I fantasmi della storia di Régine Robin

[Ripropongo l’articolo che lo storico Enzo Traverso dedicò su Il Manifesto del 2005 al volume di Régine Robin, I fantasmi della storia, in occasione dell’uscita italiana presso l’editore Ombre Corte. Un libro che ricostruisce le diverse modalità, anche letterarie, con cui la Germania ha cercato di rendere “abitabile” il proprio passato. C.M.]

Enzo Traverso

I fantasmi della storia è un libro che va salutato per diverse ragioni. Innanzi tutto perché si tratta della prima traduzione italiana di Régine Robin, una studiosa alla quale si devono lavori di grande importanza sulla storia della lingua yiddish, sull’estetica del realismo socialista, sull’identità problematica degli scrittori ebrei della Mitteleuropa, da Kafka a Canetti, e infine, in questi ultimi anni, sulla memoria. La memoria nelle sue diverse dimensioni, dal ricordo dei testimoni alla «postmemoria» dei loro discendenti, segnati da eventi che non hanno vissuto e che trasforma, per riprendere le parole di Reinhart Koselleck, «il passato saturo di esperienze» dei testimoni in «un passato puro, sottratto al vissuto», e forse proprio per questo oggetto di proiezioni, catalizzatore di inquietudini e paure. I fantasmi della storia si presenta come un’ammirevole incursione nella memoria tedesca, luogo di condensazione di tutte le ferite dell’Europa, sismografo sensibile delle scosse generate da un secolo di sangue e di fuoco. Se la memoria tedesca è al centro del libro, l’osservatorio scelto dall’autrice è Berlino, monumento vivente delle lacerazioni del Novecento.

Francese di origine ebreo-polacca, da oltre una ventina d’anni stabilita a Montréal, Régine Robin non si è mai stancata di frequentare la capitale tedesca. Molteplici fili biografici la legano a questa città, tra cui, come confessa in Berlin chantiers (Stock, Parigi, 2001), il ricordo del padre che durante la repubblica di Weimar vi aveva vissuto e collaborato a Die Rote Fahne, il quotidiano comunista, e un amore giovanile, negli anni Settanta, quando il quartiere di Kreutzberg era la capitale della scena alternativa. Accanto a queste vicende, una lunga frequentazione della lingua tedesca, lingua di cultura considerata, durante la sua infanzia, incontestabilmente «più nobile» dello yiddish, la lingua famigliare, ma al contempo messa al bando come lingua del nemico, della distruzione e del lutto; una lingua sempre letta e amata ma tenuta a distanza, quasi impronunciabile, proibita. Insomma, Régine Robin ha buone ragioni per detestare la Germania federale del dopoguerra, il paese che ha raccolto l’eredità del nazismo, in cui il vecchio «Volk ohne Raum» si è trasformato in impaziente «Volk ohne Zeit» lanciato verso il decollo economico e mercantile, ma ha anche buone ragioni per amare Berlino, questa «città palinsesto» che non ha cancellato le tracce del suo passato e che riunisce in sé, mescolandole in diversi strati ben visibili, le ferite della storia e le contraddizioni del presente.

Questo libro, ormai dovrebbe essere chiaro, non rientra nei canoni degli studi germanici; non ci invita all’ennesima rievocazione della capitale dell’impero guglielmino e della repubblica di Weimar, né a una riflessione nostalgica sull’età dorata dell’ebraismo tedesco che aveva trovato in questa metropoli il suo centro di irradiazione. Il fatto è che, a differenza di Vienna, Berlino non è una città imbalsamata in un passato morto, conservata ed esibita come una reliquia. Agli antipodi di una città-museo, Berlino porta con sé il suo passato come un coacervo di ferite ancora aperte in seno a un tessuto urbano in continuo mutamento. È uno dei rari luoghi in Europa in cui il passato non è pietrificato ma, come una materia composita e movente, s’insinua nel presente, lo interroga, lo perseguita, lo trasforma.

È quindi a partire da questo osservatorio che Régine Robin esplora la memoria tedesca. Con un rigore e un equilibrio poco comuni, passa in rassegna i grandi dibattiti storici, politici e letterari degli ultimi vent’anni, dall’Historikerstreit sulla singolarità dell’Olocausto che aveva opposto Nolte a Habermas, intorno alla metà degli anni Ottanta, alle più recenti polemiche sull’inaugurazione, durante la primavera scorsa, nel cuore della capitale tedesca, a due passi dal Bundestag, di un memoriale dedicato agli ebrei d’Europa sterminati dal nazismo. Tra questi due poli si inserisce una serie interminabile di polemiche che hanno acceso gli animi e riempito le pagine dei giornali: dalle tesi provocatorie di Daniel J. Goldhagen sul genocidio degli ebrei come «progetto nazionale» tedesco all’indignazione per una mostra dell’ Institut für Sozialforschung di Amburgo sui crimini della Wehrmacht; dallo scandalo di un discorso incompreso del presidente del Bundestag Philipp Jenninger, nel 1989, allo scontro tra lo scrittore Martin Walser e il rappresentante della comunità israelitica Ignaz Bubis sull’utilità delle commemorazioni pubbliche, dieci anni dopo; dalle critiche ai romanzi di Günter Grass ispirati dal ricordo della guerra alle catarsi collettive suscitate dai libri sui bombardamenti delle città tedesche; dall’enorme successo del nuovo museo ebraico disegnato da Daniel Liebeskind a quello de La caduta, il film di Oliver Hirschbiegel che rievoca gli ultimi giorni di Hitler nel suo bunker di Berlino.

Régine Robin si muove con eleganza e disinvoltura in questo labirinto, suggerendo una riflessione critica non certo distante o indifferente, anzi emotivamente coinvolta, ma senza a priori né risentimento, e quasi sempre riesce a convincere. La chiave per interpretare questo impietoso e inesauribile esame di coscienza nazionale si trova forse nel romanzo di Günter Grass Il passo del gambero, ispirato alla tragedia del Wilhelm Gustloff, la nave carica di migliaia di profughi tedeschi dell’Est che fu affondata da un siluro sovietico nel gennaio del 1945. Gli eroi del romanzo, tedeschi di oggi che rievocano questa triste vicenda, incarnano l’atteggiamento della nazione posta di fronte al suo passato, divisa tra una volontà espiatoria spinta all’estremo e la tentazione di rivestire i panni della vittima.

Questa tentazione, a dire il vero, è sempre esistita, fin dai tempi della guerra fredda. Régine Robin ne vede affiorare le premesse nel discusso film di Edgar Reitz Heimat, saga della Germania profonda, autentica, quasi bucolica, senza ebrei e senza il deprecabile American way of life del dopoguerra (anch’esso stigmatizzato dal regista come tipicamente ebraico). Oggi questa tendenza si esprime più apertamente, sia nei romanzi e nei film che raccontano le sofferenze della popolazione tedesca durante la guerra, culminate nell’espulsione di dodici milioni di Ostdeutsche dai territori annessi all’Urss, alla Polonia e alla Cecoslovacchia, sia nella pubblicistica che ricorda i terribili bombardamenti che distrussero le città tedesche, uccisero seicentomila civili e lasciarono milioni di senzatetto.

Come spiegare il lungo silenzio che ha coperto per anni queste dolorose vicende, isolate in seno alle associazioni di profughi (vicine alla Cdu) o rimosse da una letteratura per altro non indifferente alla storia? Lo scrittore W.G. Sebald aveva tentato una risposta, poco prima della sua prematura scomparsa, in un bellissimo saggio, Luftkrieg und Literatur, giustamente citato da Régine Robin: le macerie andavano sgomberate al più presto e il dolore interiorizzato, in silenzio, perché i milioni di tedeschi che subivano questa ondata di violenza sapevano di appartenere a una nazione che aveva accettato un regime colpevole di crimini ben peggiori, ancora più estesi e feroci. Questa coscienza storica scissa tra espiazione e vittimizzazione si esprime oggi nelle oscillazioni di una politica della memoria estremamente dinamica ma sempre prigioniera delle sue contraddizioni. Da un lato il futuro museo ai Vertriebene, i profughi dell’Est, voluto dalla Cdu, dall’altro il gigantesco memoriale dell’Olocausto, che occupa un immenso spazio di ventimila metri quadrati nel cuore di Berlino, come un ammonimento permanente alla nazione. Passando in rassegna i diversi progetti presentati al concorso per questo memoriale, Régine Robin lascia intendere di preferirne alcuni finalmente respinti, più originali e critici benché meno impressionanti e massicci. Cita anche le voci dissidenti di chi – come molti intellettuali di sinistra – avrebbe preferito un memoriale per tutte le vittime del nazismo e non per i soli ebrei, evitando così il rischio di creare una gerarchia tra le vittime e una concorrenza tra le loro memorie.

In uno dei capitoli più anticonformisti di questo libro, Régine Robin prende le difese di Martin Walser, accusato di voler respingere il ruolo di colpevole assegnato alla Germania e di volersi sbarazzare della «clava morale» rappresentata dalla memoria di Auschwitz. In realtà, nel testo messo sotto accusa del suo discorso di Francoforte del 1998, Walser affermava di «non aver mai pensato di abbandonare il banco degli imputati». La sua polemica era diretta contro una «monumentalizzazione della vergogna» tesa a creare una «buona coscienza» fatta di giaculatorie ritualizzate, sottratta così alle pene di una coscienza personale che non delega il lutto e la vergogna (Schande) ma li fa propri, dolorosamente. Non tutti condivideranno questo giudizio, ma l’argomentazione di Régine Rogin è incontestabilmente interessante.

Rimane il fatto che la Germania di oggi assume il suo passato, e questo la distingue da altri paesi europei e occidentali. A cominciare dagli Stati Uniti dove, come ricordava Susan Sontag nel suo ultimo saggio Di fronte al dolore degli altri, si preferisce ricordare l’Olocausto che avvenne in Europa anziché la schiavitù e il genocidio degli indiani, due eventi fondatori della nazione americana. Per arrivare alla Francia, dove il governo ha promulgato nel gennaio scorso una legge tesa a riconoscere il «ruolo storicamente positivo» del colonialismo, oggi al centro di feroci contestazioni. E infine all’Italia, dove la moltiplicazione delle giornate della memoria tese a commemorare le nostre vittime (dell’Olocausto, delle foibe, del comunismo) non si accompagna quasi mai al ricordo dei nostri crimini (ad esempio quelli perpetrati dal fascismo in Libia, in Etiopia e in Jugoslavia). Ricordare le vittime delle bombe angloamericane su Dresda e Amburgo non ha nulla di indecente, per quanto possa rivelare uno stato d’animo e inscriversi in un progetto di «normalizzazione» dell’identità nazionale tedesca. Altra cosa è la commemorazione pubblica, in presenza delle più alte autorità dello Stato, dei «ragazzi di Salò».

Un ultimo capitolo, «La discarica della storia», è dedicato alla memoria della DDR, demolita sotto i colpi di una «normalizzazione» ancor più radicale di quella del 1933 o del 1945, dalla quale è nata una comunità di nuovi «senzapatria», stranieri nel loro stesso paese, privati del loro passato e costretti a fabbricarsi un’identità fatta di ricordi. Non si tratta di nostalgia – l’«Ostalgia» non si riduce a quello – perché ben pochi rimpiangono il socialismo reale. I tedeschi orientali si aggrappano a oggetti, luoghi e simboli che potevano un tempo apparire banali, brutti o irritanti, come i semafori, i lampioni, la toponomastica o i monumenti agli eroi del socialismo che troneggiavano nelle piazze, ma che hanno iniziato a percepire come «propri» quando le autorità hanno deciso di eliminarli senza neppure chiedere il loro parere. Prima di essere trasformato in ideologia di Stato dalla DDR – e stigmatizzato come ideologia totalitaria da Adenauer -, l’antifascismo è stato l’ethos civile e politico dei tedeschi che hanno deciso di combattere Hitler e salvato l’onore della Germania. Questa tradizione rischia oggi di conoscere un’eclissi totale nel paese della proliferazione commemorativa.

Enzo Traverso

Régine Robin, I fantasmi della storia. Il passato europeo e le trappole della memoria, prefazione di Gustavo Corni, Ombre Corte, Verona 2005.

da: Il Manifesto del 24.11.2005 e dal sito dell’editore Ombre Corte

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