Usare la lingua è molto più delicato di quanto si creda. Intervista a Terézia Mora

[Questa intervista a Terézia Mora è uscita sul n. 2 della rivista Comunicare Letteratura (2009) alle pp. 241-254. Claudia Tatasciore ha pubblicato Con la lingua, contro la lingua. Sulla scrittura di Terézia Mora (Roma, Aracne 2009). Le immagini sono tratte da foreigner.de. M.S.]

Claudia Tatasciore

Nata nel 1971 a Sopron, in Ungheria, da una famiglia appartenente alla minoranza linguistica tedesca, Terézia Mora ha trascorso i suoi primi diciotto anni in un villaggio ungherese al confine con l’Austria, Petőháza, a ridosso della cortina di ferro. Dopo il primo anno di università a Budapest, si è trasferita nel 1990 a Berlino dove ha completato gli studi universitari (letteratura ungherese e Theaterwissenschaft) e si è specializzata come sceneggiatrice. Per breve tempo ha lavorato come sceneggiatrice – Die Wege des Wassers in Erzincan  (1998), Am Ende der Stadt (1999), Das Alibi (2000) – e dal 1998 si dedica all’attività di scrittrice in prosa e di traduttrice dall’ungherese. La sua prima raccolta di racconti Seltsame Materie, pubblicata nel 1999, è stata insignita del Premio Chamisso nel 2000. Al suo interno, il racconto Der Fall Ophelia aveva già vinto nello stesso 1999 il Premio Bachmann. Per questi racconti, ambientati in un villaggio al confine tra Austria e Ungheria, l’attenzione del pubblico si è concentrata innanzitutto sulla componente autobiografica, sebbene non si tratti esplicitamente di autobiografie: l’elemento ungherese vi confluisce infatti solo come “eredità”[1] di un mondo terribile e spietato, violento e gretto, in cui accanto al confine concreto vi è quello mentale di una realtà arcaica e di provincia. Da essa i giovani protagonisti, come altri abitanti del villaggio, tentano di liberarsi se non attraverso la fuga concreta, attraverso vie di fuga alternative: la scuola di recitazione o la danza, l’acqua, la follia o il suicidio, l’alcol, oppure – la lingua. Il confronto con questa eredità – messo in relazione con comportamenti universalmente validi attraverso la reticenza di ogni esplicita collocazione nello spazio e nel tempo – avviene anche attraverso il confronto con l’eredità linguistica, la lingua ungherese che traspare da quella tedesca senza esservi concretamente presente[2]. Il tema della fuga nella lingua e attraverso la lingua si fa più esplicito nel primo romanzo dell’autrice, Alle Tage, pubblicato nel 2004 e accolto con immediato entusiasmo dalla critica. Esso abbandona apparentemente ogni territorialità: l’autrice porta il suo protagonista Abel Nema dalla città di S., costruita all’incrocio di tre confini, su di un terreno una volta paludoso, e poi dilaniata dalla guerra, alla metropoli B., nella quale egli fallirà (o meglio rinuncerà) a ogni tentativo di integrazione, optando per una disorientata e disorientate aterritorialità. Questa si rivela attraverso la componente linguistica: Abel è un perfetto Zehnsprachenmann, che ha appreso le sue dieci lingue assolutamente senza accento, ma che non riuscirà mai a liberarsi del suo “odore” di estraneità: «etwas Endloses, wofür sie gar keine Worte mehr hat, stieg aus ihm hoch, als trüge er ihn in den Taschen: den Geruch der Fremde. Sie roch Fremdheit an ihm»[3]. Sulla quarta di copertina dell’ultimo romanzo, appena pubblicato, Der einzige Mann auf dem Kontinent, si legge: «Das Leben eines Mannes im globalisierten Nirgendswo». La domanda circa l’appartenenza territoriale sembra essere sempre presente nei testi di Mora, e nei romanzi si esplicita in una lingua esuberante, intreccio di voci narranti e punti di vista narrativi differenti. Nell’ultimo romanzo la lingua inglese si insinua quasi inosservata in quella tedesca, direttamente o attraverso numerosi anglicismi che diventano come una cartina al tornasole del mondo odierno, del ‘nessun luogo’ globalizzato.

Questa linea di interpretazione dei testi di Terézia Mora ha guidato l’intervista che verrà proposta qui di seguito, e si focalizza sull’elemento lingua inteso contemporaneamente come Sprache e Zunge, contemporaneamente come forma di scrittura e contenuto tematico. Nel racconto inedito, pubblicato sia in originale che in traduzione italiana[G1] , è esemplificata la risposta allegorica all’interrogazione sul linguaggio. In questo caso la violenza sulla lingua (Zunge) è allegoria di una violenza che caratterizza la realtà così come si presenta agli occhi di Mora, violenza che non risparmia la lingua intesa come capacità espressiva (Sprache). Il fallimento dell’espressione linguistica, sintomo di una difficoltà esistenziale di orientamento e costruzione dell’identità nel mondo circostante, trova a sua volta la propria sintomatologia fisica negli ostacoli concreti e sensoriali che si pongono al parlante. In questo senso l’intervista, disturbata dal rumore di un martello pneumatico – la metropoli in perenne evoluzione, labirinto e giungla – che entrava dalla finestra dello studio di Terézia Mora, è stata emblematicamente ‘moriana’: anche nella città di B. descritta in Alle Tage i rumori ostacolano il pensiero, «so laut, dass einem die Gedanken aus dem Kopf und die Dinge aus den Fingern fallen»[4]. La violenza acustica porta in primo piano i confini della dicotomia individuo/esterno, perché attraverso il timpano strapazzato le tendenze di dissolvimento dell’individuo trovano un accesso immediato al soggetto[5].

L’essere scrittrice bilingue in lingua tedesca, il privilegio della conoscenza della lingua ungherese da integrare nel processo creativo in lingua tedesca, anche grazie agli insegnamenti acquisiti per mezzo della sua attività di traduttrice: sono questi i dati della biografia linguistica di Terézia Mora che hanno motivato il mio primo interesse per lei. Il tentativo di entrare nella concezione olistica di due lingue che svolgono un sostegno reciproco nel momento creativo apre interessanti prospettive di analisi letteraria attraverso gli strumenti dell’analisi linguistica. La mia intervista è partita da questo tentativo.

Intervista a Terézia Mora

L’ungherese differisce dal tedesco per la sua struttura e diverso è anche il sistema dei tempi verbali: per esempio, la possibilità di utilizzare il presente grammaticale per eventi passati è molto più comune nella sintassi ungherese che in quella tedesca. Nei Suoi testi la narrazione si avvale molto di tale sovrapposizione di presente e passato. Come ha sfruttato questa o altre differenze tra le due lingue nel processo di scrittura?

Per quanto riguarda il tempo, come traduttrice devo fare attenzione a rispettare i tempi verbali corretti nel tedesco, ma come scrittrice non sono tenuta a farlo e questo mi piace, perché mi permette di attenermi al metodo seguente: quando voglio far emergere alcune frasi rispetto alla narrazione, in quanto frasi emblematiche o universali, allora spesso le pongo al presente, in modo che risaltino dal passato narrativo. È chiaro che non sono in grado di valutare se anche conoscendo unicamente il tedesco non si potrebbe arrivare alla stessa idea. Di certo si potrebbe, ma non posso giudicare il problema dall’interno perché non mi trovo in questa situazione. Volendo, io posso imputarlo all’ungherese: l’autore ungherese cambia il tempo verbale quando vuole mettere in rilievo qualcosa; così faccio anch’io e credo sia una sorta di automatismo che si imprime in chi è cresciuto con un’altra lingua.

Vuole dire che questo accade dunque anche a livello inconscio?

Devo confessare che ormai per me non si tratta più di un processo inconscio. In Seltsame Materie ho cercato, per quanto mi fosse possibile, di raccontare tutto al presente, innanzitutto perché i ricordi sono pur sempre presenti; in secondo luogo per mettere i piani temporali in disordine – ovvero, tutto ciò che succede al presente, quando succede in realtà? E infine anche per evitare il problema di saltare qua e là tra passato narrativo, passato non narrativo e presente. Non volevo che questo mi fosse di ostacolo nella scrittura, in particolare perché il passato narrativo è stato un aspetto della lingua tedesca che per molto tempo non ho capito, intendo in senso emotivo: perché creare una distanza tra ciò che si vuole raccontare e se stessi? Nel frattempo sono arrivata ad intendermene un po’ di più e ad utilizzare anche il passato narrativo, ma quando si comincia a scrivere molti dettagli dall’io e all’io sono un po’ più vicini il presente e il discorso diretto.

Del resto gli io-narranti in Seltsame Materie hanno dei ricordi frantumati, loro stessi non riescono talvolta a ricostruire la verità, mi sembra che il metodo da Lei scelto nell’uso del tempo abbia contribuito a raggiungere tale effetto. In Alle Tage il rapporto con l’ungherese è diverso. Non vi è più soltanto bilinguismo, ma una vera e propria polifonia. Cosa rimane allora della lingua ungherese?

Non rimane più molto. Infatti, non so se a torto o a ragione, in Seltsame Materie ero convinta che una tema importante, anche per me stessa, fosse come superare l’influenza ungherese passando al tedesco. Il che vuol dire che la lingua ungherese poteva rimanere presente nel testo. In Alle Tage, invece, non era questo il tema e l’ungherese vi compare come una delle tante voci della polifonia. Lì in ogni caso ero un po’ più sciolta: ho usato elementi provenienti dalla componente ungherese quando mi sono venuti in mente, altrimenti non li ho cercati. Una cosa che faccio volentieri, e che faccio anche ora nel testo a cui sto lavorando[6], è di inserire sempre un personaggio ungherese nei testi, ma solo come figura secondaria, perché lo trovo divertente. Oppure uso citazioni che solo un lettore ungherese riconoscerebbe. Per esempio in Alle Tage si dice «potrei lamentarmi tanto e imprecare ancora di più»[7] e questa è una citazione da Kassák. Ma nessuno lo sa, a dire il vero forse nemmeno molti ungheresi. Se si trattasse di Attila József, lo riconoscerebbero più persone, ma questi sono essenzialmente giochi da insider, perché rinunciarvi?

La presenza continua dell’Ungheria nei Suoi testi ha portato la critica a caratterizzarli come letteratura interculturale, una definizione che Lei ha giudicato spesso troppo sbrigativa, ma che viene incoraggiata da simili procedimenti. Gioca con queste categorizzazioni? Che rapporto ha con esse?

È un rapporto molto ambivalente. Da un lato mi dico che non ho motivo di rinnegare chi o cosa sono, ciò che ho portato con me, ciò con cui lavoro; dall’altro lato trovo che questo restar fissi su un tema sia molto limitante e anche stupido. D’altronde si ha l’impressione di non riuscire a lavorare altrimenti, e io non posso nemmeno pretendere che ci si comporti in modo più complesso, perché questo sarebbe piuttosto patetico. Un artista non può farlo, può soltanto sperare di riuscire almeno ad offrire o infilare di nascosto anche altri contenuti. Le recensioni di Alle Tage sono state tuttavia una piacevole sorpresa, perché qualcuno ha approfondito anche altri aspetti. Per esempio, Tilman Spreckelsen della «Frankfurter Allgemeine Zeitung» si è concentrato sul tema del panico[8], e Verena Auffermann sulla religione e sui motivi religiosi[9]. Mi ricordo proprio bene di loro perché hanno dimostrato di avere anche un altro interesse. Con il feuilleton invece ho grossi problemi: se fossi uno di quegli autori che vivono dell’«essere stranieri» sarebbe meglio. Solo che questo non è proprio il mio stile, o non quanto mi sono prefissata con la mia vita e la scrittura, e per tale motivo mi scontro spesso con questo tipo di cose e ciò mi irrita a volte più, a volte meno.

Proprio questo «essere stranieri» può essere osservato dal punto di vista del bilinguismo: è significativo infatti, per comprendere il rapporto con e tra le due lingue, tenere presente anche l’ordine in cui sono state apprese. Lei ha imparato la lingua tedesca solo in un secondo momento?

No, ma le mie informazioni a riguardo sono state aggiornate solo di recente. Infatti ora ho una figlia con cui parlo ungherese e sua nonna, cioè mia madre, mi ha confidato che fino ai due anni con me avevano parlato solo in tedesco. Risultato: il tedesco è la mia lingua materna. Inoltre una mia conoscente, che si trova in una situazione molto simile alla mia e che si è informata sull’argomento, mi ha detto che per i plurilingue non si parla più di lingua materna e lingua acquisita, ma di prima e seconda lingua, delle famose L¹, L², L³… La cosa curiosa nel mio caso è che non mi è ancora completamente chiaro quale sia la L¹, ma attraverso la scrittura credo di esserne venuta a capo: il fatto che io scriva in tedesco, o che traduca solo verso il tedesco, dimostra che con molta probabilità il tedesco è la mia L¹ e l’ungherese la L².

Di tradurre, invece, dal tedesco verso l’ungherese sarei in grado, ma non mi riuscirebbe bene. Se considero per esempio ciò che la mia traduttrice a volte mi propone in ungherese – parlo della traduttrice di Alle Tage, perché ha fatto un buon lavoro –, mi risulta estraneo a tal punto da farmi pensare che io non parlo l’ungherese in quel modo, che allora nel mio ungherese c’è qualcosa di sbagliato; in altre parole, divento insicura per ciò che riguarda questa lingua.

Torniamo alla lingua come tema, cercando di mettere in luce come la riflessione sulla lingua si possa collegare a quella sugli stati del mondo, quali panico e violenza. Il talento linguistico di Abel Nema sembra essere da una parte una strategia consapevole per salvarsi dalla realtà, dall’altra è stato provocato simbolicamente da un incidente. La lingua e la capacità comunicativa sembrano dunque essere vittime del contesto violento. Si tratta di due facce della stessa medaglia?

Non mi è chiaro cosa intende per due facce della stessa medaglia. Però sono d’accordo con il considerare la lingua vittima dell’ambiente circostante violento, perché è così. La successione però è la seguente: dato un determinato ambiente, ci si chiede come si comporta la lingua o come si comporta il parlante, come utilizza la lingua. Essa si presenta davvero come una via di fuga oppure come uno stigma. Se il modo in cui si parla non tradisce alcuna provenienza, ciò comporterà dei problemi, e se tradisce un’altra provenienza, comporterà allo stesso modo dei problemi. Per quanto riguarda Seltsame Materie, invece, non ci sono quasi dialoghi diretti, i dialoghi sono sempre solo riportati, perché i personaggi in fondo non hanno una lingua, sono io a dargliene una, quindi posso renderla anche indirettamente.

Dunque, strategia sarebbe una faccia della medaglia, e stigma l’altra. Ribadisco che il punto di partenza in Alle Tage, o anche in Seltsame Materie, è il contesto di cornice: come si comporta la lingua al suo interno? Lo dico in riferimento al prossimo libro, dove l’essere straniero in questo senso non ha più nessuna importanza. La cornice è un’altra e di conseguenza anche la domanda che viene posta sull’uso della lingua è un’altra.

Se si considera la lingua come vittima, si potrebbe interpretare il taglio della bocca dell’interprete nel racconto STILLE. mich. NACHT come un’immagine fortemente allegorica.

A questo non avevo pensato in un primo momento, ma è interessante, forse è stato inconscio. Proprio il racconto Die Zunge, che finora non era mai stato pubblicato perché troppo terribile, dimostra che Lei non è affatto sulla strada sbagliata, o che io non lo sono. Nel racconto infatti c’è tutto: una donna che di notte attraversa il ponte sul Danubio a Budapest e viene assalita da due tipi, di cui almeno uno non ci sta molto con la testa. Hanno con loro un coltello e cercano di tagliuzzare la donna dappertutto, e proprio quando lei comincia a gridare in una lingua che non capiscono, cercano di tagliarle la lingua. Alla fine non si capisce se ci sono riusciti o meno, perché la donna serra la bocca e fino all’ultima scena in ospedale non la aprirà più. Ho scritto questa storia dopo essere stata per la prima volta a Budapest con Seltsame Materie. Era inverno, mi sono ammalata e ogni esponente della scena letteraria che ho incontrato mi ha rinfacciato qualcosa di cattivo: così è nato il racconto.

Abbiamo parlato della strategia in Alle Tage, ma Lei ha già accennato al fatto che anche in Seltsame Materie sono gli stessi io-narranti ad avere difficoltà con lingua, che descrive piuttosto che spiegare.

In realtà ne hanno meno degli altri personaggi che non hanno affatto una lingua. L’io-narrante, quello riesce a ragionare, cerca almeno di orientarsi con le proprie parole, a differenza degli altri. È vero che la lingua descrive, anziché spiegare, ma usare un io-narrante vuol dire anche confrontarsi con i suoi limiti: se scelgo un personaggio con determinate caratteristiche, che per esempio ha dodici anni e vive in un villaggio, non può parlare come un Umberto Eco, non funziona.

George Steiner ha scritto che un pericolo per il poliglotta è di approdare al nichilismo, di consumare le lingue senza prendersi in esse alcuna responsabilità, senza esservi coinvolto, e così rimanere sempre distante dalla realtà. È in fondo quello che accade ad Abel Nema. Pensa che questa osservazione possa essere fatta solo per il  poliglotta o anche per un monolingue?

Non è facile rispondere: cosa avrebbe ancora a disposizione il monolingue? Steiner intende forse con poliglotta chiunque padroneggi di più lingue. Però anche costui avrà sempre una L¹, o potrà legarsi emotivamente ad una lingua… O forse Steiner ritiene che questo non sia possibile, se ormai ci si è dispersi nelle diverse lingue? Per quanto riguarda Abel Nema, ha preso prima la decisione di rimanere al margine e soltanto dopo ha usato le lingue come mezzo per raggiungere questo obiettivo. Ma se non le avesse avute avrebbe utilizzato qualcos’altro, perché la sua decisione e il suo plurilinguismo non dipendono necessariamente l’una dall’altro. Ha preso ciò che gli è stato donato dagli dei, ciò che gli è stato offerto sul piatto d’argento, e se non gli fosse stata data questa capacità si sarebbe dovuto inventare qualcos’altro. Suppongo che sarebbe diventato un truffatore di promesse di matrimonio, o qualcosa di simile, avrebbe venduto il suo corpo, per così dire, questo ancora mi sarebbe venuto in mente per lui.

Non credo che il distanziamento dalla realtà avvenga con maggiore facilità per un poliglotta. Anche se si possiede una sola lingua – cerco di pensarci ora – si può essere lo stesso estranei al mondo, e questo può accadere proprio attraverso la lingua. Anche nella propria unica lingua il monolingue può arrivare a pensare che ciò che sente non ha senso, o che lo esprimerebbe diversamente, oppure può pensare di essere bombardato ogni giorno con frasi banali e retoriche e di non ritrovarvisi, di non riuscire nemmeno a rispecchiarsi in ciò di cui parla con gli altri, e tutto può sembrargli assurdo ed estraneo, incomprensibile e impenetrabile… Può succedere, senza dubbio. Soprattutto se si tratta di una persona che non riesce a elaborare un piano alternativo, oppure che lo realizza, ma con esso non riesce comunque a comunicare con gli altri. Mi dispiace dirlo, ma si troverebbe in una situazione davvero triste. Dunque è possibile: usare la lingua è molto più delicato di quanto si creda.

I fratelli del racconto Seltsame Materie inventano una lingua degli elementi, Abel e Omar comunicano in un russo che in realtà non è propriamente russo. Si tratta di scappatoie per evitare ogni giudizio politico sulla lingua, dal momento che nell’opera tedesco, ungherese e russo sono connotati politicamente, ad esempio come lingua del nemico?

Per la verità non ci ho pensato. Nel caso della lingua degli elementi ciò che mi interessava era che il ragazzo cercasse qualcosa con cui potersi avvicinare al mondo a modo suo, e che i fratelli creassero una comunità tra di loro sottolineando l’estraneità nei confronti della zia e degli altri. Del resto non conversano davvero con quella lingua, è solo una dimostrazione. Anche per Abel e Omar non ho affatto pensato ad uno sfondo politico. Il tutto si svolge del resto in un’altra epoca, in cui la lingua russa ha riconquistato la sua innocenza, è una lingua come le altre. Inoltre c’è solo una scena di lezione, nelle altre scene i due inventano un Kauderwelsch, un miscuglio incomprensibile di lingue, ancora una volta per sottolineare una comunità tra loro, escludendo gli altri.

Quanto è importante per lei e per il suo lavoro che la letteratura abbia anche un valore ed un ruolo politico?

Credo che la mia situazione oggi sia diversa da quella delle generazioni precedenti. Ho incontrato di recente Volker Braun, che ha scritto un bel romanzo, geniale. Mi fa pensare che quest’uomo abbia vissuto in una dittatura tanto a lungo che il problema di come si possa parlare in modo antidittatoriale sarà un tema a lui caro per tutta la vita. Oggi ha settant’anni, il che vuol dire che ha trascorso cinquant’anni della sua vita in una dittatura. Io ve ne ho trascorsi solo diciotto e questo fa la differenza. Inoltre, durante la dittatura, non mi sono mai espressa letterariamente, questo fa davvero la differenza. Di recente ho anche tradotto parti della Einführung in die schöne Literatur/Introduzione alle belle lettere di Esterházy[10], un libro enorme che tratta del linguaggio nella dittatura e di come si possa, nonostante quest’ultima, parlare liberamente e produrre letteratura. Questa domanda non si è mai posta per me, anche se d’altra parte ritengo che sia stata un’esperienza decisiva aver parlato per i primi diciotto anni della mia vita sotto una dittatura.

L’altra mia motivazione circa il ruolo politico della letteratura – che metto sempre in campo, ma non posso mettere in campo altro – è che noi, in quanto uomini e in quanto autori, abbiamo costituzioni diverse. Sono dell’opinione che la letteratura politica sia importante, che qualcuno dovrebbe farla, ma che purtroppo io non sia il tipo adatto. Perché ciò che facciamo nei libri è comunque costruito in modo tale da non potersi riferire alla politica di ogni giorno, si può riferire a condizioni più generali, di lungo termine. Un autore impegnato a livello politico deve esserlo ogni giorno in altre pubblicazioni e questo sarebbe tremendo per me, non riuscirei mai a farlo. Però trovo bello che altri autori ci riescano. Devono farlo.

Una curiosità: nel racconto Ein Schloß si legge «Als ich hier ankam, bin ich traurig geworden. Nein. Bis ich hier angekommen bin, bin ich traurig geworden»; in Alle Tage di nuovo «Bis ich hierher gekommen bin, bin ich doch traurig geworden». Si tratta di un’autocitazione oppure di una citazione ricorrente? Che significato ha?

È un’autocitazione. E vi è una «pointe rovesciata» cioè non si nota facilmente dove sia l’errore. Nel primo caso arrivo in un posto e divento triste, nell’altro è stato il processo che mi ha portato fino a quel punto ad avermi resa triste. Ed è un’autocitazione pienamente consapevole di Ein Schloß in Alle Tage. Mi è venuta in mente spontaneamente: ad un certo punto del romanzo ho pensato che, durante il percorso che lo aveva portato sin lì, l’eroe era diventato triste, e allora ho scritto così.

La traduzione ungherese di Seltsame Materie non è stata un compito facile: se la lingua ungherese si nasconde dietro il testo tedesco, questo secondo piano va perduto nella traduzione. Non a caso alcune recensioni ungheresi hanno sottolineato proprio una mancanza di originalità, quasi una monotonia linguistica. In linea teorica ci si potrebbe occupare all’infinito della questione di come si traducono testi plurilingue, ma nella pratica bisogna prendere delle decisioni. Come giudica, da traduttrice, la versione Különös Anyag[11]?

Con la traduzione di Seltsame Materie ci sono state molte difficoltà. Da una parte è stato difficile a livello diplomatico, perché non volevo immischiarmi, avrebbe voluto dire tradurre io stessa, e questo non potevo farlo. D’altro canto ero curiosa del risultato che ne sarebbe derivato nel momento in cui qualcun’altro avrebbe cercato di trasportare nella lingua d’arrivo ungherese quello che era stato prima il processo dalla lingua di partenza ungherese alla lingua di arrivo tedesca. Tornare da lì di nuovo all’ungherese vuol dire che non può più rimanervi ciò che dapprincipio aveva portato all’immagine iniziale. Il traduttore, quasi come un co-autore, avrebbe dovuto cercare delle soluzioni nuove, cosa che non è accaduta. Si è tentato piuttosto di tornare in qualche modo all’immagine di partenza e questo è riuscito solo in parte, per cui il testo ha perso la sua particolarità. Io però non avevo voglia – e non ne avrò nemmeno in futuro – di occuparmi del libro più di una volta. Quando una traduzione è brutta, è brutta, e io sono stata sfortunata. Ci sono anche autori che ci tengono davvero molto e lavorano tanto con i propri traduttori, io non lo faccio.

Nel racconto Der Fall Ophelia una frase in russo recita (in tedesco nel glossario): Friede ist die Hoffnung der Völker/La pace è la speranza dei popoli. La versione ungherese traduce invece nel glossario: Szabadság – népek reménye/Libertà – speranza dei popoli. Inoltre manca un racconto, Am dritten Tag sind die Köpfe dran. Si è confrontata con la traduttrice ungherese su questi punti?

Per quanto riguarda la frase in russo, è una sorpresa anche per me, non avevo nemmeno notato che ci fosse un glossario in ungherese. «Mir – eta nadjeschda narodov». Mir vuol dire pace. È decisamente un errore. Il racconto invece l’ho eliminato io perché non mi piaceva, non andava proprio.

Alcuni critici hanno motivato la ricezione poco entusiastica di Seltsame Materie da parte dei lettori ungheresi con il fatto che i racconti sono stati percepiti soltanto come una rappresentazione negativa della realtà ungherese stessa. Questo rispecchierebbe un modo di pensare «pre-Wende» del pubblico in questione, ovvero un atteggiamento pregiudiziale nei confronti di autori di origine ungherese che vivono in paesi occidentali. Che ne pensa, qual è la sua esperienza a riguardo?

Sicuramente esiste qualcosa del genere, ma io non posso farci niente. In una rivista letteraria ungherese, «Az irodalom visszavág», ho letto una recensione molto curiosa, in cui il giornalista elencava i quattro motivi per cui non voleva leggere e apprezzare Seltsame Materie. Numero uno: sono una donna; numero due: mi aveva vista, avevo i capelli rossi; numero tre: in qualche modo mi ha raccomandata Esterházy; il numero quattro era probabilmente che vivo all’estero. Questo era tutto ciò che mi si rimproverava e, sebbene lui scriva in un tono molto divertente, è comunque piuttosto triste, perché è proprio questa la situazione in Ungheria: non si può vivere all’estero, non si può essere una donna, non si può essere una donna di un certo tipo, etc. E non si può esser raccomandati da nessuno, e, se si viene raccomandati da qualcuno, all’improvviso l’interesse diminuisce. È terribile. Alla fine il giornalista ha letto il libro e gli è piaciuto. Cosa gli è piaciuto? Si sentiva trasportato di nuovo nell’Ungheria di Kádár e ha riconosciuto cose che gli erano rimaste impresse: ha scoperto e apprezzato una certa autenticità nel libro, nonché come il tutto era stato descritto.

Le confesso un segreto: le recensioni tedesche le leggo solo mesi dopo. Alle Tage è uscito in agosto e io ho letto le recensioni tutte in un giorno, il 6 dicembre, S. Nikolaus. Se si sta lì, curvi, a leggere ogni recensione non appena viene pubblicata, diventa esageratamente importante. Quando si leggono tutte insieme la cosa si livella un po’. Le recensioni ungheresi, invece, non le leggo affatto, perché non le prendo per niente sul serio. In Ungheria in fondo non esiste un feuilleton, quindi dovrei sapere come orientarmi, sapere quali sono quei giornalisti incorruttibili, la cui opinione può essere presa in considerazione. Fino ad oggi non mi sono ancora presa questa briga. Sicuramente in Ungheria c’è qualcuno che scrive recensioni senza soggiacere a tutti questi preconcetti e sono quelle le recensioni che andrebbero lette, ma io non so chi sia. Se lo scopre me lo dica.

Cosa ne pensa della letteratura ungherese oggi, come scrittrice e come traduttrice?

È banale, ma non me ne intendo molto. Mi piacerebbe molto conoscere gli autori della mia generazione o anche più giovani, ma tutti quelli che conosco sono quelli che mi hanno chiesto di tradurli, e si tratta di produzioni un po’ più datate. Il che vuol dire che non so chi e cosa viene dopo di loro. Dovrei informarmi un po’ meglio. Ma di solito quando mi giunge all’orecchio qualcosa ne sono entusiasta e sento germogliare una sorta di orgoglio nazionale, mi dico che la letteratura ungherese è molto più interessante di quella tedesca, molto più innovativa. In fondo vengono tutti dalla scuola di Esterházy e i tedeschi non ne hanno uno, quindi al massimo possono seguire Handke o Bernhard, ma allora è diverso. Quindi, di solito, sono piuttosto orgogliosa e soddisfatta. Devo aggiungere però che leggo ogni anno Körkép, una specie di antologia di racconti ungheresi dell’anno pubblicati da Magvető e negli ultimi anni va sempre peggiorando, a volte i racconti sono terribili. Io mi sono concentrata soprattutto su quello che scrivono le donne, presto particolare attenzione alle autrici, perché ritengo che in Ungheria le donne siano represse. Per questo ero del tutto ben disposta nei confronti dei loro testi, ma purtroppo ora non sono bei testi. È un peccato, bisogna cercare ancora… Può darmi volentieri consigli. Uno che non sopporto è Attila Bartés, mi dà sui nervi.

Non fa parte delle generazioni più giovani, ma mi piace Magda Szabó, che tra l’altro è una tra le poche autrici ungheresi conosciute in Italia.

La leggono molto volentieri anche in Ungheria, soprattutto le donne. Ma nel resto della scena letteraria non viene presa sul serio, perché è una donna. Puoi avere cent’anni ed essere una Magda Szabó: vengono letti tutti i tuoi libri, ma rimani pur sempre una donna.

Poi c’è per esempio Zsuzsa Rakovszky. Lei ha scritto per lungo tempo poesie e ora scrive anche romanzi. Il primo è un buon romanzo, quello successivo però già meno – così mi ha detto mia madre, che legge per me questo genere di cose. Zsuzsa Rakovszky ha dovuto comunque aspettare i cinquant’anni prima di osare scrivere qualcos’altro oltre alle poesie: le poesie sono permesse. Autrici donne quindi ce ne sono, solo che non vengono prese veramente sul serio.

Si è mai occupata della letteratura della minoranza tedesco-ungherese?

No, o meglio, non la considero tale. Come poeta conosco Márton Kalász ma non lo considero appartenente alla letteratura di minoranza tedesco-ungherese o sa il diavolo cosa. È un poeta e basta, tutto il resto non ha importanza. Devo precisare che non mi identifico con la minoranza tedesco-ungherese in quanto tale.

Ogni lavoro di traduzione permette di imparare qualcosa di nuovo, nel Suo caso non solo come traduttrice, ma anche come scrittrice. Cosa ha imparato per esempio dalla traduzione di Esterházy? Tradurre Harmonia Caelestis[12] si può dire sia stata una grande impresa.

Oltre a Esterházy traduco soprattutto Parti-Nagy, e poi qualche altro testo sparso. Mettendo a confronto le due esperienze, con Esterházy e con Parti-Nagy, ho scoperto che per me Parti-Nagy è terribilmente difficile: il libro che ho tradotto, Hősöm tere/Meines Helden Platz[13], è lungo un terzo di Harmonia Celestis, eppure mi ha richiesto lo stesso tempo. Parti-Nagy è un poeta, anche un romanzo lo scrive come un poeta, come un poeta maneggia la lingua nella frase. Questo procedimento mi è molto distante e pensavo che non sarei riuscita ad imitarlo, non riesco a imitare una frase di un Parti-Nagy, perché è la frase di un poeta. Per quanto riguarda Esterházy, la traduzione di Harmonia Caelestis può sembrare una grande impresa, eppure per me non è stata particolarmente difficile, perché capisco la sua frase, in ogni punto capisco cosa fa e perché lo fa. Così si è già a metà dell’opera. Riconosco il procedimento e lo riesco ad imitare bene. Non potrei mai tradurre Nádas, perché riesco a fare solo supposizioni su quale sia il suo metodo o su cosa voglia dire in una sua frase, utilizza le parole in modo tale che ci sono quindici possibilità di tradurre un’unica parola e sono sicura che io non ne coglierei le sfumature. Esterházy, nonostante i suoi testi sembrino così leggeri, è molto preciso e so quale parola intende in quale punto.

Cosa ho imparato? Nella traduzione di un testo come Harmonia Caelestis si ha la fortuna di essere di fronte a un’opera matura, non del primo periodo. Ho tradotto anche Produktionsroman[14], che pure mi ha dato molto (sebbene non lo sappia nessuno perché non è ancora stato pubblicato): [G2] anche quando era un giovane autore Esterházy sapeva scrivere in un modo che mi ha illuminato sulle modalità di costruzione della frase. Come giovane autrice ho avuto il grande vantaggio che in Harmonia Caelestis era maturato e per questo raggiunge una leggerezza che non ha all’inizio. Ho avuto bisogno di questa leggerezza per poter scrivere Alle Tage. Ho interpretato Harmonia Caelestis come un’autorizzazione a fare ciò che volevo: mi sono seduta e ho fatto quello che volevo, è stato bello. Così un testo ha assunto la funzione di mentore. C’è da chiedersi se anche un testo soltanto letto avrebbe potuto svolgere la stessa funzione. Probabilmente meno, perché tradurre significa leggere con molta precisione. Questo credo sia stato il risultato conseguito attraverso questa traduzione, una liberazione, ed è stato bello.

All’espressione «letteratura di migrazione» reagisce spesso con irritazione: come Lei stessa ha detto, distrae da ciò che veramente interessa in letteratura, il testo. Tuttavia mi sembra che questo concetto permetta di individuare un percorso che in ogni caso è diverso da quello di autori tedeschi e questo può rappresentare una guida per i lettori, soprattutto se si osserva il fenomeno nel suo sviluppo storico. Cosa ne pensa e come sono i suoi rapporti con gli autori tedeschi e non tedeschi?

Ritengo che si tratti comunque di una guida sbagliata: perché si possa parlare di scrittore di migrazione, questi dovrebbe essere un migrante, cosa che io non sono, o meglio, non nel vero senso della parola. Il mondo è così, ci si può trasferire per esempio da Bologna a Madrid e basta. Certo è migrazione nel senso di spostamento. Però si sa come funzionano queste cose, e io la ritengo una trappola per alcuni autori che valgono di più, come me per esempio.

Però ci sono differenze con autori tedeschi che non hanno fatto queste esperienze di «spostamento» e quindi apportano altri temi.

Ma ci sono anche autori tedeschi che hanno compiuto altri spostamenti. Per esempio Christian Kracht, che è andato dall’India alla Cina e ancora oltre e poi ha raccontato di questi spostamenti. Io ho l’impressione che nessuno voglia sentire questo tipo di racconti da uno scrittore tedesco. Christoph Peters  per esempio ha scritto un libro, Ein Zimmer im Haus des Krieges[15], su un tedesco che diventa terrorista islamico. La storia si svolge per buona parte anche in Egitto, in ogni caso non in Germania. È nata una discussione esagerata sul fatto che, in quanto tedesco, egli non potesse scrivere di questi argomenti. Perché no? Mi sembra quindi che agli autori tedeschi spesso vengano posti dei limiti, il che è stupido.

Ha rapporti con autori tedeschi? Com’è la scena letteraria?

No, non ne ho. È un caso che sia amica, tra gli altri, di un’autrice tedesca, Tanja Dückers. Lei è del 1967, nata e cresciuta a Berlino ovest, vive ancora oggi a Berlino e si interessa di cose molto diverse dalle mie, e ciò è dovuto sicuramente anche alla sua storia personale. Poi sono amica di uno scrittore di radiodrammi austriaco. Come scambio tra autori è solo quello tra queste due persone, e ciò perché esistono questioni tecniche che sono indipendenti da cosa si scrive, e di questo si può discutere con loro.

Claudia Tatasciore


[1] Cfr. T. Mora, Das Kreter-Spiel oder: Was fängt die Dichterin mit ihrer Zeit an, in: «Sprache im technischen Zeitalter»183, pp. 333-343.

[2] Cfr. C. Tatasciore, Tra via di fuga e stigma. La lingua in Terézia Mora, in: E. Thüne, S. Leonardi, I colori sotto la mia lingua. Scritture transculturali in tedesco, Lanuvio, Aracne 2009.

[3] T. Mora, Alle Tage, Berlin, btb 2006, p.17.

[4] T. Mora, Alle Tage, Berlin, btb 2006, p. 39.

[5] J. Willner, Störgräusche. Grenzerscheinungen der Sprache bei Peter Weiss und Terézia Mora, in: J. Müllender (ed.), Peter Weiss. Grenzgänger zwischen den Künsten. Bild – Collage – Text – Film, Lang, Frankfurt a. M. 2007 p. 155.

[6] Der einzige Mann auf dem Kontinent, München, Luchterhand, 2009.

[7] «Ich könnte viel klagen und noch mehr fluchen» (T. Mora, Alle Tage, München, btb, 2006, p. 141).

[8] T. Spreckelsen, Panik ist der Zustand dieser Welt, in «FAZ», 16 ottobre 2004.

[9] V. Auffermann, Terézia Mora gelingt ein Buch über die Verteibung aus dem Paradies, in «Die Zeit», 2 settembre 2004.

[10] P. Esterházy, Bevezetés a szépirodalomba, Budapest, Magvető, 1986, trad. ted. di B.-R. Barth, G. Buda, Z. Gahse, A. Máté, P. Máté, T. Mora e H.-Henning Paetzke, Einfürung in die schöne Literatur, Berlin, Berlin Verlag, 2006.

[11] T. Mora, Különös anyag, trad. ungh. di E. Rácz, Budapest, Magvető, 2001.

[12] P. Esterházy, Harmonia Caelestis, Budapest, Magvető, 2001 trad. ted, di T. Mora, Harmonia Caelestis, Berlin Verlag, Berlin 2001, trad. it. di G. Pressburger e A. Sciacovelli, Harmonia Caelestis, Milano, Feltrinelli, 2003.

[13] L. Parti-Nagy, Hősöm tere, Budapest, Magvető, 2000, trad. ted. di T. Mora, Meines Helden Platz, München, btb, 2007.

[14] P. Esterházy, Termelési-regény, Budapest, Magvető, 1979.

[15] C. Peters, Ein Zimmer im Haus des Krieges, München, btb, 2006.


 [G1]Il racconto Moritaten/Ballata di sangue è pubblicato alle pagine 255-270 dello stesso fascicolo di «Comunicare».

 [G2]Nel frattempo la traduzione è uscita: P. Esterházy, Ein Produktionsroman (Zwei Produktionsromane), trad. ted. di T. Mora, Berlin Verlag, Berlin 2010.

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