Una comunità di lettura: Michael Kohlhaas

La comunità di lettura è aperta: via libera ai commenti!

Ricordiamo i materiali kleistiani finora apparsi su germanistica.net:

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6 Responses to Una comunità di lettura: Michael Kohlhaas

  1. michele sisto says:

    Pensavo: poiché sul Kohlhaas (come sulle Affinità elettive e La lingua salvata) è stato detto e scritto moltissimo, sarebbe forse illusorio, qui in questo nostro blog, pretendere di aggiungere qualcosa alla vastissima bibliografia kleistiana (che peraltro i più legittimamente ignorano). Possiamo però ugualmente dire qualcosa di nuovo su questo racconto, anche semplicemente a partire dalla nostra personalissima e particolarissima esperienza di lettura.

  2. michele sisto says:

    Mi viene in mente, a questo proposito, la proposta di Tiziano Scarpa di intendere la critica come ‘collaudo’, come un mettere alla prova i testi letterari nell’esperienza di ciascuno (ne dà una buona sintesi Carla Benedetti qui: http://www.sparajurij.com/tapes/deviazioni/TizianoScarpa/RECENSIONEfracasso.htm). Penso che vadano in questa direzione anche le riflessioni di Massimo Bonifazio sull’esigenza di un ‘corpo a corpo’ con Kleist, che a loro volta prendevano spunto dall’appello di Eugenio Spedicato a «individuare anelli di congiunzione con il nostro tempo e la nostra condizione».

    Personalmente, partirei quindi da una domanda. Perché, leggendo il Kohlhaas, mi è accaduto a più riprese di pensare alla lotta degli abitanti della Val di Susa contro il progetto della TAV? C’è un «anello di congiunzione»? E, se sì, quale?
    Devo ancora rifletterci (e vi chiedo di farlo insieme a me), ma le mie riflessioni girano soprattutto intorno a due punti.

    Il primo: la paradossale vicenda di Kohlhaas, che per ottenere giustizia diventa un fuorilegge, ha per Kleist un segno positivo. Questo è evidente nel finale (cito dalla trad. di Paola Capriolo):

    «Qui finisce la storia di Kohlhaas. Tra i lamenti di tutto il popolo [che alla fine è dalla sua parte!] misero il cadavere in una bara, e mentre i portatori la sollevavano per darle degna sepoltura in un cimitero dei sobborghi il principe elettore chiamò a sé i figli del morto e con la spada li creò cavalieri, dichiarando al gran cancelliere che dovevano essere educati nella sua scuola per i paggi. Poco dopo il principe elettore di Sassonia, straziato nel corpo e nell’anima, tornò a Dresda, e ciò che avvenne in seguito si può leggerlo nei libri di storia. Ma di Kohlhaas ancora nel secolo scorso viveva nel Mecklemburgo qualche lieto e robusto discendente».

    Questo finale pone un problema che in un certo senso è di ‘filosofia del diritto’: ci dice, in sintesi, che affinché la legge funzioni (e produca quel che è chiamata a produrre: la giustizia), ha bisogno di essere, all’occorrenza, pungolata da azioni che si pongono ai limiti o al di fuori della legge, nonostante (o proprio perché) nascono pienamente all’interno di un’esigenza di giustizia. È la grande questione dell’imperfetta coincidenza tra giustizia e legalità, tra la giustizia e le istituzioni che, in ogni sistema sociale, la amministrano.

    Il legame con la protesta della Val di Susa? Uno dei più diffusi argomenti pro tunnel sostiene che il progetto ha avuto l’approvazione del parlamento nazionale e dell’Unione europea, e quindi è il risultato di una decisione democratica (giusta); il movimento risponde che gli abitanti della valle non sono mai stati consultati sull’opportunità di realizzare o meno il tunnel, e che il progetto è dunque da considerarsi un’imposizione autoritaria (ingiusta). Di qui il conflitto, e anche le forme di violenza che esso ha assunto su entrambi i fronti.

    Mi chiedo allora: si può vedere un’analogia tra Kohlhaas e gli abitanti della Val di Susa che combattono per il diritto di decidere su quel bene comune e inalienabile che è il paesaggio della loro valle, da una parte, e, dall’altra, tra istituzioni cinquecentesche complici (il principe di Sassonia), lontane (l’Imperatore), disinformate (il principe di Brandeburgo), ma alla fine giuste (sempre il principe di Brandeburgo) e quelle dell’odierna repubblica italiana?

    Il secondo punto: la lotta di Kohlhaas per ottenere giustizia si svolge sì nel ‘500 ma allude, com’è noto, alla contemporaneità di Kleist, un primo ‘800 attraversato in tutta Europa da fermenti rivoluzionari. Quello che stava accadendo, in seguito alla rivoluzione francese e alle guerre napoleoniche, è che al sistema feudale, e alla sua amministrazione della giustizia, cominciava a sostituirsi un sistema borghese, con un nuovo sistema di amministrazione della giustizia legato agli interessi della classe in ascesa (si pensi ai codici napoleonici). Kohlhaas è un borghese (mercante di cavalli) che non è più disposto a lasciare la giustizia nelle mani dei feudatari (von Tronka), che non difendono i suoi interessi bensì i propri. Dietro la sua vicenda vediamo emergere un cambiamento di sistema, la fine di un ordinamento secolare e l’inizio di uno nuovo (a cui il racconto, ambientato nel ‘500, non può che limitarsi ad alludere).

    Il punto è questo: la stessa amministrazione della giustizia, i valori che le leggi sono chiamate a difendere per il bene della comunità, non risponde a principi immutabili, bensì a principi che mutano nel tempo, a seconda dell’ordinamento che la comunità si è data. Per lo Junker von Tronka prendere i morelli di un cavallaio e farli lavorare nei propri campi è una piccola prevaricazione, che non turba in alcun modo il mondo feudale basato sulla proprietà terriera; per il mercante Kohlhaas è invece un torto inaccettabile, che minaccia di distruggere il fondamento stesso del suo mondo borghese, basato sulla libertà e sulla sicurezza dei commerci.

    Quali sono i due mondi, e i due fondamenti della giustizia, che si scontrano oggi in Val di Susa? È più difficile dirlo, perché è una storia ancora in corso, non ancora storicizzata. Provvisoriamente però si può dire che da una parte abbiamo il mondo del capitalismo avanzato, che intende le grandi opere pubbliche come strumento per la crescita del PIL nazionale, non ignorando ma lasciando in secondo piano i loro costi ecologici e ambientali (un mondo erede del ‘lungo XX secolo’ come è stato descritto da Giovanni Arrighi, per intenderci); dall’altra abbiamo un mondo ancora in fermento e in formazione (e pertanto privo di istituzioni rappresentative), che, come accade in diverse altre parti del globo, non crede più nella crescita senza fine del PIL come indice di ricchezza ma mette al suo posto i ‘beni comuni’, primo fra tutti il paesaggio, e la necessità della loro salvaguardia, la quale non può che essere, almeno in ultima istanza, a carico delle comunità locali (un mondo erede – ma lo dico con una certa cautela – del ‘mondo dei vinti’, forse mai completamente ‘vinto’, come è stato descritto da Nuto Revelli).

    Ecco: il Kohlhaas, forse, con la sua radicale e produttiva ambivalenza, con i diversi livelli di lettura che gli sono propri, può aiutarci a capire meglio le cronache di questi giorni. Ma questo, ovviamente, è solo uno dei molti possibili modi di sottoporlo a ‘collaudo’.

  3. Alciati says:

    Ho terminato la lettura di Kohlhaas. Accetto di cimentarmi nell’esercizio del ‘collaudo’, ma non mi ha mai appassionato il ritrovare presunti ‘ricorsi’ o invarianti fenomenologiche. Non sono ancora convinto dell’opportunità di riporre in solaio i ferri dello storicismo.
    Per ora anticipo solo il tema che mi ha colpito più di tutti: Lutero. Sarà forse considerato un personaggio marginale nell’economia del discorso; se così, lo considero un errore. Son convinto che lì si nasconda la chiave del racconto. Perché il tema della giustizia (richiesta, implorata, negata…) fa il paio con quella dell’angelo vendicatore. E qui Lutero c’entra, eccome! è un problema di teologia politica. Provo a sunteggiare per rendere più chiaro. Lutero crede negli angeli, così come sono descritti e adorati nel Vecchio Testamento, ma ovviamente rigetta tutta l’angelologia patristica, dove è costruito il culto dei santi. Ma come egli stesso scrive, “gli angeli in cielo pregano per noi (come pure fa Cristo stesso) e così anche i santi sulla terra o forse anche in cielo” (Weimar Ausgabe, vol. 50, p. 210). Gli angeli cioè rientrano pienamente nella sfera del religioso; e da qui paiono non poterne uscire. L’angelo vendicatore vicario di Michele – così si definisce grossomodo Kohlhaas – invece irrompe nel mondo e ‘qui ed ora’ vuole far giustizia. Ovvero, vuole servirsi della ragione (della forza del diritto) per ‘rischiarare’ (aufklaeren) la tradizione religiosa. Qui Kleist vuole denunciare (anacronisticamente?) l’immobilismo luterano, il sentirsi appagati da una religione quietistica meramente passiva (che infatti non può far altro che condannare Kohlhaas e poi, per ‘quieto vivere’, chiedere per lui un provvedimento di grazia come l’amnistia) di contro all’azione morale del mercante di cavalli. Bisognerebbe vedere – ma non conosco la faccenda – quanto Kleist conosca di Kant (mi suggerisce questa pista il mio amato Erik Peterson, teologo prima protestante poi cattolico, che parla fugacemente di Kleist proprio in relazione a Kant), dove è innegabile la forte accentuazione dell’azione morale come accesso privilegiato alla sfera religiosa. Come dire – e concludo – che qui Kleist, via Kohlhaas, propone il tema della ‘riforma della riforma’, attraverso l’affascinante questione del chiedere/avere giustizia.

  4. daniela says:

    Ho appena finito di leggere “La vergine eterna” (tit. or. Rōtashi Anaberu Rī sōkedachitsu mimakaritsu, 2007, ed. it. Garzanti 2011, trad. di Gianluca Coci) di Kenzaburō Ōe. Il romanzo è interessante per la nostra discussione su “Michael Kohlhaas” in quanto la vicenda che coinvolge l’io narrante ‒ ovvero, in una commistione di autobiografia e finzione, lo scrittore stesso ‒ ruota intorno alla realizzazione, nel Giappone della metà degli anni Settanta scosso dai movimenti di contestazione per i diritti civili e la libertà d’espressione (si fa riferimento a questo proposito ai destini di Solženicyn e del poeta sud-coreano Kim Chi-Ha), di un film tratto dal racconto di Kleist. In un lungo flashback che conduce il lettore a trent’anni prima (le scene iniziali del romanzo sono ambientate ai giorni nostri) l’io narrante ricostruisce la fucina di riflessioni, discussioni, stesure e correzioni da cui è scaturita la sua sceneggiatura. Ad affiancarlo nella realizzazione del progetto erano all’epoca Komori Tamotsu, amico degli anni d’università a Tokyo, già affermato produttore cinematografico, e la coetanea Sakura Ogi Magarshack, star internazionale simbolo della bellezza orientale, che egli ricorda tra l’altro, ancora bambina, in un breve film in 8mm ispirato alla “Annabel Lee” di Edgar Allan Poe.

    Non voglio addentrarmi nel complesso, a tratti tortuoso, plot della “Vergine eterna”, in cui si intrecciano ‒ tra citazioni ed echi letterari, musicali e cinematografici, memoria individuale e memoria collettiva ‒ temi che vanno dall’occupazione americana del Giappone dopo la Seconda guerra mondiale alla storia di Sakura, segnata da una violazione fisica sepolta nell’inconscio, fino alla piaga della pedo-pornografia. Quello che in parte vi anticipo è la lettura del racconto il Kleist che viene tratteggiata nell’ambito della progettata trasposizione cinematografica.

    Qui la vicenda di Kohlhaas è liberamente reinterpretata nella prospettiva della storia giapponese, in particolare delle due rivolte contadine contro l’aumento delle tasse avvenute nella foresta dell’isola di Shikoku (da cui Kenzaburō Ōe proviene) nel corso della seconda metà dell’Ottocento, nel periodo di passaggio dal dominio della casata militare dei Tokugawa alla restaurazione del governo imperiale (Restaurazione Meiji). Così Kenzaburō:

    «Lo junker von Tronka e i suoi nobili familiari corrisponderebbero agli esponenti più altolocati dello han, no? Alla guida della prima rivolta nello Shikoku, negli anni precedenti alla Restaurazione Meiji, c’era il giovane Meisuke, fautore delle rivendicazioni politiche dei contadini. Tutti i partecipanti all’insurrezione nutrivano un odio profondo nei confronti dei leader dello han, un odio alimentato da anni e anni di soprusi, e il grande spirito di rivalsa era parte integrante della rivolta. Le forze dello han tentarono di sedare la ribellione, ma ebbero la peggio, in quanto non erano avvezze a combattere nel cuore della foresta, lontane dalla città castello. Sull’onda dell’entusiasmo, i contadini strinsero d’assedio la città-castello, invasero le strade e presero ad appiccare il fuoco a tutto ciò che poteva bruciare. Ora, sappiamo bene che in un simile contesto non c’era una persona paragonabile per fama e prestigio a Martin Lutero, eppure mi piacerebbe che nel film qualcuno svolgesse il ruolo del mediatore. A questo proposito avrei pensato di ispirarmi a Nakae Tōju, un autorevole filosofo confuciano e consigliere politico del XVII secolo che prestava servizio presso la città-castello della mia terra d’origine» (pp. 55-56).

    «Riguardo all’esito finale, l’insurrezione di Meisuke culminò in un successo totale, dal momento che obbligò i potenti dello han ad accogliere le richieste dei contadini, sfruttati e ridotti all’indigenza estrema. Armati di sole lance di bambù, Meisuke e i suoi uomini si divisero in due drappelli di cinquanta unità e si lanciarono simultaneamente all’attacco dell’artiglieria nemica. Grazie a questa strategia, riuscirono ad avere la meglio e a marciare fino alla città-castello» (p. 129).

    Il mercante di cavalli diventa così, tra storia e leggenda popolare, cronaca documentaria e mito, Meisuke, capo della prima rivolta, e poi, dopo la sua morte in prigione, la sua giovane “Reincarnazione”. Al fianco di entrambi è la figura della “Madre di Meisuke” che adombra, mutatis mutandis, sia la Lisbeth sia la zingara di “Kohlhaas” e la cui importanza ‒ altro elemento interessante ‒ aumenta nel corso delle successive fasi di stesura della sceneggiatura, fino a capeggiare come guida di entrambe le ribellioni, per poi cadere vittima di infami violenze. Così, ancora, Kenzaburō:

    «Finora ho scritto della prima rivolta, inserendo il ruolo della di una giovane Madre di Meisuke che sostiene il figlio nell’ombra e modellandolo su Lisbeth, in particolare sulla sua funzione di sostegno nei confronti del marito Michael. Per quanto riguarda invece la seconda rivolta, la Madre di Meisuke, anziana e impegnata ad assistere la Reincarnazione di Meisuke, sarà plasmata a somiglianza della tenace zingara del romanzo. Inoltre cercherò di fare in modo che risulti sin dall’inizio come la principale ispiratrice delle due insurrezioni» (p. 115).

    Dopo vari rimaneggiamenti del testo, nonché un salto temporale in avanti che riporta le vicende all’oggi, la voce femminile di Sakura (il nome rimanda al fiore del ciliegio) diviene interprete, nella ripresa filmica di uno spettacolo teatrale in cui si concretizza finalmente l’iniziale progetto, di una litania ancestrale tutta al femminile, il cui titolo suona La madre di Meisuke scende sul campo di battaglia e le cui radici affondano nella storia della famiglia di Kenzaburō e della mitica foresta.

    daniela nelva

  5. Pingback: pagine di letteratura tedesca e comparata

  6. Sotera Fornaro says:

    Vorrei segnalare lo spettacolo berlinese ancora in cartellone al Gorki, Das Kohlhaas-Prinzip. Ne ho dato notizia in:

    http://www.stratagemmi.it/?p=7076

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