“The Interview Project Germany”: evviva la superficie!

 Michele Vangi

Che significa essere un conoscitore profondo di una cultura? Ho vissuto per molti anni in Germania, eppure spesso mi chiedo se posso dire di conoscere veramente questo paese.

Ma come si fa a conoscere una cultura? Comunemente si risponde a questa domanda sostenendo che non basta l’esperienza di vita sul posto a farci “entrare” in un paese in cui non si è cresciuti, essa va sostanziata da una profonda conoscenza della lingua e da molte letture. E poi bisogna visitare musei, andare al cinema e a teatro, senza trascurare la conoscenza dell’amministrazione e dell’ordinamento politico di quella nazione. Insomma avere interesse ad approfondire, a non fermarsi alle apparenze. Tutte cose buone e giuste.

È evidente, d’altra parte, che le buone maniere e le buone letture non ci immunizzano da pregiudizi e da luoghi comuni. Non mi riferisco solo alle più recenti polemiche giornalistiche che fanno riaffiorare i più triti dei reciproci stereotipi fra Italia e Germania, senza accrescere di un briciolo la nostra conoscenza e il nostro senso critico. Mi riferisco anche alle reazioni piccate ed emotive che risalgono da chissà quali profondità anche nelle coscienze di chi conosce bene una cultura straniera, per esempio quando si ha la sensazione che questa cultura altra non mostri sufficiente considerazione o rispetto nei confronti della propria.

Esiste quindi anche una profondità cattiva, una profondità viscerale che si ammanta talvolta di sovrastrutture concettuali raffinate e criticamente accorte. Ed esiste anche una superficialità buona che ha il merito di azzerare le polemiche e riportare la nostra attenzione su domande essenziali: “Che cosa vedi?”, “Che cosa sta dicendo chi ti sta parlando?”. Soprattutto chi si occupa di letteratura non dovrebbe mai smettere di esercitarsi nell’osservazione e nell’ascolto attento dell’altro.

Mi piace pensare, inoltre,  che chi conosce e ama un paese, in realtà trascina con sé una pluralità di immagini di luoghi e persone. Il mio transito in Germania è stato segnato dunque non solo da letture, ma anche da incontri e da scontri con individui, ognuno con la propria storia. Mi riprometto dunque di non scordare che i volti, le voci, i colori, perfino gli odori, non hanno avuto un peso minore dei testi, dei dipinti, dei film e della musica.

Ecco perchè un progetto come The Interview Project Germany di Austin Lynch, figlio del più noto regista David, ha il pregio di riportarci alla presunta banalità della superficie che si contrappone alla presunta profondità di un dibattito che non appassiona più. Qualcuno finalmente si alza e apre la finestra, facendo entrare nella stanza aria fresca.

Non si è così ingenui da credere al mito dell’oggettività, perché è ben visibile – quasi esibito – il carattere costruito di questa impresa. Mi affascina però la sua essenzialità che ne costituisce ratio e forma: la troupe si è avvicinata al paese reale attraverso semplici interviste e semplici sono anche le domande poste: “Come è stata la tua infanzia? In che modo ti descriveresti? C’è qualcosa che rimpiangi? Quale è stata l’esperienza decisiva della tua vita? …”.

Il caso gioca un ruolo fondamentale: gli incontri durante il viaggio di 27 giorni, che la troupe ha compiuto in Germania nel 2010 da ovest a e est e da nord a sud, non erano programmati.

David Lynch – che con la sua Absurda è coproduttore del progetto, sperimentato con successo l’anno prima negli USA –spiega, nella sue scarna introduzione, che il piano che c’è dietro il progetto è di non avere avuto un piano.

Il montaggio e l’editing hanno poi fatto il resto, riversando questo materiale in un formato visivo e in una presentazione web – completamente open source – volutamente spartani. Le 50 clip di circa quattro minuti l’una, seguono matrici standardizzate che ricordano tanti francobolli: struttura (presentazione, intervista, titoli di coda) e successione delle inquadrature sono quasi sempre le medesime (interessante l’idea di far scorrere, ad un certo punto delle interviste, il sonoro su piani a figura intera, piani americani e primi piani muti degli intervistati).

Il sito di Interview Project Germany è così scarno nella  struttura che invano si cercherebbero gli extra-credits a cui l’intrattenimento audiovisivo ci ha mal abituato. L’aver ingabbiato la varietà nella serialità risulterà a molti stucchevole, eppure favorisce la concentrazione su ciò che si ascolta e ciò che si vede. Si tratta di un interessante sforzo di condensazione nel frammento, spinto talora fino al parossismo, come quando Lynch, nelle sue mini-introduzioni, riassume l’intervista  – e forse l’intera esistenza dell’intervistato – in frasi di candida banalità: “Il miglior amico di Margot è il suo cane Daisy”. “Glenn ama andare in bicicletta”, “La troupe ha incontrato Robert sotto un albero di mele”. Enjoy the interviews!

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