli estri bolscevichi di Hans Eisler, il grande musicista che collabora con lui alla stesura di un libro decisivo, Canzoni, poesie, cori (’34) che, congedandosi dai miti dell’anarchia e della decadenza, ne inaugura la maturità di poeta e di pensatore dialettico. In altri termini, di autore classico e di militante comunista.

Libero dalle posture giovanili, ha ormai trentacinque anni lo scrittore che detta in piane parole di mestiere, secche e perentorie l’Elogio del comunismo:

È ragionevole: ognuno lo intende. È facile.
Tu che non sfrutti gli uomini, lo capirai subito.
[…]
Non è l’enigma
ma la soluzione.
È la cosa semplice
che è difficile fare.

La nota precisa che questa canzone viene eseguita per la prima volta nel dicembre del 1933, a Praga, nella cucina del maestro esule e alla presenza di alcuni operai. Noi ce lo immaginiamo lì, con la giacca grigia e stazzonata da cinese (da uomo di piccolo cabotaggio, avrebbe aggiunto il suo Mao); con gli occhiali di celluloide nera e il sorriso un poco strafottente di gran signore del linguaggio e del pensiero. Ormai somiglia al nemico di lui ginnasiale: il sempiterno Orazio, “acuto e amaro” nella definizione di Fortini, cioè la voce più fraterna di Bertolt Brecht.

Massimo Raffaeli

Bertolt Brecht, Poesie (1913-1933), a cura di L. Forte, Einaudi-Gallimard, 1999

da: Alias, 12/VI/1999, ora in Bande à part, Roma, Gaffi, 2011

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