Giornata mondiale della poesia

[In occasione della Giornata mondiale della poesia (la si celebra, tra l’altro, su Radio 3), ho pensato di rileggere uno dei testi più celebri di Brecht, che ogni volta mi colpisce per la sua sbalorditiva attualità. Qui nella versione di Franco Fortini (della quale Roberto Fertonani parla sul sito dell’Ospite ingrato). L’immagine, Two Aeromarine over lower Manhattan, New York City, in the summer of 1922, è tratta da timetableimages. M.S.]

Bertolt Brecht

Del povero B. B.

Io, Bertolt Brecht, vengo dai boschi neri.
Mia madre dentro la città mi portò
quand’ero ancora nel suo ventre. E il freddo dei boschi
fino a che morirò, sarà dentro di me.

Nelle città d’asfalto sono di casa. Da sempre
preparato con tutti i sacramenti.
Di giornali. E di tabacco. E di cognac.
Diffidente e pigro e contento alla fine.

Sono cortese con la gente. Mi metto
in testa un cappello duro, come usano.
Dico: sono animali che hanno un odore speciale.
E dico: non fa nulla, son come loro anch’io.

La mattina, alle volte, nelle mie sedie a dondolo vuote
qualche donna ci faccio accomodare.
E senza affanno le contemplo e dico:
in me qui avete uno, che non ci potete contare.

Quando fa buio raduno uomini attorno a me
Gli uni con gli altri ci si chiama «gentleman»
Mettono i piedi, quelli, sui miei tavoli.
E dicono: «andrà meglio». E io non chiedo «quando?»

Quando fa giorno, nel grigio pisciano gli abeti
e i parassiti loro, gli uccelli, cominciano a gridare.
Nella città, a quell’ora, vuoto il bicchiere, butto
la cicca del mio sigaro e dormo in inquietudine.

A noi stirpe svagata, furono sede
case immaginate indistruttibili
(così costruimmo i lunghi edifici dell’isola di Manhattan
e le antenne sottili che abitano l’Atlantico).

Di queste città resterà solo chi le traversa ora: il vento!
La casa colui che banchetta fa beato: ché egli la vuota.
Noi lo sappiamo, siamo di passaggio.
Dopo di noi: nulla di notevole.

In mezzo ai terremoti che dovranno venire, speriamo
di non lasciare che il «Virginia» mi si spenga per troppa amarezza,
io, Bertolt Brecht, sbattuto nelle città d’asfalto
dai boschi neri, dentro mia madre, una volta.

 

Vom armen B. B.

Ich, Bertolt Brecht, bin aus den schwarzen Wäldern.
Meine Mutter trug mich in die Städte hinein
Als ich in ihrem Leib lag. Und die Kälte der Wälder
Wird in mir bis zu meinem Absterben sein.

In der Asphaltstadt bin ich daheim. Von allem Anfang
Versehen mit jedem Sterbsakrament:
Mit Zeitungen. Und Tabak. Und Branntwein.
Mißtrauisch und faul und zufrieden am End.

Ich bin zu den Leuten freundlich. Ich setze
Einen steifen Hut auf nach ihrem Brauch.
Ich sage: es sind ganz besonders riechende Tiere
Und ich sage: Es macht nichts, ich bin es auch.

In meine leeren Schaukelstühle vormittags
setze ich mir mitunter ein paar Frauen
Und ich betrachte sie sorglos und sage ihnen:
In mir habt ihr einen, auf den könnt ihr nicht bauen.

Gegen Abend versammle ich um mich Männer
Wir reden uns da mit “Gentlemen” an.
Sie haben ihre Füße auf meinen Tischen
Und sagen: Es wird besser mit uns. Und ich frage nicht: Wann?

Gegen Morgen in der grauen Frühe pissen die Tannen
Und ihr Ungeziefer, die Vögel fängt an zu schrein.
Um die Stunde trink ich mein Glas in der Stadt aus und schmeiße
Den Tabakstummel weg und schlafe beunruhigt ein.

Wir sind gesessen, ein leichtes Geschlechte
In Häusern, die für unzerstörbare galten
(So haben wir gebaut die langen Gehäuse des Eilands Manhattan
Und die dünnen Antennen, die das atlantische Meer unterhalten).

Von diesen Städten wird bleiben: der durch sie Hindurchging, der Wind!
Fröhlich machet das Haus den Esser: Er leert es.
Wir wissen, daß wir Vorläufige sind
Und nach uns wird kommen: nichts Nennenswertes.

Bei den Erdbeben, die kommen werden, werde ich hoffentlich
Meine Virginia nicht ausgehen lassen durch Bitterkeit
Ich, Bertolt Brecht, in die Asphaltstädte verschlagen
Aus den schwarzen Wäldern in meiner Mutter in früher Zeit.

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